Cavour e il suo amico francescano

La confessione
di uno scomunicato


Si apre il 5 novembre a Villa Cagnola di Gazzada (Varese) un convegno sul tema "Libertà religiosa e laicità dello Stato", organizzato dall'Istituto Superiore di Studi Religiosi e dalla Fondazione Ambrosiana Paolo VI. Pubblichiamo la conclusione dell'intervento del rettore della Pontificia Università Lateranense.

di Rino Fisichella

Nel suo Il Tevere più largo Giovanni Spadolini riporta un fatto storico che riguarda Cavour, il grande teorico della formula "libera Chiesa in libero Stato". "Una mattina del 1856, entrando nello studio di Cavour, il conte Ruggero Gabaleone di Salmour lo trova di un umore eccezionalmente buono, quasi con una punta di ostentata allegria. "Camillo, perché tu sia così allegro stamane bisogna che tu abbia concluso un buon affare", gli dice col suo tono affettuosamente confidenziale, il valoroso funzionario. "Sì, il migliore affare della mia vita", ribatte pronto Cavour. "Ho avuto la parola d'onore del mio curato, il padre Giacomo, che quando lo chiamerò al mio letto di morte verrà ad amministrarmi i sacramenti, senza esigere nulla che io non possa consentire con onore"". La testimonianza è dello stesso Salmour, l'uomo che aveva accompagnato l'ascesa di Cavour dal ministero delle Finanze a quello degli Esteri. Ed è una testimonianza insospettabile, che acquisterà tutto il suo significato e valore solo cinque anni più tardi, in quel tragico crepuscolo del 5 giugno 1861 in cui padre Giacomo varcherà il portone del palazzo Cavour e somministrerà al grande statista morente il viatico portato da Santa Maria degli Angeli, dietro una folla salmodiante e piangente; folla di semplici, folla di umili e di credenti. Com'è che il conte pensa alla morte? Se lo domanda, stupito, lo stesso fedelissimo conte di Salmour. "Davvero:  tu mi burli (...) pensare adesso alle precauzioni religiose!"; sono le precise parole con cui il Salmour risponde alle confidenze del grande ministro. E il conte, perdendo per un momento la piega di sorriso che illumina il suo volto abitualmente così teso:  "No, non ti burlo; ma non voglio che mi accada come al nostro povero Santa Rosa".
L'ombra di Santa Rosa perseguita "milord Camillo", lo statista cosmopolita e scettico che ha abbandonato le pratiche religiose fin da giovanissimo ma senza mai rinunciare all'ispirazione cristiana - inseparabile per lui dalla stessa visione liberale del mondo. Santa Rosa è uno dei ministri che nel gabinetto D'Azeglio del 1850 ha sottoscritto la legge sull'abolizione del foro ecclesiastico, la famosa "legge Siccardi"; è uno dei ministri, un tipico moderato del vecchio Piemonte, che per l'adesione a quell'atto di governo si è visto rifiutati i sacramenti religiosi pochi mesi più tardi, in ossequio alle censure ecclesiastiche che con lui avevano colpito tutti i membri del ministero. "Non voglio espormi a uno scandalo simile - confidava Cavour al Salmour - sono cattolico e voglio morire nella mia religione". Nel 1856, quando il conte pronunciava quelle parole, nessuno poteva certo prevedere che di lì a un lustro, proprio il 25 marzo 1861, Cavour sarebbe stato colpito dalla scomunica maggiore del Pontefice Pio IX insieme "a tutti gli autori, promotori, consiglieri e complici dell'attentato commesso contro la Santa Sede" (per l'annessione delle Marche e dell'Umbria seguita a quella delle legazioni romagnole). Ma una istintiva fiducia lo accompagnava. "Ora eccomi tranquillo - diceva sempre al Salmour - il curato è un santo e un galantuomo, e manterrà la sua parola".
Quel povero e candido francescano, che conosceva l'altezza morale del conte, manterrà infatti la sua parola. Quando la nipote, la prediletta Giuseppina Alfieri di Sostegno, accennò allo zio ormai agonizzante che padre Giacomo era arrivato e gli domandò con voce discreta e sommessa:  "Desiderate riceverlo un momento?", il conte capì immediatamente e, dopo un momento di raccoglimento, strinse la mano della pupilla e le rispose con tono inconsuetamente fermo:  "Fallo entrare". La voce di Cavour si era già fatta fioca e quasi rauca; momenti di allucinazione si alternavano a pause di lucidità. Le sofferenze erano crescenti; le cure inutili. Gli assurdi salassi lo avevano ulteriormente sfibrato; neppure il suo "medico" collega di governo e di lotte politiche, l'amico Luigi Carlo Farini, gli aveva potuto consigliare un rimedio adatto. Eppure il conte trovò la forza per restare solo, mezz'ora, con padre Giacomo, per prepararsi, attraverso la confessione, alla somministrazione del viatico che poche ore più tardi gli sarà portato dalla sua chiesa prediletta, dalla chiesa che lo aveva visto fanciullo e non lo aveva mai perduto.
Cosa si siano detti in quella mezz'ora padre Giacomo e Cavour, non fu mai rivelato. Il povero frate francescano subì, per quell'atto di suprema misericordia cristiana, i fulmini della curia papale, i rimbrotti spietati di Antonelli e dell'entourage antonelliano; ma non violò neppure per un attimo il sigillo sacramentale consacrato nella confessione. Chiamato a Roma, il giorno successivo alla morte del conte, per rendere ragione di quell'assoluzione concessa a uno scomunicato maggiore senza chiedergli la solenne ritrattazione delle colpe commesse verso la Chiesa - la stessa ritrattazione che era stata domandata invano al ministro Santa Rosa - ribatté con assoluta fermezza che egli era vincolato a un segreto, a un segreto che poteva sciogliere solo davanti a Dio. Perfino Pio IX, il Papa che pur aveva in grande stima Cavour, chiamò al redde rationem il parroco di Santa Maria degli Angeli, perse la sua calma paterna, si abbandonò a uno dei non rari momenti di collera. Nulla piegò l'intrepido sacerdote:  né il Papa né il tribunale dell'Inquisizione davanti al quale fu tradotto il giorno successivo. Resistenza che disarmò tutti, che piegò lo stesso cardinale Antonelli. Ad evitandum scandalum majus, la Santa Sede consentì al povero frate di tornare a Torino, non senza avergli imposto - e fu amara punizione - la rinuncia al ministero di parroco, l'abbandono della cura di anime.
Sennonché padre Giacomo conservò con sé il suo segreto:  il segreto che squarciava il futuro del secolo nuovo. Col suo atto, il silenzioso frate di Santa Maria degli Angeli aveva impedito che la frattura fra coscienza cattolica e coscienza nazionale diventasse completa e insanabile, proprio in quel momento supremo del Risorgimento che fu segnato dalla morte di Cavour. Con quel suo gesto di cristiana carità, il "frate galantuomo", di cui, solo, Cavour si fidava, aveva le vie al superamento dell'opposizione cattolica e dell'intransigenza laicista, aveva anticipato il periodo di quella "conciliazione silenziosa". All'indomani mattina, alle cinque e mezzo del 6 giugno, dopo la visita notturna del re, quando le condizioni del conte erano ormai disperate, padre Giacomo tornò ancora una volta al capezzale del morente. È Giuseppina Alfieri di Sostegno che racconta:  "Il conte lo riconobbe, gli strinse la mano e disse:  "Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato!". Furono le sue ultime parole. Il curato gli amministrò il sacramento dei moribondi in mezzo ai singhiozzi della famiglia, degli amici, dei domestici". "Oggi - commenta Spadolini - a cent'anni dalla morte di Cavour, è giunta l'ora di riaprire quei testi, di rimeditare quelle toccanti parole. C'è dentro tutto il segreto della storia italiana. Della storia di ieri ma anche di quella di domani. Il segreto per cui l'Italia diventò una libera nazione e potrà continuare a restarlo. A patto di non dimenticare quegli insegnamenti, di non smarrire quei valori supremi. Valori di coscienza:  più forti di ogni retorica, più tenaci di ogni oblio" (pp. 33-42).
Il racconto, se mai ce ne fosse bisogno, è un inno alla coscienza che niente e nessuno potranno mai debellare tanto è radicato nell'intimo di ogni persona come sigillo della presenza di Dio. La Chiesa ha codificato la coscienza come principio cardine di ogni genuina verità e coerente libertà. Mantenere vivo e dinamico questo richiamo sarà sempre, in ogni caso e nonostante tutto, la vera conquista nel rispetto della dignità della persona e di ogni individuo. Questa coscienza che deve essere rispettata e formata alla libertà, nutrendosi di verità e vivendo di carità, è quanto la Chiesa chiede che venga mantenuta libera come condizione di progresso e di autentico futuro carico di senso.



(©L'Osservatore Romano 6 novembre 2009)
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