Alleati e partigiani durante la Campagna d'Italia

Il falso storico
della Resistenza discriminata


di Gaetano Vallini

Nel settembre del 1943, dopo l'annuncio dell'armistizio, quando nell'Italia del nord cominciarono a formarsi i primi gruppi partigiani, gli Alleati, in particolare gli inglesi, erano già impegnati da quattro anni nel sostegno ai movimenti di Resistenza europei, soprattutto in Jugoslavia, Grecia, Albania e Francia, così come in Polonia e Cecoslovacchia. A tal fine centinaia di agenti erano stati inviati nei territori occupati dai tedeschi per coordinare l'azione della Resistenza e per rendere possibile il rifornimento di armi ed esplosivi.
Per i comandi Alleati ogni scenario particolare aveva evidenziato problemi specifici dovuti alla modalità del regime di occupazione adottato dai nazisti, diverso da regione a regione, alla differente propensione della popolazione locale nel dar vita a movimenti di resistenza, alle difficoltà logistiche nell'infiltrare agenti e materiale bellico dietro le linee nemiche, e, soprattutto, ai contrasti che agitavano dall'interno gli stessi movimenti partigiani.
A differenza di quanto avveniva nei Balcani, dove gli inglesi si erano trovati di fronte a vere e proprie guerre civili, che imposero necessariamente di scegliere quale parte sostenere incidendo sugli equilibri politici interni, in Italia la situazione si presentava differente. Anche se i rapporti con le formazioni di diverso orientamento politico furono difficili - i responsabili dei gruppi garibaldini portarono avanti una politica finalizzata ad assumere, anche con la violenza, una posizione egemonica sull'interno movimento partigiano - il Pci sembrava perseguire la strada dell'unità con le altre forze politiche.
La situazione, dunque, non degenerò e gli Alleati non furono costretti a fare una scelta sulla fazione partigiana da appoggiare militarmente. Perciò, contrariamente a quanto affermato finora, non ci furono discriminazioni:  gli angloamericani sostennero le formazioni di sinistra al pari delle altre, senza alcuna distinzione. Questa tesi è sostenuta da Tommaso Piffer nell'ottimo libro Gli Alleati e la Resistenza italiana (Bologna, Il Mulino, 2010, pagine 366, euro 28), attraverso il quale, grazie allo studio di una ponderosa documentazione inedita proveniente dagli archivi statunitensi e britannici, sgombera il campo dall'interpretazione politicizzata e senza alcun fondamento documentario che per decenni ha offerto una lettura diversa di queste vicende.
Una interpretazione che ebbe origine nel 1953, quando Roberto Battaglia pubblicò per i tipi di Einaudi Storia della Resistenza italiana. Vi si sosteneva che gli Alleati decisero di proposito di boicottare i gruppi partigiani di sinistra, dimostrando disinteresse e ostilità nei confronti delle formazioni vicine al Pci e al Partito d'Azione. E come prova si portava, ad esempio, la capillare disinformazione attuata dagli angloamericani sulle zone dei lanci aerei di materiali e mezzi al fine di escludere tali formazioni dal supporto logistico. Allo stesso modo veniva letto come un atto discriminante - anzi come un vero e proprio abbandono al loro destino - il proclama che il 13 novembre 1944 il generale Alexander lanciò ai gruppi partigiani comunicando la fine della campagna invernale, invitandoli a cessare le azioni militari fino alla primavera, ovvero alla ripresa dell'offensiva.
Tuttavia, l'interpretazione di Battaglia sembra disinteressarsi dei dati storici per rispondere, per la parte comunista, in modo funzionale alle polemiche della Guerra fredda. D'altra parte l'autore, che aveva di fatto goduto durante il conflitto dell'appoggio del servizio di intelligence americano, sapeva bene che gli Alleati non avevano penalizzato nessuno. Fatto sta che questa lettura si affermò divenendo dominante. Per avere una visione diversa dei fatti, che iniziasse a sottrarre la riflessione storica sulla Resistenza alla distorsione della politicizzazione, si dovettero attendere gli studi di Gian Enrico Rusconi (Bologna, Resistenza e postfascismo, Il Mulino, 1995) e di Santo Peli (Torino, La Resistenza in Italia, Einaudi, 2004).
A questi si aggiunge ora l'equilibrata sintesi di Piffer, il cui merito principale è quello di situare la complessità del fenomeno resistenziale italiano in un contesto storico più ampio capace di trarlo dalle secche della sterile polemica interna. E così facendo l'autore può dimostrare che nel corso dell'intero periodo della guerra di liberazione nessuna considerazione politica spinse i comandi militari alleati a operare discriminazioni tra le diverse bande partigiane.
"In Friuli, come in Veneto, in Piemonte, in Liguria o in Emilia, gli agenti inglesi - sottolinea Piffer - appoggiarono nella maggioranza dei casi i progetti di unificazione dei dirigenti comunisti, le cui formazioni erano generalmente considerate anche le più combattive. Sugli Appennini lanciarono armi in quantità alla zona libera di Montefiorino, che era quasi interamente controllata dal Pci, e inviarono una delle loro missioni più importanti presso i garibaldini del Biellese". E ciò semmai anche a discapito degli altri gruppi combattenti cattolici, liberali e monarchici.
In Italia, spiega Piffer, "la situazione si presentava inoltre assai più fluida di quella di Grecia e Jugoslavia, in quanto caratterizzata da una pluralità maggiore di istanze politiche, un controllo minore del centro verso la periferia e un regime di occupazione che non permetteva la presenza di vasti vuoti di potere all'interno dei quali potessero agire i partigiani.
In secondo luogo in Italia era presente un governo legittimo appoggiato dagli Alleati, che operava sul territorio nazionale e godeva almeno formalmente anche della fiducia del movimento partigiano in quanto espressione dei medesimi partiti che lo animavano. Infine in Italia, a differenza dei Balcani, era presente un vasto contingente alleato, il che rendeva improbabile lo scoppio di un conflitto che avrebbe determinato immediatamente uno scontro con le truppe angloamericane".
La politica alleata nei confronti della Resistenza italiana fu elaborata in modo graduale e pesarono non poco le difficoltà tecniche. Solo nei primi mesi del 1945 i servizi segreti ebbero a disposizione i mezzi aerei e gli aeroporti per assicurare un efficace rifornimento delle formazioni dietro le linee tedesche. Tuttavia per tutto il 1944 le condizioni climatiche e la necessità di supportare prima i resistenti polacchi e poi quelli jugoslavi impedirono di consegnare una quota consistente delle risorse che pure erano state stanziate per i partigiani italiani.
Se ci fu una discriminazione, questa fu dettata dai fatti. Secondo Piffer, "le formazioni che mostravano di essere in grado di arrecare danni ai tedeschi furono rifornite e appoggiate, le altre no. Né considerazioni di lungo periodo - aggiunge lo storico - né la rinuncia ai vantaggi militari che si sarebbero potuti ottenere sostenendo la Resistenza determinarono discriminazioni nei confronti delle bande partigiane. Anzi, in alcuni casi i responsabili dei servizi inglesi si mostrarono riluttanti a trasmettere ai comandi relazioni che mettevano in cattiva  luce  le formazioni comuniste, per timore che questo generasse una contrazione degli aiuti nei loro confronti e quindi li esponesse all'accusa di parzialità".
In generale, la politica dei servizi segreti in Italia corrispose a quella portata avanti negli altri Paesi del Mediterraneo. Tuttavia l'autore non manca di sottolineare alcuni limiti dell'azione alleata verso la Resistenza; limiti "che ne condizionarono gravemente l'efficacia" e che "sono stati sottovalutati dalla storiografia, concentratasi soprattutto sul problema delle ragioni politiche o militari dell'azione angloamericana". "Innanzitutto - sostiene Piffer - gli Alleati non furono mai in grado di stabilire una politica di lungo periodo nei confronti della Resistenza italiana, e questa rimase sempre condizionata dall'evoluzione del quadro strategico, dalla necessità di spostare le risorse in altri settori e dai contrasti tra comandi militari e servizi segreti sull'uso delle risorse stesse. Non fu quindi mai possibile dare alla politica di sostegno quella continuità in grado di garantire un appoggio efficace delle formazioni che operavano sul campo".
In parte ciò dipese dall'improvvisazione che caratterizzò l'intera campagna d'Italia e in parte dal fatto che "gli alti comandi militari non ritennero mai che questa potesse esercitare un ruolo decisivo nella sconfitta dei tedeschi, e di conseguenza in diversi casi le esigenze della Resistenza italiana furono sacrificate in favore di quelle che si presentavano in altri teatri". Ancor più deleteria fu "la quasi totale assenza di coordinamento tra i vari livelli di comando impegnati nella definizione e nell'attuazione della politica alleata".
Non meno grave fu l'assenza di comunicazione tra i comandi e gli agenti sul campo. Pressoché totale fu, infine, "la mancanza di collaborazione tra i servizi segreti americani e inglesi. Questa situazione rappresentò il culmine di un conflitto strisciante tra i due servizi che si manifestò in tutti i Paesi dove si erano trovati a operare congiuntamente, e che era lo specchio di una tensione più generale all'interno di un'alleanza spesso difficile e segnata da reciproci sospetti".
Forse proprio queste dinamiche, a detta dello storico, diminuirono inevitabilmente il prestigio alleato agli occhi dei partigiani, e furono in parte all'origine del risentimento che questi maturarono nei loro confronti e che si è perpetuato ben al di là della conclusione del conflitto.
Ma pur se resta "difficile valutare esattamente quanto la Resistenza italiana contribuì all'avanzata alleata, perché è un calcolo impossibile a farsi in termini di militari angloamericani risparmiati o di settimane guadagnate", e "nonostante tutti i limiti elencati, indubbiamente - conclude Piffer - gli Alleati riuscirono a raggiungere gli obiettivi che si erano prefissi".
E anche se "per la Resistenza il rapporto con gli Alleati fu assai più importante di quanto fu per gli Alleati l'aiuto della Resistenza", gli angloamericani "fanno parte a pieno titolo" della storia della Resistenza italiana, "nonostante il ruolo marginale nel quale sono stati spesso relegati dalla storiografia".



(©L'Osservatore Romano 2 luglio 2010)
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