In morte di Fernanda Pivano

Per non tradire l'autore
dimenticava se stessa


di Claudio Toscani

Un impensabile giorno della sua maturità, a Fernanda Pivano fu tolto tutto:  amore coniugale, famiglia, compagnia, serenità. Oggi, lei viene tolta a noi dopo lunga e piena esistenza, ma soprattutto dopo fervide mediazioni culturali e inestimabile divulgazione della letteratura nordamericana tra primo e secondo Novecento.
Nata a Genova nel 1917, Fernanda Pivano ebbe un'infanzia "superprivilegiata", com'ebbe a dire lei stessa. Un padre importante e bonario, una madre sorridente e dolce, una nonna bellissima e favolosa, un fratello innocentemente birbante, nel contesto di un antifascismo non ancora drammatico. Una specie di personale età dell'oro che non ha mai cessato di ricordare lungo tutta la sua vita.
Alunna liceale di Cesare Pavese e compagna di classe di Primo Levi, avrebbe conseguito un diploma e due lauree:  il primo nel 1940, in pianoforte - per cui insegnerà al Conservatorio di Milano, sia pure materie letterarie - mentre le altre, una nel 1941 in lettere con una tesi su Moby Dick, di Melville, e la seconda nel 1943 in filosofia, diventando assistente di pedagogia alla cattedra di Nicola Abbagnano fino al 1960. Studi, incontri, amicizie, scoperte e avventure facevano intanto della giovane Fernanda una personalità sensibile, generosa, affettuosa e, dentro un'ingenuità di fondo, una donna rigorosa e severa che avrebbe affrontato "in piedi", come si dice, dolori, delusioni, rabbie e solitudini della vita. Complice Pavese, pubblicò nel 1943 la sua prima opera tradotta, quell'Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters, che subito la rivelò al mondo letterario  internazionale e alla quale faranno seguito altre versioni di molti romanzieri americani - da Anderson a Hemingway, da Faulkner a Fitzgerald, da Wright a Cooper alla Stein - quasi tutte precedute da saggi critico-biografici. Lei però, in proprio, aveva letto e leggeva intanto Cechov, Flaubert, Maupassant, Thomas Mann e Döblin.
Al ritorno dal suo confino - il regime l'aveva fatto arrestare in classe e la Pivano ha ricordato spesso con inalterato orrore lo scatto delle manette ai polsi del suo professore - Cesare Pavese tornò a coinvolgerla in una serie di lavori che caratterizzeranno la carriera della già così promettente allieva e amica, a cominciare da La balena bianca e altri miti, del 1961. Poi, saranno via via proposte e circostanze critiche attorno agli scrittori contemporanei più rappresentativi d'America, dagli esponenti del movimento nero ai protagonisti del dissenso non violento degli anni Sessanta, fino agli autori più giovani - Leavitt, McInerney, Ellis e altri. Da questa profonda conoscenza della realtà americana, unita alla sua profonda vena internazionalista, nacquero alcune opere, fra cui America rossa e nera, del 1964, L'altra America degli anni Sessanta, del 1971, Beat Hippie Yippie, del 1972 e C'era una volta un beat, del 1976, che esce in contemporanea con Mostri degli anni venti. "Patrona" di molti scrittori americani, li "importò" tutti in Italia, tra traduzioni, prefazioni, biografie e analisi, appunti, ricordi, ritratti, schizzi e dialoghi, resi con insuperabile trasparenza critica e umana, frutto di familiarità e studio, frequentazione e lavoro valutativo. Sapeva essere anche gentilmente provocatoria, perché gli incontri che veniva facendo con soggetti tutt'altro che pacifici e pazienti - da Faulkner a Hemingway, da Dos Passos a Miller, da Anaïs Nin a Fitzgerald, tra i più "anziani", poi con i "giovani" Ginsberg e Kerouac, Corso e Ferlinghetti, Bourroghs e Easton Ellis - non sempre prendevano pieghe raccomandabili, attraversate spesso e volentieri da straripanti e combustibili dibattiti. Lei li ha raccontati tutti questi personaggi, mille volte nei suoi libri, nelle interviste, negli articoli, e ogni volta in magnetici flash o taglienti affondi, portando a valle dei lettori un torrente in piena di dettagli culturali, esistenziali e psicologici. Era il suo "sogno americano", questo, che veniva completandosi in un'altra serie di scritti, dalla famosa biografia Hemingway, del 1985, ad Amici scrittori, del 1995, da Album americano, del 1997, a I miei quadrifogli, del 2000, a Dopo Hemingway, del 2001.
La sua tecnica?
"Dimenticare il proprio modo di scrivere per capire e riportare il modo di scrivere dell'autore tradotto", in piena umiltà, se pur con acribia, con scrupolo filologico non esente da necessaria immaginazione.
Libri, arte ed emozioni d'America - tra Pollok e Rothko, Lichtenstein e Rauschenberg - quadri, ritmi, disperazioni e sogni di autori quali Salinger, Norman Mailer, Kurt Vonnegut, Heller, sino ai più vicini Don DeLillo, Erica Jong, Carter e New Wave:  sogni e divagazioni, fantasmi e realtà di una letteraria on the road durata parecchi decenni.
E sino a ieri, tempo di consegna di un'Autobiografia presumibilmente fluviale, riepilogativa d'un interminabile "secolo breve".
Ma non fu solo una rara, se non unica, intermediaria culturale e letteraria la Pivano:  due romanzi, assolutamente suoi, stanno a dimostrarlo:  Cos'è mai la virtù, del 1986, e La mia Casbah, del 1988. Ed è la Pivano che dice io, dopo aver tanto praticato le "terze persone". E se nel libro del 1986 svela un'imprevista difesa di valori morali come la fedeltà e la monogamia, la virtù e il pudore, lei che era stata amica e testimone di figure libertarie e trasgressive, in quello del 1988 torna in un certo senso sugli stessi argomenti, e a fronte delle tante vite sventate di cui è stata la depositaria intellettuale, mostra con superiore dignità un inventario di destini improbabili e vagabondi, storie umane ai limiti dell'accettabilità di fronte alla speranza di riscatto e a una auspicata capacità di vivere altrimenti.



(©L'Osservatore Romano 20 agosto 2009)
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