Come leggere la «Caritas in veritate»

Niente sentimentalismi nella dottrina sociale


Carità globale. Commento alla Caritas in veritate (Città del Vaticano - Roma, Libreria Editrice Vaticana - Ave, 2009, pagine 178, euro 8) è il titolo di un volume che raccoglie alcune letture dell'ultima enciclica di Benedetto XVI. Pubblichiamo ampi stralci del contributo del preside della Facoltà teologica dell'Italia settentrionale, vescovo ausiliare di Milano.

di Franco Giulio Brambilla

Lungamente attesa, annunciata più volte come imminente, l'enciclica sociale di Benedetto XVI è giunta, tuttavia, come una sorpresa. Non solo per la sua felice pubblicazione in prossimità del vertice di risonanza internazionale dell'Aquila, che ha ritrovato il protagonismo dei Paesi emergenti, non ancora per la ripresa della Populorum progressio di Paolo vi, poco dopo il quarantesimo anniversario della sua pubblicazione (1967), ma soprattutto per la riproposizione del tema dello sviluppo integrale dei popoli nel contesto globalizzato sullo scenario della terribile crisi internazionale del 2008-2009.
Vent'anni dopo la caduta del Muro e delle ideologie allo scoccare preciso dei duecento anni - nemesi storica! - della Rivoluzione francese (1989), è avvenuta l'implosione dell'economia occidentale globalizzata, che perde il contatto vivo con la radice sociale e umana. L'enciclica è un forte richiamo che rappresenta quasi un manifesto per il nuovo bisogno di "etica sociale" che tenti di regolare l'avidità e talvolta la truffaldina voracità della finanza internazionale, senza riferimento al legame sociale, al rischio dell'imprendere e alla fatica del lavoro umano. Sullo sfondo sta lo scenario della terribile disparità tra i popoli del globo.
Del manifesto, però, l'enciclica non ha il tono declamatorio, ma quello di un disteso e pacato disegno argomentato, di una riflessione tenace che tesse pazientemente la trama di un arazzo di dimensioni mondiali, attraversato da tutte le armoniche che devono risuonare nell'ora presente. Né altrimenti ci si poteva aspettare dal "Papa teologo", che ci ha abituati allo spessore e al sapore della parola che dischiude al vero e al bene.
La cosa più sorprendente, che appare a un incontro più avvicinato con la scrittura dell'enciclica, è l'esercizio di interpretazione della dottrina sociale della Chiesa che il Pontefice ci propone. Si tratta di un caso di interpretazione "magisteriale" del Magistero sociale che, dalla Rerum novarum fino ai nostri giorni, ha assunto il tratto di un vero e proprio corpus dottrinale. All'analisi dei teologi di morale socio-politica, questo corpus appare come una costellazione dottrinale che non ha, e non pretende di avere, la forma di una trattazione organica e completa, ma piuttosto intende offrire il discernimento delle istanze del tempo a cui i diversi interventi papali fanno riferimento. Tuttavia, proprio l'embricatura degli anniversari, che sovente motivano la "ripresa" della dottrina sociale, suggerisce l'idea di un discorso completo della visione della fede cristiana in re sociali. Fino a farne materia di una trattazione di "Dottrina sociale della Chiesa", la quale assumerebbe la consistenza teologica del trattato di morale sociale. Nello spazio accademico, molte volte avviene che questa regione della morale cristiana sia concepita e proposta come un "commentario" al Magistero sociale, al massimo collocato nello sviluppo storico degli oltre cent'anni dalla "prima" enciclica sociale di Leone xiii.
Ed è qui che cade il tratto sorprendente dell'intervento di Papa Benedetto:  esso si presenta come un esercizio emblematico di quell'""ermeneutica della riforma", del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa", che il Papa aveva proposto in forma inattesa e nella cornice inconsueta del Discorso alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, il 22 dicembre 2005, appena all'inizio del suo pontificato. Quell'intervento colpì molti perché, celebrando i quarant'anni della chiusura del concilio Vaticano ii, rivendicava la continuità nel rinnovamento della Chiesa prima e dopo il concilio, rispetto a una superficiale "ermeneutica della discontinutà e della rottura" che si fondava sulla separazione tra spirito del concilio e sua traduzione testuale, inevitabilmente contrassegnata dal compromesso tra le diverse anime dei Padri conciliari. Per di più propiziata - non è un caso che il riferimento principale dell'enciclica sia a Paolo vi - dalla volontà del Papa bresciano di raccogliere attorno ai pronunciamenti conciliari il massimo del consenso.
L'encilica fa un esplicito riferimento (al numero 12 e alla nota 19) a questo discorso di metodo:  "Non ci sono due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare e una postconciliare, diverse tra loro, ma un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo" E se è "giusto rilevare le peculiarità dell'una o dell'altra Enciclica, dell'insegnamento dell'uno o dell'altro Pontefice, mai però perdendo di vista la coerenza dell'intero corpus dottrinale", d'altra parte "coerenza non significa chiusura in un sistema, quanto piuttosto fedeltà dinamica a una luce ricevuta" (Caritas in veritate, 12).
Nel Discorso del 2005 l'esemplificazione della "fedeltà dinamica" riguardava con grande piglio il punto più controverso della dottrina conciliare circa la libertà religiosa (si veda, in quell'intervento, la bella pagina con cui a partire dal caso Galileo si approda alla formulazione conciliare). Nell'enciclica l'esercizio dell'ermeneutica conciliare si distende pacatamente a rettificare la cesura tra prima e dopo il concilio per quanto concerne la dottrina sociale:  "La Populorum progressio e il concilio Vaticano ii non rappresentano una cesura tra il magistero sociale di Paolo vi e quello dei Pontefici suoi predecessori, dato che il concilio costituisce un approfondimento di tale magistero nella continuità della vita della Chiesa" (n. 12).
L'idea di "fedeltà dinamica", di "rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa" riprende la nozione di Chiesa che è traditio tradens e che trova nel traditum un suo necessario, ma non esaustivo discernimento delle istanze della storia. Essa esige, dunque, un'ermeneutica che non accentui le rotture, ma ritrovi sempre la continuità creativa (di guardiniana memoria) della vita e nella vita della Chiesa per potersi "rinnovare alle origini". L'atto ermeneutico è anzitutto un atto pratico con cui la Chiesa non solo ripensa i suoi principi dottrinali connettendoli all'origine della Parola di Dio, ma insieme discerne il tempo attuale dentro l'alveo della tradizione vivente.
Nel contesto del Discorso programmatico, il Papa ribadiva che "è proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma". Continuità a livello dei principi e delle decisioni strategiche, necessaria flessibilità a livello dei discernimenti pratici riferiti alle "decisioni (riguardanti) cose contingenti". Così il Papa suggeriva allora che "bisognava imparare a riconoscere che, in tali decisioni, solo i principi esprimono l'aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione dal di dentro. Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare" (ivi).
L'"ermeneutica della riforma" rimanda dunque a una "pratica del discernimento storico" (la vita della Chiesa nella sua creativa continuità), di cui la dottrina sociale della Chiesa rappresenta, per così dire, la condensazione della voce del magistero papale che rilegge e si riposiziona di fronte al mutamento sociale.
Prima di procedere a svolgere il tema dell'enciclica (lo sviluppo integrale dei popoli), il Papa sente il bisogno di collocarlo nel quadro del suo magistero complessivo, in particolare nel punto focale della sua prima enciclica programmatica Deus caritas est. L'audace introduzione riveste una duplice funzione:  collegare la dottrina sociale con il centro del Mistero trinitario, mostrando come la caritas teologale si irradi in re sociali; fornire un'interpretazione forte della caritas come principio istitutivo della dottrina sociale, che la sottragga a una comprensione ridotta e irrilevante. Come se la carità fosse solo un correttivo accanto e parallelo al principio della giustizia, su cui soltanto si reggerebbero i rapporti sociali:  "La carità è tutto perché, come insegna san Giovanni (cfr. 1 Giovanni, 4, 8. 16) e come ho ricordato nella mia prima Lettera enciclica, "Dio è carità":  dalla carità di Dio tutto proviene, per essa tutto prende forma, ad essa tutto tende. La carità è il dono più grande che Dio abbia dato agli uomini, è sua promessa e nostra speranza" (Caritas in veritate, 2).
Per evitare un'interpretazione "marginale" e "sentimentale" della carità rispetto ai rapporti sociali in ipotesi regolati dalla (sola) giustizia (e compresi alla luce della "sola" ragione, magari "laica"), Benedetto XVI sente il bisogno di potenziarne la nozione riferendola alla verità della visione dell'uomo, su cui non solo essa si deve misurare, ma che esprime esattamente la forma piena della vita umana, personale e sociale.
Di qui l'importanza strategica dell'introduzione all'enciclica, che forma, per così dire, il quadro di riferimento teorico della successiva ripresa della nozione di sviluppo integrale. Caritas in veritate indica l'asse con cui la carità è coestensiva a una comprensione solidale dei rapporti sociali:  essi sono giusti non solo se danno a ciascuno il suo, ma se si radicano e, insieme, alimentano quei legami sociali e culturali con cui l'uomo perviene a se stesso (la coscienza di sé), decidendosi dinanzi al proprio destino (il compimento personale) all'interno dell'alleanza sociale (il bene comune).
Proprio questo ingresso, che a taluni potrà apparire persino ardito, come se ci si trovasse in una baita davanti alla parete altissima che svetta sulla cima maggiore, è l'antidoto a una comprensione terapeutica e medicinale della caritas. Esso, infatti, curerebbe i rapporti nella città dell'uomo e nel concerto delle nazioni, una volta che la giustizia avesse fallito il suo compito, compensando i rapporti "giusti", quando fossero feriti e lacerati, con i rapporti "buoni" che provengono dall'iniziativa libera dei soggetti privati e/o di gruppo. In tal modo la carità teologale (la comunione con Dio e la comunione fraterna) non avrebbe un risvolto pubblico:  la "fraternità" che pure l'Illuminismo aveva emblematicamente indicato nella sua triade, nientemeno come erede della tradizione occidentale, non avrebbe alcun rilevo pubblico, se non perché raccoglie le vittime e cura i feriti lasciati sul campo nell'agone sociale.
Il valore "politico" della carità è risolto nella sua funzione terapeutica, ma non presiede e non alimenta il rapporto sociale. Per questo il Papa sente "il bisogno di coniugare la carità con la verità non solo nella direzione, segnata da san Paolo, della "veritas in caritate" (Efesini, 4, 15), ma anche in quella, inversa e complementare, della caritas in veritate. La verità va cercata, trovata ed espressa nell'"economia" della carità, ma la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità. In questo modo non avremo solo reso un servizio alla carità, illuminata dalla verità, ma avremo anche contribuito ad accreditare la verità, mostrandone il potere di autenticazione e di persuasione nel concreto del vivere sociale" (n. 2).
La caritas in veritate è, dunque, la sfida per sottrarre la dottrina sociale della Chiesa a una comprensione "sentimentale" dell'aspetto solidale che deve animare i rapporti tra gli uomini e tra i popoli. In un'espressione icastica, il Papa indica con chiarezza questa deriva:  "Un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali" (n. 4). "Marginali" rispetto alle regole del vivere civile, il quale non si lascerebbe in nessun modo dirigere dalle forme della relazione buona con l'altro, come se le forme buone della relazione libera fossero solo o terapeutiche o compensative dei modi vincolanti della relazione giusta, una volta fallita o ferita.
Occorre, dunque, arrivare a discutere lo schema che separa e accosta giustizia e carità. Afferma il Papa, infatti, che:  "La verità preserva ed esprime la forza di liberazione della carità nelle vicende sempre nuove della storia. E, a un tempo, verità della fede e della ragione, nella distinzione e insieme nella sinergia dei due ambiti cognitivi" (n. 5). La verità è ciò che consente di tenere insieme l'eccedenza della carità rispetto alla necessità della giustizia:  la carità eccede la giustizia solo se la include e la supera; la giustizia, però, può essere se stessa solo se si alimenta alla forma buona del rapporto sociale che deriva dall'eccedenza del dono e del perdono. Essa ha bisogno dell'alleanza tra gli umani che tende al "bene comune" (e non solo alla salvaguardia parcellizzata dei "beni comuni") come l'atmosfera che fa respirare i rapporti giusti, regolati dal diritto. Nei numeri 6 e 7, giustizia e bene comune sono indicati come le mediazioni operative della caritas in veritate. Essi non possono non riferirsi all'immagine dello sviluppo integrale dell'uomo. All'interno di tale quadro si dispiega il tema dell'enciclica.



(©L'Osservatore Romano 1 ottobre 2009)
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