La questione dell'educazione al tempo del relativismo

Identikit di un'emergenza inevitabile


In occasione del 140 ° anniversario della fondazione del collegio arcivescovile San Carlo a Milano, il cardinale vicario emerito della diocesi di Roma tiene, nel pomeriggio di lunedì 2 febbraio, una lectio magistralis. Ne pubblichiamo ampi stralci.

di Camillo Ruini

La parola "paradosso" secondo il dizionario della lingua italiana di Devoto e Oli significa, in conformità alla sua origine greca, affermazione sorprendente, e più precisamente "proposizione formulata in apparente contraddizione con l'esperienza comune, ma che all'esame critico si dimostra valida". Chiedersi se l'educazione sia diventata un paradosso vuol indicare dunque da una parte la sua permanente importanza e necessità, dall'altra le sue attuali difficoltà, anzi una sua apparente impossibilità, o almeno il suo carattere controcorrente, nel contesto socio-culturale in cui viviamo.
Un anno fa, nel gennaio-febbraio 2008, Benedetto XVI, in una lettera alla diocesi di Roma e poi in una grande udienza in piazza San Pietro, riassumeva una situazione di questo genere nella formula "emergenza educativa", che poi è stata abbondantemente ripresa perché esprime una sensazione diffusa in Italia e, perfino più acutamente, in molti altri Paesi. Educare non è mai stato facile, osserva il Papa, e oggi sembra diventare sempre più difficile. Lo sanno per esperienza i genitori, gli insegnanti, lo sappiamo noi sacerdoti, come tutti coloro che a vario titolo si occupano di educazione. Sembrano aumentare cioè le difficoltà che si incontrano nel trasmettere alle nuove generazioni i valori-base dell'esistenza e di un retto comportamento, nel formare quindi persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita. Naturalmente ogni regola ha le sue eccezioni e in concreto sembra a sua volta un paradosso venire a parlare di paradosso e di emergenza educativa in questo Collegio San Carlo che fortunatamente è un luogo di eccellenza dell'educazione a Milano, ma il dato generale dell'emergenza educativa rimane difficilmente contestabile, anzi è praticamente incontestato.
Per spiegarlo non basta richiamare la cosiddetta "frattura tra le generazioni", nel nostro tempo certamente più profonda e più condizionante che in passato:  essa infatti sembra essere l'effetto, piuttosto che la causa, della mancata trasmissione di certezze e di valori. Ancora meno senso ha far carico di questa frattura e dell'emergenza educativa alle nuove generazioni, come se i bambini di oggi fossero diversi e "più difficili" rispetto a quelli che nascevano nel passato. Ma probabilmente è anche poco utile e troppo sbrigativo, o comunque insufficiente, attribuire tutte le responsabilità agli adulti di oggi, come se, per loro carenze, non fossero più capaci di educare. È certamente forte e diffusa, tra i genitori come tra gli insegnanti e in genere tra gli educatori, la tendenza a rinunciare.
Non vorrei essere frainteso. Non ho mai condiviso quelle tendenze allo "scaricabarile" che attribuiscono tutte le colpe a un'imprecisata "società" e negano le responsabilità personali:  nel nostro caso sia quelle degli educatori sia anche quelle dei ragazzi e dei giovani che sono i soggetti dell'educazione. Non mi sembra fondato però mettere principalmente l'accento sulle carenze delle persone. Non basta nemmeno chiamare in causa le pur evidenti lacune e disfunzioni del nostro sistema scolastico, come del resto di quelli di molti altri Paesi.
Una spiegazione seria dell'emergenza educativa in cui ci troviamo rimanda piuttosto al predominio del relativismo nella nostra cultura e vita sociale. In questo senso Benedetto XVI ha parlato più volte di "dittatura" del relativismo, e alla luce di questa ha affermato che l'emergenza educativa oggi è, in certa misura, un'emergenza inevitabile. Quando infatti vengono a mancare, anche solo come orizzonte della nostra vita, la luce e la certezza della verità, al punto che, anche e particolarmente in ambito educativo, lo stesso parlare di verità viene considerato pericoloso e "autoritario", e parallelamente, sul piano etico, si ritiene infondato e lesivo della libertà ogni riferimento a un bene "oggettivo", che preceda le nostre scelte e possa essere il criterio della loro valutazione, diventa inevitabile dubitare della bontà della vita e della consistenza dei rapporti e degli impegni di cui la vita è intessuta. È ancora un bene, allora, essere una persona umana? Vivere può ancora avere un significato? Come sarebbe possibile, entro questo quadro di riferimento culturale, proporre ai più giovani e trasmettere da una generazione all'altra qualcosa di valido e di certo, delle regole di vita, un significato e degli obiettivi consistenti per la nostra esistenza e per il nostro futuro, sia come persone sia come comunità? Non è strano, allora, che l'educazione tenda a concentrarsi sulle questioni che chiamerei di "tecnica educativa", certamente importanti ma non decisive, e a ridursi alla trasmissione di informazioni e di specifiche abilità, mentre si cerca di appagare il desiderio di felicità delle nuove generazioni colmandole di oggetti di consumo e di gratificazioni superficiali. Ma proprio così abdichiamo al nostro compito educativo e non offriamo ai più giovani quello di cui hanno anzitutto bisogno:  dei fondamenti solidi su cui costruire la loro vita.
Il filosofo Umberto Galimberti, in un libro recente che ha avuto molta fortuna, intitolato L'ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, ha offerto una diagnosi del disagio giovanile che direi complementare a quella proposta da Benedetto XVI, riconducendo il malessere diffuso tra la gioventù a una causa culturale, l'atmosfera nichilista del nostro tempo. Il nichilismo e il relativismo sono infatti intimamente connessi e, tra i due, il nichilismo sembra essere il fenomeno più ampio e più radicale, capace di un influsso pervasivo di cui forse non siamo abbastanza consapevoli. Anche senza fare nostro il giudizio di Heidegger che il nichilismo costituirebbe il destino della nostra epoca, è difficile negare che esso rappresenti una specie di spirito del nostro tempo, diagnosticato per primo da Nietzsche, che giustamente lo ha fatto risalire alla "morte di Dio", cioè alla fine della presenza di Dio nella nostra cultura, una fine che Nietzsche e dopo di lui tanti altri, compreso Galimberti, ritengono irreversibile. È questa, secondo la penetrante e preveggente intuizione di Nietzsche, la vera radice della caduta, o della "transvalutazione", di tutti i valori, e quindi del fenomeno complessivo del nichilismo. In concreto è difficile non vedere, alla radice degli aspetti più inquietanti della vita della nostra società e quindi anche della strana stanchezza, del desiderio di evasione e dello smarrimento morale di molti giovani, e pertanto dell'emergenza educativa, la presenza pervasiva e "distruttiva" del nichilismo.
Mi sembra necessario richiamare una terza dimensione della cultura diffusa, a sua volta collegata con il relativismo e il nichilismo, che mina alla base un'educazione autentica. Potremmo chiamarla "naturalismo", o più esattamente riconduzione e riduzione dell'uomo a un elemento della natura:  già il Concilio Vaticano ii, nella Gaudium et spes (numero 14) aveva individuato questo rischio denunciando la tendenza a considerare l'uomo "soltanto una particella della natura". Oggi il rischio è molto aumentato, perché sta diventando egemone l'idea che il soggetto umano non sia altro che un risultato dell'evoluzione cosmica e biologica:  certamente il suo risultato più alto, almeno per ora e nella piccola porzione dell'universo da noi meglio conosciuta, ma pur sempre un risultato omogeneo a tutti gli altri, in particolare agli animali superiori a noi più vicini nelle linee evolutive. In questa ottica i caratteri propri della nostra specie, in ultima analisi l'intelligenza e la libertà, non vengono certo negati, ma considerati semplicemente sviluppi e affinamenti ulteriori di capacità cerebrali evolutesi progressivamente.
Per cogliere in tutto il suo spessore questa riduzione dell'uomo alla natura bisogna aggiungere un suo ulteriore fattore propulsivo. Negli ultimi decenni le scienze empiriche e le tecnologie, nella loro sempre più stretta connessione che spinge a parlare di "tecnoscienza", hanno avuto decisivi sviluppi nelle loro applicazioni all'uomo, con quelle che chiamiamo "biotecnologie". Attraverso di esse si aprono sempre più rapidamente nuovi scenari, che non riguardano soltanto la cura e la prevenzione delle malattie, ma la trasformazione del soggetto umano, anche in quello che è il suo organo fondamentale, il cervello:  per questa via, a parere di non pochi intellettuali e uomini di scienza - ad esempio di Aldo Schiavone, che al riguardo ha scritto un saggio assai interessante, dal titolo Storia e destino - l'evoluzione della nostra specie potrebbe essere sottratta ai ritmi lentissimi della natura e affidata invece a quelli rapidissimi della tecnologia.
È chiaro però che se cambia il nostro concetto di uomo, e a maggior ragione se dovesse cambiare la realtà stessa dell'uomo, cambia a sua volta il concetto di educazione ed entrano in crisi, o comunque in grande movimento, tutti i nostri parametri educativi. A mio parere è proprio questo ciò che sta avvenendo, anche se per ora molti non se ne rendono conto. L'educazione infatti, nella sua essenza, è formazione dell'uomo, della persona umana, e non può che definirsi e strutturarsi in vista di tale obiettivo. In concreto, sta cambiando di significato quella definizione classica dell'uomo come animal rationale (animale ragionevole) di origine greca e più precisamente aristotelica ma poi corroborata e internamente potenziata dall'idea ebraico-cristiana dell'uomo come immagine di Dio, che ha retto attraverso i secoli la nostra civiltà. Il suo senso concreto è che l'uomo, in quanto animale, appartiene a pieno titolo alla natura ed è sottomesso alle sue vicende e alle sue leggi, ma in quanto razionale ha, rispetto a tutto il resto della natura, un insormontabile differenziale ontologico. Proprio questo differenziale viene ora radicalmente ridimensionato, anzi negato nel suo carattere di differenza essenziale e insuperabile. In questa negazione convergono un certo modo di intendere l'evoluzione biologica e la tendenza delle scienze empiriche a considerare l'uomo come un "oggetto", come tale conoscibile e "misurabile" attraverso le forme dell'indagine sperimentale:  questo approccio è certamente legittimo, anzi indispensabile per il progresso della conoscenza e della cura di noi stessi, ad esempio per la cura delle malattie fisiche e mentali. Quando però, cedendo a un tipo più o meno nuovo di scientismo, si considera quella scientifica come l'unica forma di conoscenza del nostro essere che sia davvero valida e universalmente proponibile, si finisce con il negare che l'uomo sia anzitutto e irriducibilmente "soggetto" ossia persona, il quale, proprio nella sua intrinseca e ineliminabile soggettività, non può mai essere totalmente oggettivato e non può essere conosciuto adeguatamente attraverso le scienze empiriche.
All'interno di queste coordinate culturali, che sopprimono la differenza essenziale dell'uomo dal resto della natura e tendenzialmente lo riducono a un oggetto, diventa assai difficile, o meglio logicamente impossibile, mantenere quel primato assoluto della persona umana, per il quale essa - e solo essa - ha una dignità assoluta e inviolabile, va considerata e trattata cioè, per usare le parole di Emanuele Kant, sempre come un fine e mai come un mezzo o, come dice il concilio Vaticano ii (Gaudium et spes, 24), è la sola creatura sulla terra "che Dio abbia voluto per se stessa". Le conseguenze sono evidenti per il concetto e la pratica dell'educazione, ma anche per tutti i nostri comportamenti e per l'assetto globale della società.
Vorrei ora, seguendo da vicino gli interventi che ho già ricordato di Benedetto XVI sull'emergenza educativa, riflettere con voi su alcune condizioni di base per un'educazione autentica. Il primo e più necessario contributo alla formazione della persona rimane sempre quello che proviene dalla vicinanza e dall'amore, a cominciare naturalmente da quella fondamentale esperienza dell'amore che i bambini fanno, o almeno dovrebbero fare, con i loro genitori. Ogni vero educatore sa che per educare occorre donare qualcosa di se stessi e che soltanto così si possono aiutare i più giovani di noi ad acquistare fiducia, a superare progressivamente il narcisismo iniziale e a diventare a propria volta capaci di amore autentico e generoso.
Nella prospettiva della formazione della persona va anche inquadrata la questione forse più controversa e dibattuta in ambito educativo:  quella del rapporto reciproco tra libertà e disciplina. Non per caso tutte le grandi tradizioni educative fanno leva su precise regole di comportamento e di vita:  senza di esse infatti non si forma il carattere e non si viene preparati ad affrontare la realtà della vita. Personalmente ritengo quindi un errore gravido di conseguenze negative, che ormai sono sotto gli occhi di tutti, quella brusca svolta per la quale, una quarantina di anni fa, si è ritenuto che la disciplina fosse una forma di autoritarismo nocivo al pieno sviluppo delle potenzialità della persona. Al tempo stesso il rapporto tra l'educatore e l'allievo è pur sempre l'incontro tra due libertà, una delle quali in formazione, e l'educazione ben riuscita è formazione al retto uso della libertà. Man mano che il bambino cresce, diventa un adolescente e poi un giovane, bisogna dunque accettare il rischio della libertà, rimanendo però sempre attenti ad aiutare a correggere le scelte sbagliate. Quello che invece non dobbiamo fare è assecondare gli errori, fingendo di non vederli, o peggio condividendoli come se fossero espressione di creatività e di libertà personale.
Un ultimo aspetto su cui vorrei richiamare l'attenzione riguarda qualcosa di cui di solito non si parla, o meglio si parla solo in termini negativi. Mi riferisco al rapporto tra educazione e sofferenza, educazione ed esperienza del dolore. Nella mentalità diffusa la sofferenza - fisica o morale - è quell'aspetto oscuro della vita che è meglio mettere tra parentesi e da cui in ogni caso bisogna preservare il più possibile le giovani generazioni. La sofferenza però fa parte della realtà e della verità della nostra vita. Cercando di tenere i più giovani al riparo da ogni difficoltà ed esperienza del dolore rischiamo perciò di far crescere, al di là delle nostre intenzioni, persone fragili, poco realiste e poco generose:  la capacità di amare e di donarsi corrisponde infatti alla capacità di soffrire, e di soffrire insieme. Per essere completa e adeguata, o meglio pienamente umana, l'educazione deve piuttosto cercare di non lasciare senza risposta gli interrogativi che la sofferenza, soprattutto la sofferenza innocente, e alla fine la morte stessa pongono alla nostra coscienza.



(©L'Osservatore Romano 2-3 febbraio 2009)
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