I preraffaelliti e i mille volti di un sogno italiano

Tra bellezza e inquietudine


di Isabella Farinelli

La mostra "I preraffaelliti:  il sogno del Quattrocento italiano da Beato Angelico a Perugino, da Rossetti a Burne-Jones" ha appena chiuso i battenti, ma il suo rapporto con il tessuto vitale di Ravenna non si è ancora del tutto consumato. Le introduzioni al catalogo (Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2010) che ha accompagnato la mostra e che ora resta a disposizione di quanti volessero approfondire l'argomento, sottolineano come la manifestazione a cura di Colin Harrison, Christopher Newall e Claudio Spadoni abbia centrato diversi obiettivi artistici e sociali.
Non sono frasi di circostanza. Ritrovarsi nella cappella dove Dante Alighieri trova "l'ultimo asilo" terreno, dopo averne contemplato le visioni con gli occhi di Dante Gabriel Rossetti e della sua "confraternita" al Museo d'arte di Ravenna, riapre la questione del potere dinamico e semantizzante dell'arte in rapporto al contesto, suggestiva e soggettiva finché si vuole, ma oggetto di studi seri a partire - o ripartire - almeno da Saussure e Jakobson. Si parla molto di turismo intelligente, ma forse il miglior segno della riuscita di un viaggio e di una iniziativa culturale è la mappa che se ne ridisegna a posteriori, integrando segmenti personali che apparivano sinora privi di nesso.
La tensione ugualmente sofferta al reale e all'ideale, lo sguardo alla bellezza come appagamento ma molto più come provocazione all'"amor lontano", l'irrequietezza - attualissima - nei dati biografici individuali e collettivi della brotherhood si riflettono nel rapporto tutt'altro che scontato con l'Italia, in piena epoca di grand tour.
John Ruskin, il generoso e poliedrico autore che raccordò i preraffaelliti credendo nella loro capacità di rivitalizzare il valore civico e religioso dell'arte, amò e visitò più volte il Belpaese e in particolare Venezia, trascrivendone di persona o tramite i discepoli "le pietre" ritenute a rischio, con uguale partecipazione affettiva al dato artistico e alla gente.
Tra gli esponenti originari della confraternita, però, si va da Holman Hunt e William Michael Rossetti (fratello di Dante Gabriel) che trascorsero periodi in Italia da adulti allo stesso Dante Gabriel, che non visitò mai la penisola dove tutto sembrava chiamarlo:  il nome, la paternità, la formazione, la conoscenza della lingua e della letteratura e il "suo" poeta, di cui fu traduttore. Edward Burne-Jones dal canto suo scoprì l'Italia nel 1859 a ventisei anni, su incarico di Ruskin, e vi tornò spesso, lavorando tra l'altro alla decorazione della chiesa protestante di San Paolo dentro le Mura in Roma.
Mille i volti di uno scambio comunque fecondo, dalla cosiddetta scuola etrusca alla fascinazione esercitata sui preraffaelliti, dalla riscoperta del camposanto di Pisa grazie a Carlo Lasinio e Giovanni Rosini, cui non è estranea la radice ossianica della sensibilità romantica.
È stata giustamente sottolineata in una recensione pubblicata su queste pagine (lo scorso 28 febbraio) l'importanza di gustare queste opere senza la presunzione di corrispondenze biunivoche in ambito letterario o simbolico. La cosa appare legittimata e anzi richiesta dall'insofferenza di questa "scuola" sia rispetto ai propri canoni - non a caso la brotherhood si sciolse prestissimo - sia rispetto all'accademia, in sintonia con altri climi culturali d'Europa (si veda la "secessione" di Klimt, la cui fase aurea è così legata ai viaggi ravennati).
Si deve riconoscere ai curatori della mostra l'intelligenza di resistere alla tentazione della quantità, privilegiando il diritto del fruitore al proprio spazio bianco, e dell'opera alla sua qualità di segno. La cui potenza - nel caso dei preraffaelliti - echeggia, è noto, nell'art nouveau e nel liberty, nella sensibilità dannunziana e decadente, nelle derive dei maudit, nelle prime foto d'arte e nelle pose di dive e divine belle époque; ma arriva molto più vicino a noi:  basti citare nella narrativa contemporanea Autunno di Philippe Delerm (traduzione di Alessandra Emma Giagheddu, Milano, Frassinelli, 2002) e soprattutto la fotografia del film La donna del tenente francese, sceneggiato nel 1981 da Harold Pinter per Karel Reisz sul romanzo del 1969 di John Fowles (traduzione di Ettore Capriolo, Milano, Mondadori, 1970), con una giovane fulva Meryl Streep nel duplice ruolo di attrice e personaggio da costei interpretato, Sarah Woodruff, una "irregolare" d'epoca vittoriana che finisce a casa Rossetti e potrebbe essere una delle sue modelle. Nel romanzo, Sarah identifica le proprie ambiguità attraverso la poetessa Christina, sorella di Dante Gabriel e William Michael, a cui il protagonista maschile associa, perché donna, "un certo incomprensibile misticismo, una oscurità appassionata; per dirla tutta, una confusione assurda sul confine tra l'amore divino e l'umano".
Ma è forse questo l'appeal più forte dei preraffaelliti nella percezione comune, questa duplicità che da un lato armonizza, dall'altro indaga e inquieta. A commento poetico della propria Astarte syriaca (1877), Dante Gabriel scrisse:  "Al centro tra sole e luna / Astarte dei Siriani:  Venere regina / prima che Afrodite fosse. In argentea lucentezza / la sua doppia cintura avvolge l'infinita benedizione / di gioia di cui cielo e terra nutrono la loro comunione".
Il dualismo si rivela, con assonanza solo apparentemente periferica, nel poeta pittore Kahlil Gibran, anche lui a suo modo antiaccademico. I preraffaelliti gli arrivarono insieme a simbolisti e visionari e alle loro radici romantiche sia a Parigi dove studiò sia a Boston dove risiedette - Puvis de Chavannes aveva decorato la Biblioteca nella quale il poeta incontrava Mary Haskell.
Nel romanzo di Gibran Le ali infrante, la scena madre si svolge in un tempio diroccato che associa in due pareti antistanti il simbolo edonista di Venere-Astarte e il sacrificio di Cristo in croce; nel poemetto Gli dei della terra, tre titani personificano un abbraccio dinamico tra gli elementi; le figure dipinte da Kahlil, in un continuo sfumare tra umano e angelico, mostrano somiglianze con Blake, Rossetti e Burne-Jones. Questi avevano attinto a loro volta a un sostrato, autentico o presunto, di simbologia vicino-orientale:  e lo stesso Gibran, agli occhi bostoniani, rappresentava (facendone tesoro) la mitologia semitica dell'amor lontano stilizzata in Layla e Majnun, "il folle" amore pellegrino sulle tracce sfuggenti degli attendamenti dell'amata. Non sembra che Gibran abbia mai visitato l'Italia nel corso dei pochi viaggi tra Parigi e Libano; ma il suo sogno italiano è La Voce del Maestro, storia a cornice il cui protagonista, approdando a Venezia, riconosce in una giovane appena defunta l'amorosa presenza da cui s'è sentito accompagnare durante la traversata, e la sceglie come musa e amore ideale per tutta la vita.
Quando Gabriele D'Annunzio incluse Ravenna, "glauca notte rutilante d'oro", tra le Città del silenzio, ne elesse a simbolo la scultura tombale di Guidarello Guidarelli. Oggi è anch'essa, dopo un nuovo restauro, nel museo ospitato dalla Loggetta Lombardesca di Santa Maria in Porto, guardata a vista dai funzionari - per i quali è familiarmente "Gui". È noto infatti che "il più amato dalle italiane" - e non solo - è esposto al vaticinio che le nubili, baciandolo, ottengano di sposarsi entro l'anno, ma al rischio reale che labbra troppo ardenti e troppo tinte - è già successo - lo danneggino irreparabilmente.
Perché desti tanta emozione, dalla Duse in qua, non è chiaro e forse non deve esserlo. "Dorme supino con le man conserte / su la spada sua grande":  ucciso nel 1501 al crepuscolo dell'epopea cavalleresca ma per motivi, sembra, carnevaleschi, antieroico anche nel manufatto di cui è controversa l'età e l'attribuzione, lascia intuire dietro il volto il sogno della "vita nella morte", come disse Gino Capponi. Nell'età di Leonardo e Machiavelli, sembra gli sia toccato di addormentarsi al discrimine tra certezza e domande, di cui la prima sembra riguardarlo, anche se sarà formulata all'epoca dei preraffaelliti:  "Principe, quale bellezza salverà il mondo?".
In età matura, John Ruskin pubblicò la guida di uno dei massimi templi gotici, incasellandovi il suo ricco itinerario europeo. La Bibbia d'Amiens è oggi disponibile nell'edizione curata da Marcel Proust e tradotta in italiano da Salvatore Quasimodo (Milano, SE, 1988). Dopo essersi chiesto quale sarebbe il carattere e l'intellettualità dell'Europa senza la carità, il travaglio della croce e la letteratura biblica, parlando di san Girolamo, Ruskin osserva che, al contrario delle distorsioni cui sono suscettibili i commentari scritti, "l'insegnamento biblico dato attraverso la loro arte da uomini quali l'Orcagna, Giotto, l'Angelico, Luca della Robbia e Luini è puro di ogni traccia terrena delle passioni di un tempo. La pazienza di quest'arte, la sua dolcezza e la sua serenità sono incapaci degli errori che vengono dalla paura e dalla collera".
La singolare fusione di Ruskin tra livello estetico e sociale, nella sua personale filigrana di sofferta sensibilità, ispirò a Proust - che dedicò il proprio lavoro al padre appena scomparso - un inno alla vittoria sul nulla e sulla casualità:  "Al richiamo dell'Angelo, ogni morto si ritrova là al suo posto, quando noi lo crediamo da lungo tempo in polvere. Al richiamo di Ruskin, noi vediamo la più piccola figura inquadrata in un minuscolo quadrifoglio resuscitata nella sua forma, mentre ci guarda con lo stesso sguardo che sembra essere contenuto in un millimetro di pietra. Senza dubbio, povero piccolo mostro, io non avrei avuto la capacità, tra miliardi di pietre di città, di trovarti, di liberare il tuo volto, di ritrovare la tua personalità, di chiamarti, di farti rivivere. Certo tu non avevi in te nulla di veramente bello. La tua povera figura, che io non avrei mai notata, non ha un'espressione molto interessante, sebbene essa evidentemente abbia, come ogni persona, un'espressione che nessun'altra ebbe mai".



(©L'Osservatore Romano 7-8 giugno 2010)
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