Valori e motivazioni del celibato ecclesiastico

Innaturale è solo il vuoto spirituale


Si è concluso venerdì pomeriggio alla Pontificia Università Lateranense il convegno teologico internazionale "Fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdote" organizzato dalla Congregazione per il Clero. Pubblichiamo stralci di due delle relazioni pronunciate nel corso della terza sessione dei lavori.

di Manfred Lütz
Consultore della Congregazione per il Clero

Nella discussione sul celibato degli ultimi decenni divenne solito udire da contemporanei poco illuminati che "rinunciare" alla sessualità non sarebbe affatto naturale.
Alla base di questa affermazione c'è un concetto di natura totalmente sviante. Infatti che cosa può mai significare ciò? Forse che il mahatma Gandhi era innaturale, lui che pur sempre aveva fatto voti corrispondenti al celibato? Sono forse tutti innaturali quegli uomini che, intenzionalmente o poiché in qualche maniera le cose sono andate così, vivono senza essersi sposati? Presso i greci la "natura dell'uomo" significava l'essenza di ogni uomo. Con ciò era spianata la via per la comprensione che ogni uomo ha una dignità che gli spetta in quanto uomo, una concezione che si impose universalmente solo in virtù delle religioni monoteistiche.
Ciò che spetta a ogni uomo per natura è dunque soprattutto la dignità umana. Mai i greci dall'elevatezza del loro grande pensiero sarebbero pervenuti all'idea che la natura sia, in questo senso, solo l'aspetto corporeo dell'uomo. Tali visioni ristrette, tali riduzioni naturalistiche vengono in primo piano e si impongono solo molto più tardi e vanno conseguentemente a sfociare, come tutti sappiamo, nelle definizioni razzistiche dell'uomo, che vedevano l'uomo autentico realizzato solo in una ben determinata razza. Qui allora non può stupire che i nazisti nel quadro di questa consequenziale battaglia contro la Chiesa cattolica discriminassero il celibato come "innaturale" e nei cosiddetti processi contro la moralità del 1936 e 1937 tentassero di screditare ufficialmente preti e monaci come omosessuali o come sessualmente devianti in altre maniere.
Così si può vedere che il concetto di natura nell'epoca moderna in molteplici modi è stato abusato, manipolato ideologicamente. "Innaturale" era un grido di battaglia delle dittature totalitarie contro la religione e tutto ciò che andava d'accordo con essa.
Purtroppo non si può dire che questa tradizione culturale dell'accusa di "innaturale" oggi non continui a sopravvivere. La frase dello scrittore Bertold Brecht nell'anno 1955:  "È ancora fecondo il grembo da cui ciò sgusciò fuori" ha sempre un'attualità non sminuita. Ovviamente nessuno parla più di razza, ma tuttavia il culto pagano del corpo celebra nel frattempo nuovamente con esultanza i suoi successi.
Talvolta si ha l'impressione che attraverso il mantenimento di un corpo sano e in forma gli uomini vogliano in qualche modo assicurarsi qualcosa come la vita eterna. Il corpo diventa il simbolo della messinscena di se stessi, in una società che diventa sempre più narcisistica. La capacità di esercitare un potere di attrattiva sessuale diventa il criterio decisivo per il proprio valore sul mercato. La relazione sessuale stessa è di valore subordinato, essa fallisce se il partner non arreca più quell'ammirazione che il proprio ego richiede. Così il nuovo culto del corpo produce infelicità di milioni di persone a tappeto, giacché tutto il progetto non può che fallire per il semplice banale fatto che ogni uomo invecchia. Tuttavia proprio perché l'uomo rimuove questo lato oscuro dei suoi sforzi indefessi, ma senza senso, ecco che una forma di vita come quella del celibato, che controbatte conseguentemente gli assurdi dogmi dell'universale idolatria del corpo, è una particolare provocazione.
Così si torna a por mano, senza realmente saperlo, al vecchio trucco dei nazisti e si discrimina il celibato come "innaturale", cosa che sottintende il dichiarare se stessi, con le proprie relazioni sessuali sempre cangianti, sempre insoddisfatte, che ci si dichiari in tal modo indirettamente come totalmente "naturali". Così l'attacco aggressivo contro il celibato con il termine da battaglia di "innaturale" è adatto a elaborare le neurotiche insoddisfazioni nei confronti del proprio progetto di vita. In fondo potrebbe essere totalmente indifferente, per un uomo sano, tranquillo con se stesso, se altri uomini rinuncino alla sessualità volontariamente o costretti da malattie o situazioni simili. Ciò sarebbe in fondo propriamente soltanto affare loro. La massiccia aggressione con cui talvolta vengono portati avanti tali attacchi è però, in termini psicologici, un segno del fatto che l'aggressore stesso potrebbe avere un qualche problema con l'esperienza concreta della propria sessualità, problema che però non vuole ammettere a se stesso.
C'è però anche la variante del tutto non neurotica dell'accusa di "non naturalità" del celibato. È questa la versione macho. Ecco qua uomini che al grido di "Avanti con il sesso!" si precipitano sul mondo delle donne a valanga. Simili "padroni del creato" , che eternamente si ostinano a non diventare adulti, insistono sul fatto che se a loro viene l'impulso "naturale", la donna deve stare a loro disposizione. Simili fraintendimenti della sessualità, immaturi e pieni di disprezzo della persona, che riescono a vedere la donna oramai solamente come oggetto della soddisfazione dei propri impulsi, feriscono la dignità della donna e la sua autodeterminazione sessuale, ma giocano un grande ruolo nella critica al celibato. La sessualità adulta non è mai semplicemente "naturale" in maniera grossolana. La natura dell'uomo è sempre già umanamente coltivata. In un matrimonio adulto, maturo, i partner fanno attenzione anche ai bisogni dell'altro. Ci sono diversi motivi per cui temporaneamente o durevolmente anche in un matrimonio il vivere totalmente la sessualità genitale non è possibile, sia per una malattia temporanea, o sia per un impedimento durevole. In questo senso vale il principio:  chi non può rinunciare alla sessualità, non è idoneo al matrimonio. Tuttavia una partnership davvero matura non viene distrutta da questo fatto, bensì talvolta persino arricchita.
Innaturale  la  vita celibataria lo  diventa  solo allorquando l'esser da solo diventa un egoismo chiuso in sé o una narcisistica messinscena di sé. Da una tale incurvatio in seipsum in contraddizione con la vera natura dell'uomo non è però immunizzato nemmeno l'uomo  sposato.
Così l'affronto del celibato non dovrebbe concentrarsi soltanto sulle questioni della sessualità genitale, ma si dovrebbe invece vedere il celibato come una determinata forma di relazione che unisce una profonda relazione con Dio con una buona relazione con gli uomini affidati all'opera ministeriale del sacerdote.
La psicanalista Eva Jäggi nel suo libro sulla Esistenza da single ha definito l'uomo che con consapevolezza di sè vive da solo come particolarmente importante anche per tutti gli uomini che vivono in una partnership, poiché egli renderebbe chiaro anche a questi uomini che essi non sono semplicemente funzione di una relazione, ma hanno invece un loro valore proprio. Nel caso delle relazioni che finiscono, per qualunque motivo ciò accada, non di rado per l'uomo che viene lasciato solo la solitudine è particolarmente pesante. Allora il sapere che ci sono uomini che hanno scelto questo stato volontariamente dà, in simili situazioni, forza e rende più coraggiosi.
Quando per la Pontifica Accademia per la vita nel 2003 si tenne un congresso in Vaticano sull'abuso di bambini e ragazzi da parte di preti e religiosi, si pervenne a risultati toccanti. I più noti specialisti internazionali invitati in gran parte non erano cattolici. Quando nella questione circa la valutazione dei rischi emerse il criterio del "deficit di intimità", sorse dal pubblico la domanda se allora non fosse il celibato un problema. Allora prese la parola Bill Marshall, uno dei terapeuti del crimine più famosi su scala mondiale, noto ateo professo con molta simpatia per la Chiesa. Egli disse che questo era un fraintendimento. Egli partiva dal presupposto che un prete cattolico ha un'intima relazione con Dio. E quando uno psicoterapeuta cattolico molto esperto nella terapia sui sacerdoti osservò che per vivere il celibato si dovrebbe insegnare di più circa la sessualità ai candidati al sacerdozio, chiese la parola lo specialista di valutazione dei rischi certamente più noto internazionalmente, il canadese Karl Hanson:  egli riteneva che per vivere il celibato si dovrebbe piuttosto approfondire la sua spiritualità.
In base alla mia esperienza terapeutica io posso solamente confermare che l'inaridirsi della vita spirituale spesso è precedente alla "crisi del celibato". Se un prete non prega più regolarmente, se egli stesso non si confessa più, se egli dunque non ha più alcuna relazione vitale con Dio, allora egli in quanto prete non è più fecondo. Gli uomini infatti notano che da questo uomo di Dio non fuoriesce più alcuna forza dello Spirito di Dio. Questo soltanto basta a condurre poi ulteriormente nel prete colpito ad uno stato di frustrazione e di insoddisfazione rispetto alla sua vocazione di sacerdote. Se poi in una simile situazione si offre una relazione esterna, allora il prete è massimamente esposto al rischio che le dighe in ogni caso già decrepite, divenute friabili, si sbriciolino definitivamente. Viceversa invece un prete vitale, che vive la sua fede in maniera convincente, è un pastore d'anime fecondo, che così può anche vivere con gioia la sua attività pastorale. Importante per i sacerdoti è anche l'ascoltare le confessioni sacramentali dei fedeli che costituiscono un contatto esistenziale con le persone. Il celibato rende il prete libero per contatti pastorali intensi. Ma questa libertà in favore delle persone il prete deve poi anche utilizzarla. Un celibato semplicemente "dietro la scrivania" oppure una vita da funzionario, che trascura il piano delle relazioni umane, in termini psicologici è più difficilmente vivibile. Un pastore d'anime zelante ha addirittura più esperienza di vita di certi uomini sposati. Un pastore d'anime sposato, così come uno psicoterapeuta sposato, corre sempre il rischio di rivivere inconsciamente e di far agire nel caso presente davanti a lui le esperienze del suo proprio matrimonio. Perciò egli ha bisogno, in genere, di una supervisione, per evitare rischi simili. Invece un buon pastore d'anime ha una ricca esperienza esistenziale con tantissime vicende matrimoniali. E da tutto ciò egli può attingere allora per certi casi più difficili.
Preti che conducono una vita culturalmente animata, che si aprono secondo le possibilità all'arte e alla cultura e partecipano ad alto livello ai dibattiti culturali del tempo, possono vivere il celibato anche come sorgente di speciale vivacità culturale e spirituale. Così il celibato non è certamente una cosa per caratteri deboli e pallidi. Soprattutto però esso non è cosa per narcisisti, che girano psichicamente solo attorno a se stessi e si interessano solo di se stessi. Non eventuali anormalità sessuali sono il problema più frequente nella scelta e nella candidatura di nuovi sacerdoti, ma il narcisismo. Giacchè la "professione" del prete è per il narcisista una tentazione quasi invincibile. Rivestirsi di abiti da cerimonia e tenere prediche ad altre persone, prediche a cui non si può replicare, questo è per il narcisista addirittura il compimento di tutti i desideri. Tuttavia una soddisfazione autentica rimane esclusa, come nel caso di qualsiasi desiderio avido. Ma il prete deve avere una mentalità esattamente opposta. Egli si deve interessare soprattutto di altre persone e delle loro necessità e dietro il brillare delle sue parole deve rendere visibile lo splendore di Dio, e non la sua propria fioca luce.



(©L'Osservatore Romano 13 marzo 2010)
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