Quando le didascalie diventano armi improprie degli specialisti

Che noia
i musei italiani


di Umberto Broccoli

"Meno male che i musei si incontrano in viaggio di nozze e mai più", diceva un personaggio di un racconto di Svevo. È quasi una sentenza lapidaria, una epigrafe funeraria a sigillare e a suggellare la noia incontrata visitando i musei italiani. Perché nei musei in Italia ci si annoia. Ci si annoia nonostante il dibattito iniziato negli anni Settanta, quando ci si chiedeva insistentemente "Museo come e perché", dimostrando come si fosse ancora ben lontani dalla definizione moderna di museo, non riuscendo, evidentemente, a identificarne il perché.
Ci si annoia perché ci si va ancora per "contemplare", "ammirare", "godere" della vista. Quasi un feticismo, al confine con il culto della reliquia di questo mondo scomparso, età dell'oro perduta definitivamente.
Ci si annoia perché in quel tipo di museo sono consacrati gli oggetti provenienti dalle altre epoche. È il museo dove entra solo la vista:  per cui vede, si guarda, si ammira, lasciando fuori gli altri quattro sensi su cui si basa la conoscenza e l'apprendimento. È il museo reliquia, appunto:  il museo consacrante, una riedizione moderna delle Wunderkammern ("camere delle meraviglie") nate nel XV secolo.
Ci si annoia, perché non si gioca, volendo dare al gioco il valore di primo gradino del sapere. Il bambino gioca per scoprire il mondo e chi visita un museo non ha le conoscenze degli esperti, degli specialisti:  chi visita un museo è, quindi, come un bambino. Dovrebbe poter toccare gli oggetti, sentirne gli odori, vederli collocati in ricostruzioni di ambienti. Dovrebbe poter riprovare almeno in parte le sensazioni vissute dai nostri antenati cui sono serviti quegli oggetti, oggi imbalsamati nelle vetrine. E, invece, sotto quegli oggetti, trionfano le didascalie.
Le didascalie. Armi improprie degli archeologi (come di tutti gli altri specialisti) in grado di far passare ogni voglia al visitatore. Le didascalie. Termini derivati dal greco, dal latino e, probabilmente, mai usati come tali da chi adoperava quegli oggetti nel mondo antico. Ma messe là, come mine antiuomo non so con quale funzione se non quella di far sfoggio di cultura specialistica, senza raggiungere minimamente l'obiettivo di ogni museo:  introdurre il bambino visitatore e il visitatore bambino alla conoscenza materiale del mondo antico.
E il bambino visitatore (così come il visitatore bambino), se non si indispettisce, si sente come in un reliquiario:  parla a bassa voce, si stupisce, ammira, fa finta di godere della vista di quegli oggetti. Tutte reazioni eccessive, ben lontane dalla curiosità di chi vorrebbe immaginare la vita quotidiana di uomini come noi vissuti millenni or sono. Il visitatore/bambino ha la sensazione di trovarsi di fronte a un mondo popolato di scultori, pittori, artigiani con il pensiero rivolto costantemente al cielo. Perché quegli uomini antichi, se non scolpivano e dipingevano, pregavano gli dei alzando le loro braccia al cielo, con gesti enfatici ed enfatizzati dalle loro tuniche. Gli archeologi sanno bene che la vita quotidiana dell'uomo di ieri non era così. E questa immagine, più vicina al fumettone che alla realtà, deriva anche dal linguaggio sacrale delle didascalie.
Perché i crocefissi in un museo sono sempre "lignei" e non di legno? A casa, quando mangiano, gli archeologi usano un tavolo ligneo? Perché le teste di donna nei musei diventano "capi muliebri"? Non so quali parrucchieri frequentano le esperte di scultura antica. Ma non credo che, al momento dello shampoo, chiedono:  "Mi raccomando, poca schiuma sul capo muliebre".
Perché le tombe si sublimano negli "edifici sepolcrali", i vasi di terracotta diventano "contenitori fittili" e i tubi dell'acqua si inorgogliscono nelle "fistulae plumbee"? Nel leggere didascalie del genere mi sembra di vedere gli archeologi di sera, sul terrazzo, chiudere una telefonata dicendo "Ti devo lasciare, perché devo annaffiare i contenitori fittili" dei fiori. La "fistula plumbea" è la metafora vera dello stile didascalico. Sembra una malattia ed è soltanto un tubo di piombo, definito fistula probabilmente per non far capire un tubo.
Lo stile della didascalia è una specie di blob senza controllo. Rinomina oggetti di uso comune devastandone la comprensione ed il significato. Qualcuno sa perché si usa "trulla" per "tazza o boccale"? Chi è quel disperato che al mattino ordina un cappuccino in trulla e non al vetro (anzi:  in vitro)? Come in un crescendo rossiniano un vaso a forma di testa di cavallo dipinto in rosso diventa un "Rythòn attico a protome equina a figure rosse", mentre un vaso a collo stretto e non dipinto esplode in una "Làgynos acroma", e un manico, un semplice manico di una bottiglietta si proietta in una "griff-phiale con ansa a Koùros".
Il blob della didascalia si espande e si estende a quasi ogni forma di espressione dell'archeologo (o dello specialista). Entra nelle sale dei congressi, esce nei libri e nei cataloghi, inonda le pubblicazioni scientifiche, esonda nelle pubblicazioni in genere, irrompe nelle lettere ufficiali, nei discorsi fatti al ristorante per cui, chi ascolta casualmente, pensa di avere accanto ora dei necrofori impegnati in scavi di edifici sepolcrali, ora in lavoratori della terra impegnati in discussioni con termini strani e incomprensibili.
Il cultore della didascalia disprezza i media, pur facendo la fila per poter rilasciare una dichiarazione o un'intervista. Se chiamato dai media, non dimentica lo stile didascalico e seppellisce l'intervistatore sotto una grandinata di trullae, oinochòai, fibulae, lèkythoi, lebeti. E, allo sguardo ebete di chi ascolta la parola "lebete", il cultore della didascalia guarderà dall'alto in basso l'interlocutore, come un poveraccio senza rudimenti classici. E guai se chi domanda chiederà una spiegazione dei termini:  il cultore della didascalia risponderà:  "questo è linguaggio scientifico:  dobbiamo superare lo stile divulgativo!".
Ma il linguaggio è uno solo:  quello in grado di comunicare facendosi capire. Il resto è la nebbia nella quale si ripara la debolezza dello specialista creando barriere linguistiche corporative:  la corporazione è come una setta e ha bisogno di un codice nel quale riconoscere gli adepti, lasciando fuori il resto del mondo.
Lo stile della didascalia è virale:  si diffonde e crea fibulae (sono solo fibbie!) e fistulae (i tubi di prima). Ecco, come su un catalogo di una mostra, un'archeologa descrive una scultura che illustra una scena di viaggio, catalogo evidentemente destinato al pubblico:  "Il fregio di acanto abitato presenta numerose lacune. La scena illustrante il trionfo, interessata da alcune fratture (...) comprende l'illustrazione di una pompa trionfale. Su questo fianco doveva esser congiunto, tramite anatyrosis". Vi risparmio il resto.
Sa tanto del latinorum odiato da Renzo Tramaglino, nei Promessi sposi. Là il giurista del seicento usava il latino per non farsi capire, per creare una frattura fra classi. Oggi lo stile analogo della didascalia a cosa serve?
Talvolta non sono necessarie ricette e riforme complesse:  in certi casi, sarebbe possibile ottenere il risultato della chiarezza eliminando fistulae e fibulae da cataloghi, articoli, libri e musei. Sono solo parole e non occorre l'antibiotico.



(©L'Osservatore Romano 7 agosto 2010)
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