La provocazione dell'arte

Dalla ferita
si scorge l'Assoluto


Il 5 giugno si chiude nel monastero di Bose l'ottavo Convegno liturgico nazionale "Liturgia e arte. La sfida della contemporaneità". Pubblichiamo il testo delle conclusioni dell'arcivescovo presidente del Pontificio Consiglio della Cultura.

di Gianfranco Ravasi

Studente di teologia alla Pontificia Università Gregoriana, ero anch'io in piazza San Pietro l'8 dicembre 1965, quando i Padri a chiusura del concilio Vaticano ii lanciarono, tra i vari messaggi alle diverse categorie sociali e professionali, queste parole agli artisti:  "Il mondo in cui viviamo ha bisogno di bellezza per non oscurarsi nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che mette la gioia nel cuore degli uomini, è il frutto prezioso che resiste all'usura del tempo, che unisce le generazioni e le congiunge nell'ammirazione. E ciò grazie alle vostre mani".
Purtroppo, a distanza di anni dobbiamo riconoscere che viviamo in un mondo sempre più aggredito dalla bruttezza estetica e dalla bruttezza morale, tant'è vero che la stessa arte non di rado rifiuta di confrontarsi sia con la bellezza sia con un messaggio interiore profondo. Ciò è avvenuto anche nell'esperienza religiosa e liturgica, per cui sarebbe spesso arduo ripetere oggi l'appello che nell'ottavo secolo il cantore delle immagini sacre, san Giovanni Damasceno, rivolgeva ai cristiani:  "Se un pagano viene e ti dice:  "Mostrami la tua fede!", tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei sacri quadri".
Infatti, il vincolo stretto tra arte e fede a partire dal secolo scorso si è allentato fino al punto di infrangersi. Da un lato, in ambito ecclesiale si è spesso ricorsi al ricalco di moduli, di stili e di generi delle epoche precedenti, oppure ci si è orientati all'adozione del più semplice artigianato o, peggio, ci si è adattati alla bruttezza che imperversa nei nuovi quartieri urbani e nell'edilizia aggressiva innalzando edifici sacri simili, come sarcasticamente diceva padre David Maria Turoldo, a garage sacrali ove è parcheggiato Dio e vengono allineati i fedeli. Per fortuna non sempre avviene così, ed è stata forse l'architettura ad attestare un primo sussulto di originalità e di creatività, sia pure a livello di eccezione.
D'altro lato, però, l'arte ha imboccato le vie della città secolare, archiviando i temi religiosi, i simboli, le narrazioni, le figure e tutto quel "grande codice" che era stata la Bibbia. Come si diceva, ha abbandonato come pericolosa ogni proposta di un messaggio, considerandolo un capestro ideologico, si è consacrata a esercizi stilistici sempre più elaborati e provocatori, si è rinchiusa nel cerchio dell'autoreferenzialità, si è affidata a una critica esoterica incomprensibile ai più, e si è asservita alle mode e alle esigenze di un mercato non di rado artificioso ed eccessivo. Un po' di verità c'era nella definizione coniata da Henri Meyers a proposito dell'artista contemporaneo:  "Un uomo che non prostituisce mai la sua arte, eccetto che per denaro".
Riconosciute le colpe reciproche che hanno divaricato sempre più fede e arte, è necessario ora andare oltre i sospetti e ritornare a incontrarsi proprio come è accaduto il 21 novembre 2009 davanti all'emozionante fondale michelangiolesco della Sistina, quando Benedetto XVI, rivolgendosi agli artisti delle più diverse discipline e di ogni regione del mondo, ha voluto lanciare la prima battuta di un dialogo che attende la risposta libera e creativa degli stessi artisti, i quali naturalmente dovrebbero parlare con le loro opere.
Noi ora non vogliamo ripercorrere l'itinerario che è alle nostre spalle, il cui fulgore è visibile in ogni città europea, né desideriamo ritornare sulle ragioni teologiche di questo incontro tra arte e fede:  esso ha il suo cuore nell'Incarnazione che, come scriveva san Paolo ai Colossesi (1, 15), rende visibile il Dio invisibile nel volto di Cristo, eikòn, "icona-immagine" divina perfetta. Nel ix secolo un teologo della Chiesa d'oriente, Teodoro Studita, non esitava ad affermare che "se l'arte non potesse rappresentare Cristo, vorrebbe dire che il Verbo non si è incarnato".
Non è neppure nostra intenzione mettere sul tappeto l'insonne questione della definizione e dell'identificazione dell'arte sacra, di quella liturgica, o dell'arte più genericamente spirituale. Noi ora vorremmo, invece, proprio attraverso la voce di famosi artisti - e quando usiamo questo termine si rimanda non solo alle arti figurative classiche, ma anche alla letteratura, alla musica, al cinema, all'architettura, alla video-art e così via - isolare alcune consonanze radicali e strutturali tra fede e arte, pur consapevoli che molti oggi le esorcizzano o le ignorano.
Innanzitutto arte e fede tendono verso l'assoluto, cercano di esprimere l'ineffabile, di "costringere" l'infinito e l'eterno nello stampo della parola, della forma, dell'immagine, del suono. "L'arte è l'Ignoto", diceva il poeta francese Jules Laforgue nei suoi Lamenti lirici, e Paul Klee era consapevole che l'opera dell'artista non è quella di rappresentare il visibile ma di introdurci nell'invisibile, tant'è vero che anche l'arido taglio della tela compiuto da Lucio Fontana simbolicamente era "uno spiraglio per intravedere l'Assoluto".
Credere e creare sono due atti fondamentali che l'uomo adotta per raggiungere la trascendenza, come affermava suggestivamente il poeta Paul Valéry, quando scriveva nei Cattivi pensieri che "il pittore non deve dipingere quello che vede, ma quello che si vedrà".
A questo futuro perfetto, all'assoluto cercato dall'uomo la fede dà il nome di Dio che talora è esplicitamente riconosciuto come propria meta anche dallo stesso artista. Bach, sommo musicista e grande credente, non aveva dubbi quando poneva in capo alle sue partiture la sigla sdg, Soli Deo gloria, e dichiarava:  "Il finis e la causa finale della musica non dovrebbero mai essere altro che la gloria di Dio e la ricreazione della mente". Lapidario Hermann Hesse nel suo saggio su Klein e Wagner:  "Arte significa:  dentro a ogni cosa mostrare Dio".
In questa luce, arte e fede fanno germogliare e custodiscono nel loro grembo un messaggio, una verità alta ed efficace; non interpretano soltanto, ma rivelano e "creano un mondo", per usare un'espressione del filosofo Martin Heidegger. La loro funzione è epifanica, irradiano una luce che le ha percorse. Significative sono le parole di Kafka nei suoi Preparativi di nozze in campagna:  "L'arte vola attorno alla verità (...) e il suo talento consiste nel trovare un luogo in cui se ne possano potentemente intercettare i raggi luminosi". La polemica contemporanea, secondo la quale l'arte dev'essere libera da ogni messaggio per non essere asservita a nessuna ideologia, spesso merita il giudizio sferzante di Borges che, in Altre inquisizioni, ironizzava:  "Chi dice che l'arte non deve propagandare dottrine si riferisce di solito a dottrine contrarie alle sue".
In ultima analisi, noi crediamo religiosamente e creiamo artisticamente per scoprire il senso supremo dell'essere e dell'esistere e non semplicemente per arredare e ornare la nostra anima e le nostre case o città. Illuminante è la confessione di un autore apparentemente lontano da motivazioni trascendenti come Henry Miller, che nella Sapienza del cuore asseriva:  "L'arte non insegna niente, tranne il senso della vita".
Benedetto Croce, nel suo saggio su Schiller (raccolto in Poesia e non poesia), era convinto che "nella vera poesia le espressioni che suonano più semplici ci riempiono di sorpresa e di gioia perché rivelano noi a noi stessi". È questo un altro modo per celebrare la funzione epifanica dell'arte nello svelare il mistero che è in noi; ma nella frase c'è una parola interessante, "sorpresa". Sappiamo che la fede si nutre di stupore, di contemplazione, di illuminazione. Ebbene, Chesterton nel suo scritto Generalmente parlando aggiungeva:  "La dignità dell'artista sta nel suo dovere di tener vivo il senso di meraviglia nel mondo". Si tratta di una grazia che irrompe nel fedele e nell'artista e gli fa vedere il mondo con occhi diversi, scoprendo nuovi mari quanto più si naviga.
È lo stesso sguardo di Dio, ed è curioso notare che le nostre lingue hanno adottato lo stesso termine per indicare l'"ispirazione" delle Scritture Sacre e quella dell'artista. Anzi, nella Bibbia si dice che Bezalel, l'artefice dell'arca dell'alleanza e della tenda dell'incontro di Israele col Signore nel deserto, fu "colmato dello spirito di Dio", come i profeti, "perché avesse sapienza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro, per ideare progetti da realizzare in oro, argento  e  bronzo, per  intagliare le pietre da incastonare, per scolpire il legno ed eseguire ogni sorta di opera" (Esodo,  31,  3-5). Nel  Primo  Libro delle Cronache anche i cantori e i musicisti ricevono una sorta di "ispirazione" divina, tant'è vero che il termine per indicare l'esecuzione musicale è lo stesso che designa l'attività profetica, nb' (25, 1).
Per questo "ogni poesia è misteriosa:  nessuno sa interamente ciò che gli è stato concesso di scrivere" (così Borges nel prologo alla sua Opera poetica). Si entra, dunque, con la fede e con l'arte nel santuario del mistero per cui, come suggeriva il pittore Georges Braque nel suo testo Il giorno e la notte, "l'arte è fatta per turbare, mentre la scienza rassicura". È la stessa grande inquietudine della fede che sant'Agostino ha mirabilmente espresso nel suo celebre Inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te:  la meta comune è, infatti, l'Infinito ed è necessaria la grazia divina per riuscire a raggiungerla.
Come scriveva nel 2002, nel suo messaggio per il Meeting di Rimini, l'allora cardinale Joseph Ratzinger, "la bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l'uomo al suo Destino ultimo". Sulla scia di questa frase il poeta e filosofo Jean-Louis Chrétien, prima ateo e poi credente appassionato, ha affidato un suo saggio - almeno nella versione italiana - a questo simbolo:  La ferita della bellezza (Milano, Marietti, 2010). L'originale, certo, parlava di Effroi du beau, cioè di "sgomento, spavento", proprio perché, come osservava nella suggestiva prefazione il filosofo Fabrice Hadjadj, "l'eccesso della bellezza è superiore a quello dell'orrore. L'orrore infatti ci fa tacere togliendoci le nostre facoltà, mentre la bellezza ci fa ammutolire lasciandoci integri. Se ci ferisce, lo fa senza danneggiarci". Ricorrendo a un'assonanza etimologica, potremmo dire che la ferita inferta dall'arte è una feritoia verso l'infinito e l'eterno che pascalianamente ci sgomentano e turbano.
Papa Benedetto XVI, nel citato incontro con gli artisti, affermava che la grande arte - e rimandava al Giudizio universale michelangiolesco della Sistina che era davanti al suo uditorio - "ricorda che la storia dell'umanità è movimento e ascensione, è inesausta tensione verso la pienezza, verso la felicità ultima, verso un orizzonte che sempre eccede il presente mentre lo attraversa". Le analogie tra quelle due esperienze capitali dell'umanità, ossia l'arte e la fede, sono, quindi, molteplici e non è possibile ignorarle. Anche se ai nostri giorni si cerca di oscurarle, esse sono insite in questi due itinerari dell'anima.
Concludiamo, allora, con le parole della Lettera agli artisti (1999) di Giovanni Paolo ii che, citando il bardo della poesia polacca, Adam Mickiewicz:  "Emerge dal caos il mondo dello spirito", si rivolgeva agli artisti con questo  auspicio:  "La  vostra  arte  contribuisca  all'affermarsi  di  una  bellezza  autentica  che, quasi  riverbero  dello  Spirito  di  Dio, trasfiguri  la  materia, aprendo gli animi al senso dell'eterno".
E la liturgia deve rivelarsi quasi la sede  ideale  per  questa  epifania  di luce e di bellezza, di verità e di stupore, di sapienza e contemplazione, di rivelazione e di mistero. Proprio come dichiarava  Jean  Guitton:  "È  necessaria una liturgia insieme semplice e bella. Una liturgia con numen, cioè mistero, e con lumen, cioè intelligibilità", così come accade anche per la grande arte.



(©L'Osservatore Romano 4-5 giugno 2010)
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