Il telo si trovava a Vercelli durante l'invasione francese e corse il rischio di essere trafugato

Il canonico
che si portò la Sindone a casa


In occasione della mostra "La Sindone salvata a Vercelli", allestita presso il Museo del Tesoro del duomo in concomitanza con l'ostensione della Sindone nella Cattedrale di Torino, le Edizioni Saviolo hanno proposto la ristampa anastatica di un estratto dagli atti del primo Convegno regionale del centro internazionale di sindonologia, svoltosi a Vercelli il 9 aprile del 1960. Ne pubblichiamo un breve stralcio.

di Giuseppe Ferraris

Se nelle tragiche giornate del 18-2o novembre 1553, qui in Vercelli, il canonico Giovanni Antonio Costa non avesse sottratto alle avide mire degli invasori francesi la Santa Sindone, Torino probabilmente non avrebbe oggi l'alto privilegio di custodire il più impressionante documento della Passione di Cristo.
Non è facile seguire da principio l'iter del mondo lenzuolo mortuario, chiamato in greco "Sindon".
Il Sacro Lino pervenne ai duchi di Savoia nel 1453 per dono di Margherita di Charny. Venne deposto e rimase nella cappella del castello ducale di Chambery fino al critico momento storico in cui nella storia della Sindone entra Vercelli. Intanto la pietà religiosa delle popolazioni sabaude verso l'insigne documento della Passione, si accentuarono ancor di più dopo che il Santo Sudario, com'era allora chiamato, sfuggì quasi per prodigio al violento incendio del 4 dicembre 1432.
Lo riassume questo memorabile fatto oltre al barone Filiberto Pingon anche Cambiano nel suo Historico discorso riferendo il caso di Vercelli, di cui diremo, quasi per dar risalto con questo accostamento voluto e pericolo estremo, cui andò incontro la Sindone in ambedue le circostanze, e l'intervento provvidenziale di Dio nei due eventi, che segnano momenti decisivi nelle complicate vicende di questa testimonianza figurata del dramma del Calvario.
La contesa tra Francesco i di Francia e l'imperatore Carlo v per il ducato di Milano coinvolse gli Stati sabaudi che per quasi 40 anni conobbero solo guerre, vessazioni, di soldati, miserie senza fine. In vista della terza ripresa delle ostilità l'incalzare degli eventi costrinse Carlo iii ad abbandonare alle armi francesi la Savoia. Già fin dal 1535 nel mese di luglio o di agosto forse anche verso la fine di giugno per precauzione la Sindone era stata trasferita a Torino attraverso il colle di Arnas per la valle di Ala di Stura.
L'11 febbraio dell'anno seguente l'esercito francese agli ordini dell'ammiraglio Brion invadeva la Savoia. In breve tempo la fiumana d'oltralpe dilagava incontrastata; il 29 marzo per la valle di Susa sboccava nella pianura. Due giorni prima il duca aveva abbandonato Torino, diretto alla volta di Vercelli, dove arrivò il 30. Con lui certamente la Sacra Sindone. Non doveva però ancora restare in questa piazzaforte sabauda di confine:  la rapida avanzata dell'armata francese incombeva come una grave minaccia anche su di essa.
La insigne reliquia perciò fu certamente inviata colla famiglia ducale a Milano; di là con essa il sacro pegno passò a Nizza. In quel lontano lembo di terra sabauda il Sacro Lenzuolo rimase circa sette anni, gelosamente custodito nel castello.
E fu ventura che prevalesse il consiglio contrario alla cessione:  nell'agosto del 1543 allorché Nizza fu occupata dai francesi e dai turchi dell'ammiraglio Kaireddin Barbarossa, uniti dalla ragion politica in un'orribile alleanza, sulla roccaforte continuò a sventolare il bianco crociato vessillo dei Savoia. Così quell'estremo baluardo creò la premessa per una più facile riconquista della città da parte delle forze congiunte del duca e del marchese del Vasto.
La Sacra Sindone, però, nel difficile frangente non doveva già più trovarsi nel castello di Nizza. Molto probabilmente da pochi mesi era stata traslocata colla corte ducale a Vercelli.
Carlo iii dopo aver peregrinato per circa tre anni or qua or là, spesso al seguito dell'imperatore per perorare la causa dei suoi martoriati Stati, ritorna a Vercelli e vi stabilisce la sua residenza nel 1543; poco dopo anche il principe Emanuele Filiberto, pare, dal 14 giugno 1543. D'allora la Sindone venne di certo deposta in Duomo all'altare della vecchia sacrestia, dove sembra fossero custodite le reliquie della Cattedrale.
Nonostante l'ubicazione appartata della sacrestia-cappella, sita a fianco del coro, e fors'anche un certo riserbo che veniva mantenuto in tempi sì tristi circa la preziosa reliquia, il sacro deposito andò assumendo una tale estimazione nell'opinione pubblica che lo stampatore Giovanni Maria Pellipari per L'operetta spagnuola di Francesco Lopez, stampata nel 1549, ne faceva menzione nel colophon:  Impressum Vercellis apud sanctum Christi sudarium.
La morte del Duca e gli avvenimenti che la seguirono sembrò dovessero segnare lo sfacelo della monarchia sul piano politico e morale.
Il comandante dell'esercito francese, il maresciallo Carlo Cossè, conte di Brissac, non si lasciò sfuggire l'occasione, che gli si presentava propizia, di effettuare un colpo di mano sulla capitale provvisoria del ducato. Mediante il tradimento, l'arma segreta di allora, la sorpresa ben concertata riuscì. All'alba del 18 novembre 1553, dopo una faticosa marcia di avvicinamento sotto la pioggia insistente, attraverso uno dei portelli verso il Cervo l'avanguardia penetrò dentro le mura. E ben tosto dilagarono nella città duemila soldati, francesi, tedeschi, svizzeri e italiani militanti sotto le bandiere gigliate di Francia. Fatto prigioniero il Challant, catturato il capitano Cristoforo Duc maggiordomo del Duca, sorpresi i difensori, parve fosse giunta la fine.
Ma il prode colonnello Isola, sprezzando il pericolo, affrontò il nemico con un manipolo dei suoi:  7 armati di picche contro 6o archibugieri. Cadde Luchino di Bagnolo; cadde il valoroso Chatelard crivellato da ben 17 ferite durante la ritirata; però il colonnello col presidente del Senato Cassiano Dal Pozzo e qualche altro poté riparare nella cittadella che fece mettere in stato di difesa, valendosi dell'opera del capitano ingegnere Giuseppe Caresana.
Organizzato quell'estremo propugnacolo, nella notte stessa l'Isola si portava a Casale per sollecitare soccorsi da Don Ferrante Gonzaga.
Frattanto nella città, in cui era sopraggiunto colla sua truppa il Brissac, era cominciato il saccheggio. Né venne risparmiato il Duomo dov'era custodita la Sacra Sindone. A questa come a preda agognata mirarono particolarmente i saccheggiatori. Ma cediamo a questo punto la parola al canonico Giovanni Battista Modena, al quale si rifanno posteriormente tutti gli storici locali per l'episodio. Così lo descrive nella sua Storia manoscritta (in corsivo le aggiunte dell'ultima redazione):  "Sentendo detta morte li Franzesi che erano in Torino et a Santhià con secreta intelligenza di alcuni traditori alli 20 novembre vennero a Vercelli, e nell'alba del giorno tolsero la città, ma non poterono pigliar la cittadella; anzi perché aueano caminato tutta la notte, che piovea, stracchi, bagnati e gelati non potero far male di rilievo per la città, entrarono però nella Cattedrale per saccheggiare, diceano, le robbe e le ricchezze del Duca, che si credeano fossero nascoste in chiesa o che aueano sue armi, pigliarono un corno d'alicorno che era della Duchessa (e) voleano pigliar il SS.mo Sudario; ma Antonio Costa Savojardo canonico, nel cui canonicato son io coadjutore con futura successione, parlando in francese, mentre gli mostrava, dove era il corno, e le paramenta, sotto l'almuzio pigliò la cas(s)etta del SS.mo Sudario e se la portò a casa, dove v'abito, et avendo invitato a pranzo, à supper, alla francese, condusse alcuni principali a casa sua, dove carezzandoli salvò e la casa e 'l SS.mo Sudario, che perciò fu dal Duca Emanuele Filiberto favorito e confermato Tesoriere suo come lo era di suo Padre. Il giorno seguente che pigliarono Vercelli, sentendo i Cittadini che l'esercito imperiale veniva da Milano sotto la condotta del Duca d'Alba, con intenzion di rovinar la Città e i cittadini, perché credeva che la stessa città si fosse data, tolto animo i cittadini li scacciarono e restarono liberati, che ricevendo questa liberazione per grazia singolare fecero voto di festeggiare quel giorno che anche era la festa di S. Teonesto martire di Vercelli uno delli tutelari".
Giova raccogliere da un documento inedito la deposizione giurata di un testimone oculare. Si chiamava costui Giovannino Morra; di professione cestaio, oriundo vercellese ma residente in Torino a motivo del suo commercio, in seguito a esposto del consigliere ducale Giovanni Francesco Ranzo, venne invitato a deporre, previo giuramento, davanti all'arciprete Lelio Vico, vicario generale di Torino, circa quanto gli era noto dei fatti accaduti in Vercelli, allorquando prodigiosamente la Sacra Sindone si era salvata dalle mani francesi nella Cattedrale di Sant'Eusebio. L'atto sottosegnato personalmente, oltre che dal notaio Costantini, dal vicario generale sunnominato porta la data del 27 aprile 161o.
Affermava, adunque, il teste:  "Che essendo esso deponente di età di anni tredici in circa nel secondo giorno, che ultimamente fù presa la Città di Vercelli da francesi, et circa l'hora di terza di esso giorno, hauendo egli inteso, che fosse stato amazzato da francesi un Spagnuolo, chiamato Boracchio, il quale staua puoco discosto dalla casa de SS.ri Pettenati, s'inuiò a quella uolta, come figliuolo curioso per intendere se ciò fosse uero, et iui gionto intese, che era stato' solamente ferito, et fermandosi lui alquanto, uide uenir un Ragazzone francese, qual andaua gridando all'arma, libertà, uiua Francia, dietro al quale seguiva il fu Gio. Batta Bozzo con alcuni compagni, quali ueneuano dalla porta di santo Andrea, alla quale per auanti faceuano la guardia et allora si erano partiti, perché li francesi l'haueano presa; et senti et uide, che detto Gio. Batta disse al detto Ragazzone, ti uoglio ben dar io di un uiua Francia, et tutto a un tempo li diede d'una picca nella schena, et lo passò da banda a banda in modo, che la ponta della picca li passaua fuori del uentre un bon pezzo, et detto Ragazzone si diede à correre uerso la piazza per la contrada detta dil barbacane, tirando dietro la picca nel uentre. Il che uisto esso deponente s'inuiò alla uolta della Chiesa di santo Eusebio, et entrando in essa chiesa; uide sei che li pareuano francesi andar alla uolta della sacrestia, che altre uolte era dalla banda sinistra del Choro andando in Chiesa, et nell'altare della qual sacrestia si diceua esserui il Santiss.o Sudario di N. S. Giesù Xpo del qual altare ni teneua la chiaue un Messer Claudio Sauoiardo, che era prette, o almeno andaua uestito da prette, et seguitando come si fa' da figliuoli detti sei francesi nella detta sacrestia, uide che andorono di longo alla uolta del detto altare, ma che mai alcuno di loro se gli puotè approssimare; et pareua che fossero rabbutati in dietro; et sentì, che uno di loro disse in lingua piemontese, andiamo, perché non siamo degni di toccar questa santa reliquia, et così tutti si partirono".



(©L'Osservatore Romano 30 giugno - 1 luglio 2010)
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