La peculiare natura dei rapporti tra Chiesa e Stato in Italia

Roma e i suoi significati


di Giuseppe Dalla Torre

"Siamo in un momento in cui noi costituenti della Repubblica italiana dobbiamo votare nell'interesse della Nazione e nell'interesse della Repubblica. Dobbiamo votare in modo che sia fatto appello al mondo libero degli Stati, al mondo che anche io so e dico che ci guarda. Il mondo che ci guarda si preoccupa che qui si crei una Costituzione di uomini liberi; il grande mondo cattolico si preoccupa che qui la Repubblica nasca in pace e in amicizia col Pontefice romano". Così Alcide De Gasperi, che pur aveva a suo tempo mosso critiche alla stipula dei Patti Lateranensi, il 25 marzo 1947, nel suo primo e unico intervento in Assemblea Costituente a favore dell'articolo 7 della Costituzione in fase di elaborazione.
Nelle espressioni stringate e prive d'ogni retorica dell'uomo politico democristiano si coglie, tra le altre, la lucida percezione della peculiarità dei rapporti tra Stato e Chiesa in Italia, data da una dimensione al tempo stesso nazionale e internazionale.
I rapporti con la Chiesa cattolica sono, per ogni Stato, una "questione nazionale", per il semplicissimo fatto che la Chiesa si incarna in Chiese particolari, che vivono nel territorio di ciascuno Stato e operano a vantaggio di soggetti che si trovano su quel dato territorio e sono destinatari dei comandi del relativo ordinamento. Nel caso italiano peraltro tale questione nazionale assume un rilievo e dei connotati del tutto diversi per il fatto che in Italia, e solo in Italia, essa si pone sotto un duplice profilo:  alla disciplina, secondo quanto avviene altrove, della porzione di popolo di Dio che è in Italia, si aggiunge la disciplina - e questo è invece un unicum - dei rapporti con la Santa Sede, cioè con l'ufficio del Pontefice, che è vescovo di Roma ma che ha la responsabilità del governo della Chiesa universale.
C'è, dunque, una "questione" tutta italiana e solo italiana dei rapporti tra Chiesa e Stato:  in ragione - come dice l'articolo 2 dell'accordo di revisione del Concordato del 1984 - del "particolare significato che Roma, sede vescovile del Sommo Pontefice, ha per la cattolicità"; ma anche in ragione del fatto che la Santa Sede è colta, nel concerto delle potenze statuali, come una "potenza morale" la cui esistenza non può essere da loro ignorata.
A ben vedere, però, la peculiarità della situazione italiana non è data solo dal fatto dello sdoppiamento di piani sui quali si pone il problema dei rapporti fra la Chiesa e lo Stato, vale a dire la disciplina giuridica della Chiesa che è in Italia e la disciplina giuridica della condizione della Santa Sede; essa è data anche dal fatto che la condizione giuridica riservata alla Santa Sede non è una questione esclusivamente interna allo Stato italiano, ma è una questione di intuibile e ben nota rilevanza internazionale. In qualche modo paradossalmente la "questione" dei rapporti tra Chiesa e Stato in Italia è, per dir così, una "questione nazionale" anche e proprio perché riveste una dimensione che trascende i confini del Paese.
Come bene mostra un volume di Roberto Pertici presentato nei giorni scorsi al Senato - Chiesa e Stato in Italia. Dalla Grande Guerra al nuovo Concordato (1914-1984) (Bologna, il Mulino, 2009, pagine 896, euro 55) - questa "nazionalità" della questione, o se si vuole la volontà politica di trovare una soluzione nazionale ai peculiari problemi internazionali posti dalla presenza della Santa Sede in Italia, fu un dato lucidamente avvertito già all'indomani del 20 settembre 1870 dai politici liberali, che cercarono conseguentemente una soluzione con la legge delle Guarentigie del 1871. Così come la necessità di una soluzione nazionale, quindi raggiunta per autonoma determinazione dello Stato e non per imposizione straniera, fu l'elemento ispiratore sia dei tentativi di conciliazione degli ultimi governi liberali, in particolare dei rapporti tra Vittorio Emanuele Orlando e monsignor Bonaventura Cerretti a Parigi nel 1919, sia della composizione escogitata con i Patti Lateranensi da un fascismo ben consapevole del carattere nazionale ma al tempo stesso internazionale della questione, e determinato a non farsene espropriare la soluzione. In definitiva anche la soluzione costituzionale delineata nel 1946-47, e sfociata nell'articolo 7, è riprova della continuità di una linea di politica ecclesiastica diretta a far sì che, pur rivestendo una innegabile rilevanza internazionale, la questione dei rapporti tra Stato e Chiesa cattolica dovesse essere risolta per iniziativa propriamente italiana. Lo fa capire il passo, sopra citato, di De Gasperi; lo dimostrano diversi interventi, sia della maggioranza che della opposizione, in sede di Assemblea Costituente.
Bisogna riconoscere che a tale linea di politica ecclesiastica seguita con indubbia costanza dal 1870 al 1948, nonostante le differenti soluzioni prospettate o raggiunte nei diversi momenti storici da distinte posizioni politiche, ha risposto, quasi specularmente, una analoga linea di politica ecclesiastica della Santa Sede. Basti pensare alle dichiarazioni autorizzate fatte dal presidente dell'Unione popolare, nel 1913, a conclusione della viii Settimana sociale dei cattolici italiani, in cui si auspicava tra l'altro la soluzione della Questione romana "per costituzionale volontà del Paese, da parte dello Stato, senza che la sua civile sovranità ne sia compromessa"; concetto poi ripreso ufficialmente, due anni dopo, dal segretario di Stato di Benedetto xv, il cardinale Pietro Gasparri. Ma si pensi anche all'atteggiamento tenuto dalla Santa Sede nel non lasciarsi sedurre, durante i difficili anni della prima guerra mondiale, da proposte tese a espropriare l'Italia di una questione propriamente sua come il piano Mulert-Eners, per la internazionalizzazione della Questione romana, o il progetto di Mattia Erzberger, per la ricostituzione di uno Stato della Chiesa.
Lo stesso atteggiamento fu tenuto dalla Santa Sede alla fine del secondo conflitto mondiale, quando con l'articolo 15 del Trattato di pace del 1947 e l'articolo XI del Trattato di amicizia, commercio e navigazione tra Italia e Stati Uniti del 1948, furono imposte all'Italia precise garanzie in materia di libertà religiosa. Giova ricordare al riguardo le preoccupazioni che, negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, agitavano ambienti politici italiani non solo per l'emergere, nel mondo politico americano e irlandese, di generici orientamenti diretti a una internazionalizzazione delle garanzie da assicurarsi alla Santa Sede; ma soprattutto in relazione a più precisi e corposi progetti, come quello presentato dal neoambasciatore di Francia presso la Santa Sede Jacques Maritain al ministro degli Esteri del suo governo, Bidault, prevedente sia un eventuale allargamento territoriale dello Stato della Città del Vaticano, sia anche, e innanzitutto, la sostituzione del Trattato Lateranense con uno Statut vraiment international che garantisse gli interessi della comunità internazionale a una "disitalianizzazione" della questione della libertà e indipendenza della Santa Sede.
Se è pensabile che la Santa Sede si possa essere allora riferita a tali orientamenti di esponenti delle potenze vincitrici - diretti a una internazionalizzazione della questione della propria indipendenza - per premere sull'Italia ai fini di una recezione in Costituzione dei Patti Lateranensi, è certo tuttavia che non era questo l'obbiettivo politico cui mirava. Anche questa volta, infatti, la Santa Sede non intese far espropriare all'Italia una questione propriamente italiana e spinse di nuovo per quella soluzione nazionale, che fu raggiunta con l'inserimento in Costituzione dei Patti Lateranensi.
Dunque con l'approvazione, col voto significativo del Partito comunista, dell'articolo 7 della Costituzione, contenente il riconoscimento della sovranità della Chiesa nel proprio ordine e il richiamo ai Patti Lateranensi, l'Italia confermava di voler continuare a risolvere con un atto di sovrana deliberazione le peculiarità dei suoi rapporti con la Chiesa cattolica, che pure hanno una intrinseca rilevanza internazionale. Di qui il significato politico della larghissima maggioranza con cui l'articolo 7 venne approvato; larghissima maggioranza che di nuovo tornò, oltre trent'anni dopo, con l'approvazione parlamentare dell'Accordo di Villa Madama del 1984, con cui si apportarono modifiche al Concordato del Laterano.
Ma quell'ampio consenso sull'articolo 7, col suo disposto riguardante la duplice prospettiva delle relazioni dello Stato con la Chiesa, manifestava al tempo stesso consapevolezza e condivisione della inseparabilità della duplice questione soggiacente:  come aveva detto Pio XI quasi all'indomani dell'11 febbraio 1929, Trattato e Concordato simul stabunt, simul cadent.



(©L'Osservatore Romano 22 gennaio 2010)
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