Con l'«Edipo a Colono» di Sofocle cala il sipario sulla drammaturgia ateniese

L'Hitchcock dell'antichità
che inventò il colpo di scena


di Marco Beck


Il buio di Edipo e la luce di Colono Edipo:  "Il posto in cui debbo morire (...) vi darà difesa, meglio di mille guerrieri e mille alleati", perciò "siate felici, e ricordate nella buona sorte me, dopo morto, voi sempre sereni!". Quando fra il 407 e il 406 prima dell'era cristiana, pochi mesi prima di spegnersi alla veneranda età di novant'anni, Sofocle dava compimento al suo Edipo a Colono - l'ultimo grande frutto del teatro classico greco, la tragedia con la quale calava il sipario sull'irripetibile stagione della drammaturgia ateniese - la profezia da lui posta in bocca al vecchio re cieco giunto supplice da Tebe ad Atene poteva ancora reggersi su un disperato atto di fede nella protezione degli dèi, garantita appunto dalla presenza del sepolcro di Edipo nel demo di Colono. Pur dissanguata dalla feroce guerra del Peloponneso, pur asfissiata dalla morsa degli spartani, la città del Partenone poteva ancora lanciare la sfida della sua superiore civiltà artistico-letteraria contro la preponderanza militare degli eterni nemici. Nel 404, due soli anni dopo la morte di Sofocle, cadde ogni residua illusione:  sfinita da un lungo assedio, Atene capitolò. Più per calcolo politico che per generosità, i vincitori non la distrussero. Ma imposero il regime oligarchico dei trenta tiranni. Né fu vera democrazia quella restaurata da Trasibulo nel 403, responsabile nel 399 della condanna a morte di Socrate. In un clima così conflittuale l'annuncio di felicità e serenità nella sicurezza della polis dovette risuonare amaramente ironico quando l'Edipo a Colono andò in scena postumo, nel 401, nell'allestimento di un omonimo nipote dell'autore.
Sofocle si era dunque ingannato per eccesso di amore verso la sua patria? Aveva dato voce a una spes contra spem condivisa con i suoi concittadini? O forse, al tramonto di una vita ricca di passioni e successi, si era nostalgicamente voltato indietro, verso i secoli dell'ascesa, della fioritura economica e culturale, del trionfo sui persiani, verso gli anni beati della sua giovinezza e maturità?
Qualunque intento o sentimento avesse promosso la trasfigurazione drammaturgica del patto intercorso nel non-tempo del mito fra l'esule re tebano - parricida, marito incestuoso, rifiutato dal consorzio umano - e Teseo - il magnanimo sovrano ateniese, pronto a concedergli asilo e accompagnamento verso l'ingresso nell'oltretomba - una cosa è certa:  smentita dalla storia dell'antichità, la profezia di Edipo si è in larga misura avverata nel dominio metastorico della letteratura universale, per Atene, per il suo teatro tragico, e in particolare proprio per Sofocle. Delle oltre centoventi tragedie sgorgate dalla sua prolifica vena, sette (forse le migliori in assoluto) si sono salvate dal naufragio dell'età tardoantica e del medioevo. Finendo, grazie agli umanisti bizantini, per essere reincorporate nel patrimonio letterario, teatrale e filosofico dell'Occidente. Con una posizione di privilegio accordata al trittico tebano:  Antigone, Edipo re, Edipo a Colono.
Sullo sfondo di ripetute e affollate rappresentazioni di taglio più o meno filologico, in sedi canoniche come il teatro greco di Siracusa (sotto l'egida dell'Istituto Nazionale del Dramma Antico) ma anche in sale "generaliste", il panorama della "fortuna" sofoclea si è ultimamente arricchito di due nuovi, importanti episodi editoriali:  Edipo di Sofocle, Seneca, John Dryden e Nathaniel Lee, Jean Cocteau, a cura di Guido Avezzù (Venezia, Marsilio, 2008, pagine 376, euro 9,50); Edipo a Colono, introduzione e commento di Giulio Guidorizzi, testo critico a cura di Guido Avezzù, traduzione di Giovanni Cerri (Milano, Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori, 2008, pagine LXXXIV-444, euro 30,00).
La rivisitazione di quattro esemplari interpretazioni del tema edipico, dal mondo ellenico-romano sino al Novecento, si inscrive in un'intelligente collana diretta da Maria Grazia Ciani, "Variazioni sul mito", che ha già tracciato analoghe piste di lettura per Elena, Medea, Fedra, Alcesti, Antigone, Elettra e altri archetipi teatrali. L'ineludibile punto di partenza adottato da Avezzù è naturalmente l'Edipo re (tradotto dalla Ciani), quintessenza dell'idea stessa di "tragico", non a caso apprezzato da Aristotele, nella Poetica, come paradigma di assoluta eccellenza, per la capacità di far emergere l'atroce verità da un labirinto di enigmi e di inganni, in un'inesorabile progressione - potremmo aggiungere, restituendo al teatro una formula oggi applicata in genere ai thriller - di "colpi di scena". Del resto, non è una sorta di indagine poliziesca ante litteram quell'affannoso interrogarsi di Edipo sui misteri che lo circondano e che culminano nel mistero infine svelato della sua identità, della sua duplice, involontaria, abominevole colpa?
Simbolo della volontà individuale in lotta, per la libertà dell'agire umano, contro l'invincibile violenza di forze oscure, divine o demoniache, e per l'utopica affermazione del lògos contro la tyche, della ragione contro l'irrazionale (dissimulato nelle ambigue sentenze degli oracoli), quell'Edipo che si autoacceca per punirsi della mancata conoscenza di se stesso, e che solo dopo aver spento la luce degli occhi comincia paradossalmente a "vedere", è inseparabile dall'antropologia della cultura occidentale. Lo introiettò anche il mondo romano, come testimonia l'Oedipus di Seneca. Riprodotta da Avezzù nella traduzione di Paolo Mantovanelli, la versione elaborata dal filosofo-drammaturgo riflette la cupezza dell'epoca neroniana e il gusto del macabro che contrassegna tutto il teatro senecano:  incalzato da apparizioni di fantasmi, segnali funesti e dubbi lancinanti, il protagonista si dibatte fin dall'inizio sotto una pesante cappa di angoscia, che anticipa come ineluttabili sia il suicidio di Giocasta sia il successivo autoaccecamento.
Riaffiorato dall'oblio nel Cinquecento, il filone edipico riprese presto a scorrere copioso. A inaugurare il Teatro Olimpico di Vicenza, nel 1585, fu proprio un Edipo tiranno di Orsatto Giustiniani, fedele al modello sofocleo. Fra XVI e XVIII secolo apparvero sulle scene europee non meno di venti nuovi Edipo, compresi quelli di Corneille (1659), Tesauro (1661) e Voltaire (1718). Fra tutte queste "variazioni sul tema" il curatore del volume marsiliano privilegia l'Oedipus (1678) della coppia inglese formata da Dryden e Lee, presentandolo in una prima traduzione italiana firmata da Marisa Sestito. L'opera si caratterizza per una singolare mescolanza tra Sofocle e lo Shakespeare dei drammi storici, oltre che per l'innesto di un subplot sentimentale nel corpo del plot principale, incentrato sull'ardore dell'eros tra madre e figlio.
Ma è all'inizio del Novecento che la figura di Edipo conquista il primato assoluto nel recupero dell'immaginario classico, in seguito alla lettura freudiana dell'Edipo re, inquadrata nell'Interpretazione dei sogni (1899) e rispecchiata dal dramma psicanalitico Edipo e la sfinge (1906) di Hofmannsthal. Punta estrema della psicanalizzazione novecentesca, in una cifra espressiva che dal tragico sfuma nel grottesco e nel farsesco (registri poi esasperati nella dissacrante parodia dell'Edipus di Testori, 1977), enfatizzando il tema dell'incesto, è la pièce di Cocteau La macchina infernale (1934), qui nell'inedita traduzione di Tobia Zanon.
Eppure l'Edipo più "moderno", quello che tuttora riesce a far vibrare in profondità le corde del nostro animo di smaliziati figli del XXI secolo, è il vecchio cieco e lacero, e tuttavia nobile di sovrumana dignità, condotto da Teseo fin sulla soglia degli inferi, nell'epilogo dell'Edipo a Colono:  il capolavoro senile che, con uno straordinario colpo d'ala, chiude il cerchio aperto dal capolavoro della maturità. Quali le ragioni di un fascino così incorruttibile? Le illustra lucidamente Giulio Guidorizzi nell'introduzione all'edizione scientifica da lui curata con Avezzù per la collana della Fondazione Valla:  la suggestione di un testamento spirituale condiviso dal novantenne Sofocle con un intero popolo sull'orlo del baratro; l'altezza di una meditazione più che mai attuale sui "massimi sistemi" (mistero dell'esistenza e della sua fine, conflitto tra morale politica e religiosa, rapporto tra oggettività della colpa e soggettività del castigo, inesorabilità di un destino pilotato da forze onnipotenti, fragilità della ragione e della giustizia umane). L'idealizzazione di Atene, baluardo di valori perenni quali l'ospitalità ai supplici, l'opposizione agli arroganti, il rispetto delle leggi, il culto degli dèi. Il gioco delle tensioni soggiacenti a una tragedia statica ma non priva d'azione. La "sorpresa" del riscatto finale di un uomo prima umiliato e poi elevato al rango di eroe. La purezza di un linguaggio che tocca vertici di poesia sublime nel corale celebrativo della "migliore dimora della terra, la candida Colono".
Alla luce di quel simbolico candore si vorrebbe, ancora oggi, poter essere compatrioti di Sofocle nella dimensione dello spirito.



(©L'Osservatore Romano 27 marzo 2009)
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