Roma e il "New York Times"

Quant'è facile incendiare


di Umberto Broccoli
Sovrintendente ai Beni culturali
del Comune di Roma

È necessario, è inevitabile che avvengano scandali. Necesse est enim ut veniant scandala. Così Matteo, nel suo vangelo (18, 7). E non c'è dubbio:  Michael Kimmelman ha gettato un bel sasso nello stagno. Dal "New York Times" è arrivato il suo monito:  mentre si sviluppa Roma moderna, si sbriciola Roma antica. E giù una serie di esempi recenti e recentissimi:  dall'area del Colle Oppio - il crollo della Domus aurea, in realtà alcuni locali delle terme di Traiano -, via via fino al Colosseo, immancabile punto di arrivo quando si teme il degrado dei monumenti romani. D'accordo:  Kimmelman ha espresso valutazioni sommarie, forse anche imprecise perché, in definitiva, è più facile incendiare che spegnere gli incendi. D'accordo. Il problema è senza dubbio più complesso e si riassume a parer mio in tre concetti chiave:  manutenzione, comunicazione, valorizzazione.
I monumenti hanno bisogno di manutenzione. È un concetto facile, al confine dell'ovvio:  eppure fa fatica a prevalere, quasi si preferisca inconsapevolmente correre dopo e dietro all'emergenza e trovarsi di fronte allo straordinario, dopo aver saltato a piedi pari l'ordinario. Eppure la manutenzione dovrebbe essere la prima preoccupazione di chi si pone il problema della tutela del patrimonio antico. In una fase delicata come questa, in anni complessi come gli attuali è indispensabile declinare continuamente la parola manutenzione. Si restaura un monumento? Se ne devono programmare gli interventi di manutenzione per gli anni a venire. Diversamente diventa quasi inutile il restauro.
Viviamo agli inizi di un secolo che sarà forse quello della comunicazione. Il lavoro sui monumenti deve essere raccontato, comunicato, condiviso dall'opinione pubblica. Deve essere fatto con chiarezza, semplicità, per non continuare a dare quel senso di distacco tra pubblico e specialisti. I musei, le aree archeologiche, tutte le testimonianze del mondo antico non possono essere più vissute come reliquie rese enigmatiche di una età dell'oro perduta definitivamente. Erano le quinte della vita quotidiana di ieri, lo devono essere anche oggi con tutte le tutele del caso. Altrimenti l'antico sarà subito e non vissuto.
Ne deriva la valorizzazione. Il bene culturale è di per sé patrimonio che esprime un valore, ha valore. Quindi, ferma restando la sua tutela, il bene culturale non potrà essere visto ancora come un ramo secco, delicato e costoso. Dovrà essere fonte di reddito, non solo perché legato al turismo. È necessario immaginare il bene culturale come investimento:  i musei dovranno essere organizzati sempre più come poli per attrarre e non per respingere:  dalle comodità elementari - quanto è difficile sedersi oggi in un museo italiano! - via via fino alla necessità di rendere questi spazi punti di aggregazione e di passatempo tra i secoli. Dai magazzini, la possibilità di prestare, pagando, opere a lungo termine. Dai monumenti e dalle aree storico archeologiche, l'idea di farne anche  un  palcoscenico:   anzi  il  palcoscenico per eccellenza, unico al mondo.
Manutenzione, comunicazione, valorizzazione:  in queste aree vanno cercate le risposte da dare affrontando la politica dei beni culturali in Italia e non solo. E può non avere senso replicare a Kimmelman, perché la sua è una facile denuncia di problemi che non suggerisce soluzioni. Può servire come pro-memoria, ma da sempre un problema senza soluzione resta tale.



(©L'Osservatore Romano 12-13 luglio 2010)
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