Completata l'edizione dell'intera raccolta dei documenti di Giovanni Giolitti

Niente telefono per il presidente del Consiglio


I documenti e i carteggi di Giovanni Giolitti saranno al centro della dodicesima Scuola di alta formazione diretta da Aldo A. Mola e organizzata dal Centro europeo Giovanni Giolitti insieme al comune di Cavour (Torino) che quest'anno si svolge dal 27 al 29 settembre a Cavour, Saluzzo e Dronero sul tema:  "La crisi dell'Italia liberale (1921-1924)". Pubblichiamo un articolo sul completamento dell'edizione integrale dei documenti giolittiani.
 

di Gianpaolo Romanato

Alto, massiccio, calvo, di poche parole, Giovanni Giolitti fu il bersaglio preferito dei caricaturisti italiani di inizio Novecento, come ha ricordato una gustosa antologia pubblicata a Dronero (Cuneo) nel 2004:  Giovanni Giolitti nella satira politica. La nascita dell'Italia odierna. Eppure questo antiretore in un Paese di retori dominò incontrastato la scena nazionale e diede il suo nome ad un'intera stagione politica:  i primi vent'anni del secolo scorso - durante i quali fu ministro dell'Interno dal 1901 al 1903 e presidente del Consiglio - trattenendo sempre per sé il dicastero dell'Interno, dal 1903 al 1905, dal 1906 al 1909, dal 1911 al 1914 e dal 1920 al 1921 - sono noti come l'età giolittiana. Un periodo decisivo, durante il quale maturarono forze ed eventi che hanno condizionato l'Italia fino al tramonto della prima repubblica:  si formarono allora, infatti, i due grandi partiti di massa che domineranno la scena nel secondo dopoguerra (socialisti e popolari) e sorsero allora il comunismo e il fascismo, cioè le forze della rivoluzione, mentre giungeva a maturazione il movimento nazionalista, da cui derivò il tragico lavacro della Grande Guerra, che distrusse il vecchio mondo liberale.
Un ventennio tellurico, al centro del quale ci fu sempre quel rude piemontese, che nei momenti difficili piantava tutto e tornava nel suo paese di Cavour, dove, per non essere disturbato, non aveva neppure voluto il telefono in casa.
A farci conoscere questa figura si è dedicato il suo conterraneo Aldo Mola, direttore del Centro "Giovanni Giolitti" per lo studio dello Stato con sede a Dronero, attraverso una serie di iniziative culminate nella pubblicazione del libro biografico Giolitti. Lo statista della nuova Italia, apparso presso Mondadori nel 2004. Ma quella biografia era la sintesi di una paziente e sfibrante stagione di raccolta e trascrizione di documenti, che ora sono stati posti a nostra disposizione grazie ad un'imponente impresa editoriale giunta finalmente a conclusione in cinque volumi, che escono presso Bastogi (Foggia) a cura dello stesso Mola e di Aldo Ricci, già sovrintendente all'Archivio Centrale dello Stato di Roma, col titolo Giovanni Giolitti al Governo, in Parlamento, nei Carteggi.
Il primo volume comprende i verbali dei Consigli dei ministri dei governi presieduti da Giolitti (compreso il Governo Zanardelli, nel quale fu ministro dell'Interno); il secondo, in due tomi, le relazioni, gli studi e i discorsi che corredano la sua imponente attività legislativa; il terzo, anch'esso in due tomi, il carteggio conservato presso l'Archivio centrale dello Stato:  lettere di Giolitti, e soprattutto a Giolitti, per un complesso di oltre 3000 documenti (1100 in più rispetto alla precedente raccolta del 1962), corredata da una selezione di suoi discorsi extraparlamentari. Insomma, un'opera colossale, prodotta dallo sforzo editoriale di varie istituzioni, che hanno reso possibile un prezzo di copertina assai contenuto (40 euro a volume):  la Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo presieduta da Giovanni Rabbia, il Centro Giolitti di Dronero, l'Istituto Italiano di Studi Filosofici di Napoli e l'Archivio centrale dello Stato di Roma, depositario di molti dei testi qui pubblicati e guidato da Aldo Ricci, che firma, con Mola, la presentazione a ciascuno dei cinque volumi.
Giolitti era nato nel 1842. Apparteneva dunque alla generazione del postrisorgimento, che non aveva da esibire blasoni patriottici. Non veniva dalla carriera militare ma dalla pubblica amministrazione. Quando fu eletto per la prima volta deputato, nel 1882 - grazie alla legge che aveva allargato il corpo elettorale e introdotto lo scrutinio di lista al posto dei collegi uninominali - aveva quarant'anni ed era appena stato nominato consigliere di Stato. Era insomma un burocrate, ma un burocrate che vedeva lontano:  quello che ci voleva per guidare l'Italia nella fase della trasformazione e della modernizzazione. I documenti qui raccolti - in particolare nei primi due volumi - testimoniano l'impegno quotidiano con cui Giolitti operò per dare all'Italia una legislazione più moderna in tema di beneficenza, assistenza, promozione delle classi povere, previdenza. Come ricordano Mola e Ricci, Giolitti veniva dalle terra di Cavour e Quintino Sella, ma anche di Cottolengo e Giovanni Bosco. Era un laico tutt'altro che insensibile al mistero dell'aldilà e ai doveri della solidarietà.
Conosceva i bisogni dei dipendenti pubblici - militari, insegnanti, impiegati, segretari comunali - la necessità di pungolare l'Italia dal basso potenziando il ruolo dei comuni, dei servizi locali, della partecipazione dei cittadini. La sua legge istitutiva delle società municipalizzate (n. 103 del 1903) fu una rivoluzione rispetto all'indirizzo centralistico invalso fino ad allora. Nella relazione illustrativa - un testo di incredibile modernità - ricordava che la storia italiana si fonda su una "gloriosa tradizione" di libertà cittadine, che avevano bisogno di essere ripensate, riproposte e rilanciate attraverso una cultura delle "autonomie comunali", fondata da un lato sul secolare "attaccamento dei cittadini al Comune", dall'altro sulla "coscienza del vincolo fra interesse comunale e individuale", che in Italia è particolarmente spiccato.
Guidate "dalle considerazioni della pubblica utilità" e non "dalla legge del massimo profitto", le municipalizzate, che avrebbero dovuto essere approvate da appositi referendum, si ponevano l'obiettivo di ridurre i prezzi, rafforzare l'iniziativa locale, socializzare i nuovi servizi, promuovere l' "attaccamento dei cittadini al Comune", inteso in prospettiva come "una grande società cooperativa" (volume ii, tomo i, pp. 291-316).
Dietro il riformismo di Giolitti c'era insomma un lungimirante progetto di rinnovamento del Paese, che avrebbe avuto bisogno di una più solida stampella parlamentare. Ma quando, in occasione del varo del suo secondo Governo, nel 1903, propose ai socialisti di farne parte, si trovò di fronte ad un rifiuto. Le masse, gli rispose Filippo Turati, non erano ancora mature. La disistima sconfinante nel disprezzo che da allora maturò per il socialismo condizionò tutta la sua politica successiva. Vale la pena di rileggere il freddo giudizio che diede nel suo volume di memorie di quel passaggio cruciale:  "Io non credo che l'impressione e il giudizio del Turati e del Bissolati sulla immaturità delle masse popolari alla partecipazione al Governo corrispondesse alla reale condizione delle cose, perché la mia esperienza è che nelle masse il buonsenso domina più che generalmente non si creda" (Memorie della mia vita, Milano, 1922, p. 192).
L'indisponibilità dei socialisti a spendersi nel concreto della politica di Governo convinse Giolitti della debolezza del nostro Paese, lo persuase che ad un'Italia di comizianti e di demagoghi, capaci di tuonare nelle piazze ma incapaci di agire e assumere responsabilità, serviva più la forza del potere più che l'arte della persuasione.
Divenne così il "ministro della malavita", per riprendere il titolo del celebre pamphlet scritto da Gaetano Salvemini nel 1910, bersaglio, come ricordavo all'inizio, non solo dell'ironia dei caricaturisti, ma dei risentimenti di molta intellettualità italiana. Eppure opposizioni e rifiuti non gli impedirono di rimanere fino all'arrivo del fascismo il deus ex machina della politica nazionale.
Ancora nel 1920 uno dei suoi più irriducibili oppositori, Giacomo Matteotti, dovette ammettere, in una lettera privata alla moglie, che l'ormai quasi ottantenne Giolitti era ancora padrone incontrastato del Parlamento:  "Mentre finisce di parlare Giolitti, ti scrivo. È una scena molto interessante:  il vecchio, diritto ed energico, domina la Camera meravigliosamente".
Ma lo statista piemontese, che conosceva come nessun altro forza e debolezze degli italiani, non ebbe mai, probabilmente, la piena consapevolezza delle conseguenze connesse con la trasformazione democratica in atto in Italia proprio in quegli anni cruciali, trasformazione che spostava dai singoli deputati ai partiti il controllo tanto dell'attività parlamentare quanto delle maggioranze governative. Eppure era stato proprio il suo Governo ad introdurre, nel 1912, il suffragio universale maschile - si veda la splendida relazione illustrativa della legge, qui riportata nel volume ii, tomo ii, pp. 155-247 - il grimaldello che aveva fatto saltare la vecchia Italia liberale, soprattutto quando, nel 1919, si era sommato alla legge che aveva sanzionato il passaggio dal sistema maggioritario a quello proporzionale.
Saldandosi insieme, le due riforme - suffragio universale più proporzionale - avevano segnato l'irreversibile transizione dal vecchio liberalismo delle élites alla democrazia delle masse. Giolitti, che aveva avviato il cambiamento, non seppe trarne le conseguenze.
Aggirò l'ostacolo nel 1913 con il patto Gentiloni, ma non potè evitarlo nel 1921, quando tentò l'incauta scorciatoia delle elezioni anticipate che condussero in Parlamento i primi deputati fascisti, ciò che rappresentò non solo la sua fine, ma la fine del sistema liberale. In una lettera del 6 aprile 1923 al fidato amico senatore Antonio Cefaly, scrisse che colpevole del disastro era la "maledetta proporzionale", la legge voluta da popolari e socialisti, cioè dai partiti.
Nel firmamento politico di Giolitti c'era un punto fermo:  il re. Nulla poteva incrinare il suo dovere di fedeltà al sovrano. È questo, verosimilmente, il motivo per cui, nei giorni drammatici in cui si decise l'entrata in guerra dell'Italia, tra aprile e maggio 1915, pur essendo stato il più intransigente difensore delle ragioni della neutralità italiana, non volle spingere fino alla rottura istituzionale il suo dissenso rispetto alla decisione governativa di far scendere l'Italia in campo a fianco di Gran Bretagna, Francia e Russia. Il patto siglato il 26 aprile dal nostro ambasciatore a Londra Guglielmo Imperiali fra dubbi laceranti - scrisse di aver firmato dopo aver "invocato il santo nome di Dio, con profonda interna commozione" - vincolava infatti tanto il Governo quanto il sovrano.
Rimasero così senza risposta gli accorati appelli di tanti parlamentari italiani a Giolitti, qui documentati (volume iii, tomo ii, pagg. 497ss.) perché facesse pesare il suo no. Per lui, e per il Paese, fu un'amara sconfitta, sconfitta resa possibile dalla norma dello Statuto Albertino (art. 5) che consentiva al re di sottoscrivere trattati di alleanza, anche volti a portare il Paese in guerra, senza l'approvazione parlamentare.
Quando tornò a capo del Governo, nel 1920, tentò di modificare la costituzione in questo punto fondamentale con un disegno di legge così concepito (articolo unico):  "I trattati e gli accordi internazionali, qualunque sia il loro oggetto, non sono validi se non dopo l'approvazione del Parlamento. Il Governo del Re non può dichiarare la guerra senza la preventiva approvazione delle Camere".
Nella relazione illustrativa (volume ii, tomo ii, pagg. 450-452) si diceva senza giri di parole che in materia di politica estera non si poteva più seguire "la via tenuta fin qui", che "abbandonare il sistema che finora è stato in vigore è supremamente necessario", che le decisioni da cui dipendono "avvenire" ed "esistenza" di un popolo non devono più essere prese senza "esplicita" e "preventiva" deliberazione parlamentare.
Nella relazione non c'erano riferimenti al 1915, ma lo scopo del disegno di legge era chiarissimo:  limitare le prerogative del sovrano e allargare i poteri del Parlamento, impedendo che l'Italia fosse di nuovo trascinata in guerra senza il consenso dell'istituto che rappresenta la volontà nazionale. Un anno prima, il 12 ottobre 1919, aveva anticipato il suo proposito con un fondamentale discorso pronunciato a Dronero, il suo collegio elettorale (qui pure riportato, volume iii, tomo ii, pagg. 1035ss.).
Nel 1948 Palmiro Togliatti elogerà quel discorso definendolo come l'espressione più avanzata della borghesia italiana. Il riconoscimento, purtroppo giunse con trent'anni di ritardo. Nel 1919 nessuno si era reso conto, né fra i socialisti né fra i popolari, che il vecchio Giolitti, pur con le sue chiusure e rigidezze, rimaneva l'unico liberale sul quale si potesse ancora contare. Egli non capiva i partiti e i partiti non capivano lui. Quell'incomprensione fu una delle cause della tragedia italiana. Prevalsero diffidenze, rancori, rifiuti aprioristici e la proposta giolittiana decadde con il suo Governo, senza arrivare al traguardo dell'approvazione parlamentare. Forse quella modifica costituzionale avrebbe reso meno facile e scontata, il 10 giugno 1940, la tragica decisione di Mussolini di portare nuovamente l'Italia in guerra. Forse.



(©L'Osservatore Romano 25 settembre 2010)
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