Cento anni fa il decreto "Quam singulari" sintetizzava il disegno riformatore di Papa Sarto

La rivoluzione eucaristica di Pio X


di Gianpaolo Romanato

Non si comprende il pontificato di Pio X (1903-1914) se non si tiene presente che al centro del suo universo mentale c'era il problema dell'atto di fede. Se la Chiesa è lo strumento della salvezza, l'istituzione ecclesiastica deve servire a conservare e a rinforzare la fede dei cristiani, a salvaguardarne i contenuti, a chiarirne il significato, a tutelarne l'integrità, a garantire la vita sacramentale e di grazia. Durante tutta la sua vita sacerdotale, infatti, trascorsa tra canoniche di paese e curie di provincia, Giuseppe Sarto aveva considerato l'insegnamento del catechismo come il primo e il principale dei suoi doveri. Essendo stato eletto Papa, era naturale che imponesse questa priorità a tutta la Chiesa.
Nascono di qui prima l'enciclica Acerbo nimis (15 aprile 1905), volta a illustrare la fondamentale importanza dell'istruzione religiosa, poi il celebre catechismo, che da lui prese il nome, e quindi il decreto Quam singulari (8 agosto 1910), di cui ricordiamo oggi il centenario della promulgazione, che anticipava verso i sette anni di età la prima comunione dei fanciulli.
Pur condizionata dal contesto teologico del tempo, l'enciclica andava diritta al suo scopo. "La dottrina di Cristo - scrive il Papa - ci disvela Iddio e le infinite perfezioni di Lui con assai maggiore chiarezza che non lo manifesti il lume naturale dell'umano intelletto. Quella stessa dottrina ci impone di onorare Dio con la fede, che è l'ossequio della mente; con la speranza, che l'ossequio della volontà; con la carità, che è l'ossequio del cuore; e per tal guisa lega tutto l'uomo e lo soggetta al suo supremo Fattore e Moderatore".
In poche righe e con poche parole, come nello stile di Giuseppe Sarto, è detto perché l'istruzione religiosa debba essere il centro del centro delle preoccupazioni della Chiesa. E l'enciclica prescriveva infatti norme precise e tassative affinché in ogni parrocchia si desse spazio all'istruzione catechistica, in ogni diocesi si istituissero specifiche scuole di religione. Anche la predicazione dei sacerdoti doveva fondarsi non su "fioriti sermoni", come suggerivano i canoni dell'oratoria sacra del tempo, ma su una solida e sicura esposizione delle verità di fede. Ciò che oggi indichiamo con la parola "evangelizzazione", Pio X definiva più semplicemente e didatticamente "istruzione" sulle "cose divine", prescrivendola ai sacerdoti come loro compito precipuo:  "Pel presente scopo meglio è soffermarci su un punto solo, e su di esso insistere, non esservi cioè per chiunque sia sacerdote né dovere più grave né più stretto obbligo di questo. E per fermo chi è il quale neghi che al sacerdote alla santità della vita debba andare congiunta la scienza? Le labbra del sacerdote custodiranno la scienza. E la Chiesa infatti severissimamente la richiede in coloro i quali devono essere assunti al ministero sacerdotale".
La compilazione del catechismo fu perciò quasi il coronamento della missione di governo di Pio X. Nel suo studio Il catechismo di Pio X (Roma, Las, 1988), Luciano Nordera ha documentato con quanto impegno Giuseppe Sarto avesse lavorato, fin dagli anni dell'episcopato a Mantova (1885-1894), perché si giungesse a un catechismo unico, se non universale, almeno italiano. Era stato uno dei primi vescovi ad accorgersi dell'imponenza del fenomeno dell'emigrazione, sia interna sia estera, un fenomeno che divenne drammatico proprio negli anni tra la fine dell'Ottocento e la prima guerra mondiale. Ne aveva percepito tutte le dirompenti conseguenze sociali e culturali, ma anche quelle inerenti la fede. Da uomo attento ai problemi del proprio tempo, s'era accorto che la crescente mobilità umana, sottraendo la gente all'ambiente tradizionale, alle abitudini di sempre, incideva negativamente sulle credenze religiose, sulla fede, esponendola al rischio di diventare insignificante se non sostenuta da un'adeguata istruzione.
Anche in riferimento a tale problema, perciò, auspicò che si giungesse a predisporre un testo catechistico unificato, cioè una specie di prontuario della fede cui il cristiano potesse far riferimento indipendentemente dal luogo, dall'ambiente e dalle circostanze di vita. In tale auspicio c'era la profonda consapevolezza che una religione complessa come il cattolicesimo doveva porsi in via assolutamente prioritaria l'esigenza di definire con la maggior precisione e chiarezza possibili l'oggetto della propria credenza. Una Chiesa sempre più sola e indifesa non poteva permettersi il lusso di lasciare a se stessa la fede dei battezzati proprio nel momento in cui molti di questi non potevano più contare sul sostegno del tradizionale ambiente di vita.
Ecco allora che con il testo da lui approntato per la diocesi di Roma, le cui periferie erano già allora in drammatiche condizioni di abbandono non solo civile ma anche religioso, "egli si proponeva di dare in mano ai sacerdoti un volume chiaro e completo in cui la precisione delle definizioni dogmatiche non permettesse interpretazioni personali o omissioni". Rispetto al catechismo che Sarto stesso aveva concepito e trascritto diligentemente in un quadernetto autografo quand'era stato parroco a Salzano (1867-1875), un paese di campagna posto nella provincia di Venezia e nella diocesi di Treviso, si nota che la vivacità delle espressioni, l'immediatezza didattica dello schema a domande e risposte, sono state talvolta sacrificate alla necessità della precisione dottrinale.
Ma i limiti che subito vi furono ravvisati (intellettualismo, debolezza di riferimenti biblici, prevalenza delle intenzioni precettistiche) non impedirono a quel catechismo di diventare un punto fermo per diverse generazioni di cristiani. Accanto ai limiti, presentava, infatti, pregi non meno evidenti:  precisione concettuale, chiarezza di dottrina, facilità didattica tanto per il sacerdote che doveva usarlo quanto per il fedele che ne doveva fruire. Questo spiega perché, pur essendo stato prescritto come obbligatorio solo nella diocesi di Roma (a partire dal 1905), abbia finito per imporsi non solo in Italia, ma in tutta la Chiesa. D'altronde, lo stesso Pio X era perfettamente consapevole che si trattava di un'opera in fieri, tutt'altro che compiuta e sempre perfettibile. La prima formulazione subì, infatti, ritocchi e adattamenti vivente ancora il Papa. Probabilmente sarebbe stato il primo a stupirsi della sua durata nel tempo. A suo merito, possiamo aggiungere che il faticoso lavoro di redazione dei nuovi catechismi compiuto dopo il Vaticano ii da intere équipes di specialisti, ha dimostrato quanto sia difficile trasmettere all'uomo moderno il contenuto di fede.
L'intento del Papa di proporre alla Chiesa una vita di fede più solida si accompagnava all'idea che la fede dovesse essere espressa attraverso una pratica liturgica più sobria, meno formale ed esteriore. La riforma della musica sacra e il ripristino del canto gregoriano andavano appunto in questa direzione. Questo complessivo disegno riformatore tanto della lex credendi quando della lex orandi trovarono una specie di sintesi nella sua rivoluzionaria decisione di riavvicinare le anime all'Eucaristia - intesa come il fulcro della vita di fede - incoraggiando e quasi imponendo la pratica della comunione frequente.
Va ricordato che una radicata mentalità di origine giansenistica aveva dissuaso i cristiani dalla pratica eucaristica assidua, quasi che questa fosse il coronamento del cammino verso la perfezione cristiana, piuttosto che la via per raggiungerla, "un premio e non un farmaco all'umana fralezza" scriverà il Papa. Con l'intuizione di quel grande pastore d'anime che era stato e continuò a essere durante il pontificato, Pio X troncò tentennamenti, timori e perplessità, ancora assai diffusi tra i teologi, promuovendo e incoraggiando invece, con il decreto Tridentina synodus del 16 luglio 1905, la pratica opposta:  la comunione frequente, anche quotidiana. Cinque anni dopo, con il decreto Quam singulari - del quale, come già ricordato, celebriamo oggi il centenario della pubblicazione - completò il complessivo progetto di riforma della cura d'anime prescrivendo l'anticipazione della prima comunione dei fanciulli verso i sette anni di età, cioè, per usare le sue parole, "quando il fanciullo comincia a ragionare".
Con questi due provvedimenti veniva superata e messa da parte una secolare cultura rigorista per tornare a una prassi già in vigore nei primi secoli cristiani e successivamente ribadita tanto dal concilio Lateranense IV nel 1215 quanto dai decreti del concilio di Trento. Si recuperava insomma una pratica millenaria, posta in ombra solo negli ultimi secoli, scrisse allora "La Civiltà Cattolica", a causa di "usanze inveterate, difetto di idee esatte, trascuratezza". Pietro Gasparri, che in quegli anni lavorava per ordine del Papa alla codificazione del diritto canonico, collocò questo decreto fra gli atti "memorandi" del pontificato, e aggiunse:  "Dio volesse che fosse ovunque osservato".



(©L'Osservatore Romano 8 agosto 2010)
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