Mezzo secolo fa lo zenit del cinema italiano

1960 d'autore


di Emilio Ranzato

Con La dolce vita, L'avventura e Rocco e i suoi fratelli, cinquant'anni fa il cinema d'autore italiano raggiungeva probabilmente il suo zenit. Non a caso, per mano di quei registi che avevano esordito durante l'esperienza neorealista senza esserne stati però i paladini più rappresentativi. Il clamoroso risultato della stagione 1960 costituiva infatti l'approdo di una lunga ricerca stilistica e tematica che aveva preso le mosse dalla precoce crisi del neorealismo, e che aveva portato i registi formatisi in quegli anni a interrogarsi su nuovi modi di rappresentare la realtà a fronte dei cambiamenti profondi vissuti dalla società, soprattutto in termini di sviluppo economico e, viceversa, di un comprensibile calo della tensione morale e ideale che aveva caratterizzato l'immediato dopoguerra sull'onda d'un afflato di rinascita. La risposta, anche se sviluppata in modi molto diversi fra loro, fu in tutti i casi quella di una poetica sempre più personale. Il che faceva del cinema italiano il primo consapevole cinema d'autore, anche grazie alla contemporanea canonizzazione ufficiale dell'espressione da parte dei critici d'oltralpe.
Con il neorealismo Luchino Visconti aveva intrattenuto rapporti per lo più dialettici, nonostante ne avesse firmato una determinante anticipazione con Ossessione (1943) nonché un capostipite apparentemente ufficiale con La terra trema (1948). In realtà il film tratto da I malavoglia di Giovanni Verga - un'origine letteraria che già di per sé lo distingueva dai soggetti semi-documentari dei film di De Sica e Rossellini - mancava volutamente di quelle caratteristiche che avevano reso rivoluzionarie le opere dei suoi colleghi:  una grande partecipazione emotiva spogliata di ogni elaborazione intellettuale. Laddove, a ben vedere, Visconti aveva cercato esattamente l'opposto. A dispetto di un'impressione di realtà vivida come non mai, dell'uso di un dialetto siciliano strettissimo, dei veri pescatori del luogo come protagonisti, fra il suo sguardo e le disavventure dei personaggi c'era il distacco paternalista dell'intellettuale che filtra inevitabilmente, ma anche consciamente, la messa in scena con il proprio sapere, e in particolare con la grande tradizione del romanzo.
Fine conoscitore della cultura europea, stimato regista teatrale, ma allo stesso tempo uomo d'impegno determinato a dire qualcosa sul suo tempo, durante tutta la carriera Visconti ha cercato ossessivamente un punto di equilibrio tra un ingombrante bagaglio culturale e la genuinità espressiva. Più in generale, fra passato e presente, fra realtà contingente e mito. Con il costante rischio di apparire come tanti suoi antieroi decadenti, bruciati da un vissuto troppo intenso e condannati a errare sull'eterno crinale del tramonto di un'epoca.
Abbandonata l'utopia personale di un realismo senza mediazioni, cominciò quindi a dedicarsi alla ricerca di un superiore concetto di verità che fosse il risultato delle componenti più variegate. Dopo un esperimento già riuscito in questa direzione con Senso, per il quale si parlò di "realismo storico" a dispetto di un'estrema stilizzazione pittorica, con Rocco e i suoi fratelli raggiunge l'impossibile equilibrio dell'acrobata. La sua famiglia di migranti baresi destinata a disfarsi è un misto di Malavoglia e Buddenbrook, ma è anche una famiglia di migranti. Milano è la Terra Promessa, il proscenio del teatro dell'opera e della tragedia classica, ma è anche la Milano insieme ostile e prodiga di promesse degli anni del boom. Il ring sopra il quale si batte Rocco seguendo le orme del fratello maggiore e rivale Simone, è un luogo freudiano fatto però di grida, fumo e sudore.
Anche gli esordi di Fellini sono illuminanti per capire il resto della sua filmografia. Già protagonista di due esperienze antitetiche - co-sceneggiatore di Roma città aperta e vignettista della rivista umoristica "Il Marc'Aurelio" - aveva esordito dietro la macchina da presa prima firmando con Alberto Lattuada Luci del varietà (1950), e poi individualmente Lo sceicco bianco (1952). Film che già delineavano coordinate fondamentali di un'intera poetica. Il primo segnava da subito l'interesse per i centri nevralgici dell'immaginario collettivo:  il mondo dell'avanspettacolo, del circo, del cinema stesso, tutti fenomeni di cui la "dolce vita" romana degli anni Cinquanta e Sessanta avrebbe rappresentato un'evidente derivazione. Mentre con Lo sceicco bianco l'interiorità dei personaggi diventava inedita protagonista. Attorno a questi fulcri di immaginazione, però, quello che era stato il collaboratore di Rossellini organizzava una messa in scena dalla puntuale credibilità sociologica, fra l'altro supportata da una regia ancora timida e quindi indotta a essere rispettosa dell'attitudine alla mimesi della tradizione neorealista.
Passando attraverso fasi intermedie piuttosto coerenti in tale direzione, La dolce vita rappresenta la tensione massima di tutte queste componenti. Qui però dilatate in maniera talmente macroscopica da non essere immediatamente discernibili. La Roma invasa dalle star hollywoodiane, ansiosa di vivere tutto in una notte in un sussulto d'improvvisato e sguaiato edonismo, sembra inquadrata da uno sguardo perfettamente oggettivo. Eppure, lungo quest'opera fluviale, lo spettatore avrà prima o poi modo di accorgersi come l'interiorità del protagonista stavolta non fa ostentata mostra di sé proprio perché investe l'intera realtà rappresentata. Lo sviluppo narrativo privo di progressione drammatica, nasconde infatti un flusso di coscienza in cui i personaggi che sfilano come in un carosello non sono altro che gli spettri del giornalista di costume Marcello. Sotto le cui spoglie, per giunta, si agita già Fellini stesso, col suo animo infantile e provinciale. Anche se il viaggio attraverso questa capitale che gioca a fare la decadente rappresenta un rito di iniziazione almeno in parte accettato.
Pur rimanendo all'interno di una rappresentazione realista, il regista firma quindi un'insospettabile prova generale di quel macroscopico esame di coscienza e seduta psicanalitica che sarà Otto e mezzo (1962), destinato conseguentemente a sfociare sul terreno dell'onirico e del surreale.
A differenza dei suoi due colleghi, Michelangelo Antonioni non aveva mai partecipato direttamente al neorealismo, anche se il suo film d'esordio, Cronaca di un amore (1950), aveva visto la luce quando l'esperienza, benché già in fase calante, non si era ancora definitivamente chiusa. Il che sottolinea come nelle intenzioni del regista ci fosse la voglia di rivoluzionare il linguaggio cinematografico anche - se non soprattutto - a partire dal contrasto con le tematiche e gli stilemi allora imperanti:  un soggetto che si avvicina a una detective-story, un'ambientazione che coinvolge la ricca borghesia milanese, un uso del paesaggio in chiave simbolica. Soprattutto, uno sviluppo narrativo che in aperto contrasto con la filosofia del "pedinamento" dei protagonisti promossa a suo tempo da Zavattini, passa liberamente da un personaggio all'altro creando un vuoto gravitazionale, orchestrato attraverso scene lunghe e senza stacchi di montaggio dallo sguardo di un demiurgo.
Quando poi, con Il grido, dall'ambiente borghese la sua attenzione si spostò a quello proletario, paradossalmente la rottura con le attitudini sociali del neorealismo divenne ancora più netta. Come sintetizza in modo cristallino l'ultima scena del film, quella in cui il protagonista operaio si suicida gettandosi dalla torre di una fabbrica, mentre sullo sfondo i contadini sfilano in un corteo:  un movimento verticale contro uno orizzontale. Le due rette perpendicolari, però, erano ancora le coordinate di un unico piano cartesiano; l'alienazione dell'individuo era in gran parte definita dall'impossibilità di relazionarsi con la propria dimensione sociale.
Con L'avventura e tutta la cosiddetta trilogia dell'incomunicabilità - di cui faranno parte anche i meno riusciti ma ancora più innovativi La notte (1961) e L'eclisse (1962) - Antonioni dimostra invece di aver raggiunto la piena maturità rinunciando a ogni strascico provocatorio. Il discorso si fa del tutto esistenziale, l'apparato espressivo metafisico. Malgrado vaghi e in fondo gratuiti riferimenti al boom economico, anche la borghesia non sembra più il concreto bersaglio di una critica, quanto un funzionale termine medio con cui parlare di una condizione universale. Il paesaggio viene definitivamente interiorizzato, e ciò che ne rimane di oggettivo campeggia fra le persone non in un rapporto di sudditanza, bensì di inquietante equiparazione. Ma soprattutto, queste tre storie di amori irrisolti e di inesorabile inaridimento dei sentimenti, vogliono coraggiosamente rendere conto della noia, delle occasioni mancate, dei contrattempi, degli equivoci, dei piccoli misteri, dei gesti inutili e banali. Ossia di quei residui di realtà che le narrazioni convenzionali regolarmente scartano. E che, isolati e ingigantiti, vanno a formare il tessuto di un'altra faccia dell'esistenza umana.



(©L'Osservatore Romano 28 luglio 2010)
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