Un programma di vetrate e dipinti contemporanei realizzato in una chiesa siciliana del Quattrocento

Come lampi di un domani tanto atteso


di Timothy Verdon

L'ebraismo prima e il cristianesimo poi, sono religioni di segni, e specificamente di segni visibili. Dio fa capire ad Abramo che avrà una discendenza quando, di notte, gli mostra il cielo tempestato di stelle; Gesù fa capire agli apostoli il senso del suo sacrificio quando, la notte prima di morire, prende del pane e un calice di vino, spiegando che in questi elementi è presente il suo corpo, il suo sangue. Potrebbe illustrare il significato soltanto a parole, con un discorso eloquente; ma prima preferisce segni visibili, di cui poi spiega il significato. Importante è l'ordine di queste azioni. Questa serie di rapporti tra le azioni di Dio e i segni da lui offerti; tra i segni e la visibilità; tra questa e le immagini - di cui la prima è Cristo stesso, Verbo fattosi carne perché noi "vedessimo" la sua gloria - spiega il rapporto storico tra l'arte e la liturgia. Non è un caso, infatti, che l'utilizzazione che la Chiesa ha fatto delle arti visive nella sua lunga storia sia principalmente "liturgica" e, aggiungiamo,"eucaristica". Ecco allora il senso della recente grande festa a Caccamo, nell'arcidiocesi palermitana dove è stato realizzato, nella quattrocentesca chiesa di Santa Maria degli Angeli, un importante programma di dipinti e vetrate incentrato sul tema evangelico della luce illustrato, in rapporto al rosario, da Giovanni Paolo II. Ogni opera per una chiesa ha carattere implicitamente liturgico, dicevamo, e in questo caso il programma è esplicitamente collegato all'azione liturgica maggiore, l'Eucaristia, con cinque delle nove opere collocate nel presbiterio, come sfondo visivo per la messa ivi celebrata. Così il senso della Parola proclamata nell'assemblea - il tema evangelico Mysterium lucis - nonché il fervore della devozione individuale del rosario, sono ricondotti all'atto fontale e culminante del Figlio di Dio, l'offerta di sé nel pane e nel vino:  segni umani del servizio del divino, traducendo in forme visibili quanto crediamo senza vederlo, Cristo realmente presente tra noi.
Tutto ciò, reso poi in linguaggi attuali, da artisti del nostro tempo chiamati a creare immagini contemporanee. Piero Gauli e Mario Pecoraino, i più anziani degli artisti presenti nel programma, nati rispettivamente nel 1916 e 1930, conservano un figurativismo colorato dai linguaggi d'avanguardia della prima metà del Novecento. Gli altri, o meglio, le altre, perché sono tutte donne - Carla Tolomeo, Alessandra Giovannoni, Miriam Partegato, Stefania Fabrizi - più giovani, sperimentano liberamente, dissolvendo contorni e semplificando le forme corporee. Tale pluralismo stilistico realizza perfettamente il principio enunciato dal concilio Vaticano ii, per il quale "la Chiesa non ha mai avuto come proprio uno stile artistico, ma, secondo l'indole e le condizioni dei popoli, e le esigenze dei vari riti, ha ammesso le forme artistiche di ogni epoca" (Sacrosanctum concilium, 123).
Nel discorso di chiusura del concilio l'8 dicembre 1965, Paolo VI rivolse agli artisti il celebre discorso in cui chiese loro di non rifiutare di mettere il proprio talento "al servizio della verità divina! Non chiudete il vostro spirito al soffio dello Spirito Divino!", implorava. In tempi più recenti, Giovanni Paolo II, nella Lettera agli artisti del 1999, andò oltre questo invito a riscoprire il sacro, affermando che "ogni forma autentica di arte è, a suo modo, una via di accesso alla realtà più profonda dell'uomo e del mondo" (n. 6). Un altro aspetto della questione viene messo in luce da Benedetto XVI, che, ancora cardinale, nell'introduzione al suo Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica, affermava che oggi più che mai, nell'odierna civiltà dell'immagine, l'immagine sacra può "esprimere molto di più della stessa parola, dal momento che è oltremodo efficace il suo dinamismo di comunicazione e di trasmissione del messaggio evangelico". A breve il Santo Padre avrà modo di spiegare agli artisti del nostro tempo il senso di questa straordinaria affermazione, quando - il 21 novembre - riceverà pittori, scultori, architetti, scrittori e altri nella cappella Sistina, a dieci anni dalla pubblicazione della Lettera di Giovanni Paolo II e a quarantacinque da un analogo incontro di Paolo VI con gli artisti di allora, sempre nella Sistina.
Una questione che l'incontro del Papa con gli artisti metterà a fuoco, e che il programma realizzato a Caccamo riapre concretamente, riguarda l'idoneità dell'arte contemporanea al contesto liturgico. La risposta definitiva al quesito dovrà venire dalla Chiesa e dagli artisti insieme:  dalla Chiesa, che a quasi cinquant'anni dal concilio cerca ancora adeguati termini teologici e antropologici in cui articolare per i contemporanei il senso dei grandi segni affidatile da Cristo; e dagli artisti, che i Papi post-conciliari hanno chiamato a dare il loro contributo a questo processo.
Gli artisti infatti sono sempre uomini e donne "di fede", anche se si proclamano non-credenti. Fanno cose. La fede, creativa, genera opere, e "se non ha le opere, è morta in se stessa" (Giacomo, 2, 17), come un'idea geniale che l'artista non traduce in un dipinto o in una statua. La fede poi è un terreno familiare agli artisti, che ogni giorno devono affrontare la fatica di tradurre intuizioni e idee, impressioni e osservazioni, concretizzandole in "opere". Sanno bene che l'unico modo di perfezionarsi è darsi da fare, buttarsi, rischiando il fallimento - lo spreco di tempo, di materiali, d'energia:  rischiando addirittura il ridicolo. Meglio di altri, capiscono come in Abramo "la fede cooperava con le opere" e "per le opere divenne perfetta" (ibidem, 21-22).
Ma gli artisti capiscono la dinamica della fede a un livello ancora più essenziale, identificandosi con il "rischio" e pathos dello stesso Artefice Dio. Sperimentano come intima speranza e necessità e sofferenza il desiderio di esternare un'idea che sfugge, un concetto "unico, molteplice, sottile, mobile, penetrante" (Sapienza, 7, 22) che magari sembra ricapitolare tutto ciò che l'artista sa di avere dentro, e che egli vuole, anzi "deve" condividere con altri, per farli vedere con i loro occhi e contemplare e toccare con le loro mani una cosa che, in lui "c'era fin da principio" (1 Giovanni, 1, 1). Non v'è artista che non si identifichi col Creatore che rischiò tutto pur di rendere la propria "vita (...) visibile" agli uomini (ivi).
La fede infatti è in sé un'arte. In primo luogo è un "dono", ma un dono che, come il talento, chi lo riceve deve sviluppare. Non parlo qui della "fede" come sistema:  mirabile compendio di credenze e tradizioni, ma dell'"atto" di fede, del "salto" di fede, del "rischio" per cui si passa da un'esistenza artigianale fatta di cause e di effetti, alla vita sperimentata come arte, vissuta come un'opera ispirata, aperta alla gratuità, informata dalla grazia. Le cause e gli effetti possono esigere vendette e guerre, imprigionando l'uomo; la grazia, che è verità gratuitamente donata, perdona e rende liberi. Sant'Agostino, quando parla della sua conversione, descrive questo salto di fede che è arte, e quindi implicitamente anche l'arte che ne può nascere. (Confessioni, 7, 10, 18). Un'altra luce, superiore, in cui l'uomo riconosce il senso sorgivo della propria esistenza ecco il traguardo autentico, oggi come ieri, dell'arte nel contesto liturgico - illuminare, rendendo visibili "quelle cose che occhio umano non ha mai visto" ma che lo Spirito rivela a chi crede in Cristo. Se poi tali cose non hanno la stessa forma delle cose del mondo, non ci deve sorprendere perché "il mondo passa con la sua concupiscenza" (1 Giovanni, 2, 17); e se i personaggi della storia sacra assumono forme inconsuete, questo rientra nella speranza cristiana, dal momento che, anche se noi credenti sappiamo di essere già figli di Dio, "ciò che saremo [in futuro] non è stato ancora rivelato" (ibidem, 3, 2a). Nel contesto della liturgia e massimamente dell'Eucaristia che celebriamo finché torni tra noi Cristo, l'arte deve offrire "oggi" immagini dell'atteso "domani" in cui Egli si manifesterà, e "noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come Egli è" (ibidem, 3, 2b).



(©L'Osservatore Romano 24 ottobre 2009)
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