Quello tra l'arte e la fede è un incontro ineludibile anche nell'età contemporanea

L'alfabeto dell'immagine
è tutto nella Scrittura


di Sandro Barbagallo

"Ogni opera d'arte è figlia del suo tempo e spesso è madre dei nostri sentimenti", questo scriveva Vasilij Kandinskij nel 1910 e, nonostante cento anni trascorsi, il suo pensiero resta ancora fondamentale.
Solo un anno fa il Papa riceveva nella Cappella Sistina duecentosessanta artisti di tutto il mondo per dimostrare loro la propria disponibilità a un nuovo dialogo. Il 7 novembre scorso, poi, in occasione del viaggio apostolico in Spagna, Benedetto XVI nella messa di dedicazione della Sagrada  Familia  di Gaudí a Barcellona - da lui definita "meravigliosa sintesi di tecnica, di arte e di fede" - ha ribadito la necessità che la Chiesa possa comunicare con gli artisti di oggi, nel linguaggio di oggi.
Altro avvenimento di questo autunno, l'inizio dell'assemblea plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, sul tema "Cultura della comunicazione e nuovi linguaggi", ufficialmente aperta il 10 novembre con una pubblica seduta nella Sala della Protomoteca in Campidoglio, dal presidente del dicastero, l'arcivescovo Gianfranco Ravasi.
Tutti questi eventi sono ovviamente collegati tra loro da uno stesso filo conduttore che ha le sue radici nel senso di inadeguatezza con cui il mondo cattolico ha capito che deve fare i conti. L'allarme nasce dalle trasformazioni che il sistema di comunicare  ha subito negli ultimi decenni in modo incalzante. Basti pensare come le lettere cartacee siano state sostituite in gran parte dalla posta elettronica, e come tutti i messaggi ordinari vengano  esautorati  dai  famigerati sms.
A guardare il nostro tempo in una prospettiva storica non si può non rabbrividire di scoramento. I cambiamenti, già previsti dal chiaroveggente futurismo, si sono trasformati in una corsa a ostacoli.
E non è finita qui:  ogni giorno sui giornali leggiamo nuovi termini presi in prestito dalle lingue più diverse, al punto che quando si cita un vocabolo latino o greco, viene pronunciato all'inglese.
Ci sembra ovvio che siano già lontani e superati i tempi in cui Marshall McLuhan scriveva Il medium è il messaggio (1967), prevedendo che il moderno focolare domestico sarebbe stato lo schermo televisivo, intorno al quale la famiglia del futuro si sarebbe riunita. Ora che quel futuro è arrivato e ha superato di gran lunga ogni profezia avveniristica, è giusto chiedersi cosa si sta facendo, dove stiamo andando, cosa si deve fare?
La nostra opinione è che, anche se una formazione culturale basata solo sui pilastri di una erudizione classica sia  obsoleta per il mondo di oggi, non deve essere cancellata, ma caso mai integrata con le nuove sapienze informatiche. Solo così si potrà sperare  di creare un nuovo linguaggio, più ricco e più articolato di quello delle generazioni che ci hanno preceduto.
A nostro parere se è giusto ricercare le radici dello "spirituale nell'arte", l'impresa per avvicinare due emisferi così distanti fra loro è molto ardua. Questo non esclude però che si debba ricominciare umilmente, da capo, ad ascoltare la richiesta che ci viene dalle grandi personalità della cultura cattolica, non ultimo proprio l'arcivescovo Gianfranco Ravasi, che alla plenaria ha affermato:  "Vogliamo riflettere non soltanto sul linguaggio in quanto tale, ma anche su come comunica la comunità ecclesiale. Il nostro è spesso un linguaggio che si disperde e si dissolve, è molto autoreferenziale, basato su categorie linguistiche codificate, ma non più percepibili all'esterno".
Ma questo per quanto riguarda l'evoluzione del linguaggio. Per quanto riguarda, invece, il mondo dell'arte, è ancora una terra straniera anche per molti degli addetti ai lavori. La lingua da imparare prevede termini astrusi ed estremismi della cosiddetta "arte di ricerca", che evitiamo volutamente di definire "avanguardia" perché troppo difesa dall'establishment internazionale.
Ora il problema è capire fino in fondo quanto sia utile lo sforzo per ridar vita a un'estetica del passato. Anche se esteriormente le riproduzioni iconografiche possono sembrare simili, all'osservatore attento appariranno quali sono:  prive di anima, perché a loro mancherà sempre il senso interiore originario.
Forse, azzardiamo un'ipotesi, andrebbe ricercata un'altra somiglianza tra le nuove forme artistiche e quelle del passato. Una somiglianza di aspirazioni interiori.
È opinione comune nel mondo cattolico che la nostra anima si stia risvegliando da un lungo sonno punteggiato da incubi materialisti che consideravano la vita dell'universo come un gioco perverso. Soprattutto, molti artisti sentono una viva disperazione che ha origine nella rinuncia a una fede che dava uno scopo e una meta alla vita.
Dai discorsi sentiti in questo "autunno culturale" appare evidente che è stato gettato un sasso nell'acqua stagnante di una cultura paga di se stessa. Importante però è fare in modo che resista il coraggio di approfondire, un coraggio che sappia portare alla luce le affinità tra un'arte nuova e forme del passato, per cui l'anima possa risollevarsi temprata dai conflitti e dalla sofferenza.
L'interesse che il mondo ecclesiale sta dimostrando per l'artista è quanto mai tempestivo, anche se ha radici lontane. Infatti, più del mondo laico, la  Chiesa ha sempre compreso e incoraggiato la vita complessa e monastica di chi lavora per comunicare con l'anima di chi guarda, suscitandogli emozioni profonde e inesprimibili.
La Chiesa sa che in ogni opera d'arte è misteriosamente racchiusa un'intera vita, di dolore e di dubbi, di entusiasmo e di luce. Una volta Schumann ha detto che il compito dell'artista è illuminare la profondità del cuore umano.
Però c'è ancora da porsi una domanda. Quanta parte ha, nella cosiddetta cultura, l'arte sacra?
Guardandoci intorno e riflettendo sulla moda dell'effimero ci si chiede quante cose che sembrano irrinunciabili nella cultura della cronaca vengano dimenticate dopo una stagione. Mentre la vera arte, per fortuna, resta e sfida i secoli. La Cappella Sistina docet.
Tra i temi ascoltati durante i tre giorni dell'assemblea plenaria si è infatti dibattuto anche sulla questione dell'arte sacra, nella conferenza tenuta dal priore della Comunità di Bose, Enzo  Bianchi,  dal  titolo:   "La comunicazione mistagogica:  simbolo e arte  per  la liturgia e l'evangelizzazione".
Le parole di Bianchi hanno messo in risalto, per l'ennesima volta, l'importanza dell'arte nella liturgia, quale via pulchritudinis, affermando che la liturgia stessa è una forma di arte sacra, perché aspira a realizzare in modo pieno e completo il dialogo tra Dio e l'uomo. Però questo viene contraddetto dal fatto, evidente ai più, che in molte celebrazioni eucaristiche si sia perduta quella cura dei dettagli che dovrebbe dare l'idea del sacro. Succede infatti che molti sacerdoti non curino l'altare, né i paramenti liturgici, né le suppellettili, al punto che i fedeli si sentono defraudati di una tradizione tramandata di generazione in generazione e che dava senso di appartenenza alla Chiesa.
Eppure basterebbe che questi sacerdoti ricordassero la costituzione conciliare Sacrosanctum concilium dove si legge come "la Chiesa si sia sempre preoccupata che la sacra suppellettile servisse con dignità e bellezza al decoro del culto".
Nell'ambito di questa discussione si è affrontato anche il tema della differenza tra arte sacra e arte religiosa, già qui affrontato in passato.
Ribadiamo che l'arte sacra è destinata alla liturgia, quindi al culto e alla devozione; mentre l'arte religiosa è solo una rappresentazione tout court di scene derivate o ispirate dalla Bibbia, ma non destinata necessariamente al culto.
Oggi si sovrappongono i due concetti e questo genera molto confusione, anche perché l'arte sacra è codificata da un linguaggio iconografico molto preciso che non ammette sbavature. Questo linguaggio iconografico, a causa di una crisi della cultura classica in generale, si è imbastardito o addirittura polverizzato, creando come conseguenza una serie di malintesi che non aiutano certo la comunicazione con i fedeli.
Anche questo è un "linguaggio" che va recuperato, anche se aggiornato con modi e termini ispirati all'attualità, e quindi più comprensibili.
Sembra giusto concludere con le stesse parole che Benedetto XVI ha scritto nella recentissima esortazione apostolica Verbum Domini del 30 settembre scorso:  "La relazione tra Parola di Dio e cultura ha trovato espressione in opere di diversi ambiti, in particolare nel mondo (...) delle arti figurative e l'architettura (...) La Chiesa tutta esprime apprezzamento, stima e ammirazione per gli artisti "innamorati della bellezza" che si sono lasciati ispirare dai testi sacri; essi hanno contribuito alla decorazione delle nostre chiese, alla celebrazione della nostra fede, all'arricchimento della nostra liturgia e, allo stesso tempo, molti di loro hanno aiutato a rendere in qualche modo percepibile nel tempo e nello spazio le realtà invisibili ed eterne. Esorto gli organismi competenti affinché si promuova nella Chiesa una solida formazione degli artisti riguardo alla sacra Scrittura alla luce della Tradizione viva della Chiesa e del Magistero".

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La carne
tra infinito ed eterno


Alla relazione tra Chiesa e arte contemporanea l'arcivescovo presidente del Pontificio Consiglio della Cultura ha dedicato la prefazione - di cui riportiamo ampi stralci - del volume Kunst und Kirche auf Augenhöhe. Künstlerische Gestaltungen in der Diözese Linz 2000-2010 (Linz, Gutenberg, 2010, pagine 160) curato da Martina Gelsinger, Alexander Jöchl e Huber Nitsch e pubblicato in occasione del settantesimo compleanno del vescovo di Linz, Ludwig Schwarz.

di Gianfranco Ravasi

Nell'arco dell'ultimo decennio sotto la guida e l'impulso del vescovo di Linz Ludwig Schwarz, la città e l'intera diocesi hanno intessuto un dialogo fecondo e molto variegato con l'arte contemporanea. Lo stimolo offerto dal concilio Vaticano ii, nel suo appello a una liturgia che coniugasse la verticalità del mistero con l'orizzontalità del coinvolgimento e della partecipazione vitale e culturale della comunità, ha trovato in nuove chiese, cappelle, battisteri, memoriali, altari, amboni, immagini, vie crucis, monumenti, portali, vetrate della diocesi di Linz la sua perfetta attuazione. Questo risultato, meravigliosamente illustrato dalla documentazione che ora seguirà, presenta un significato che va oltre i confini di questa comunità ecclesiale austriaca.
L'esperienza che ha nell'attuale vescovo di Linz l'artefice primario acquista, infatti, un valore esemplare per la Chiesa universale. Essa, in un certo senso, anticipa una scelta che Benedetto XVI ha voluto proporre in maniera incisiva, mediante l'intenso e appassionato appello che egli ha rivolto il 21 novembre 2009 ai quasi trecento artisti provenienti da tutto il mondo, convocati nella cornice mirabile della Cappella Sistina. A pittori, scultori, architetti, poeti, scrittori, musicisti, cantanti, registi, attori, scenografi e fotografi il Papa ha lanciato la sfida a un nuovo dialogo tra arte e fede sul modello di quanto è avvenuto per secoli e - possiamo aggiungere - di quanto è stato realizzato a Linz con la collaborazione di quella settantina di artisti le cui opere costituiscono appunto l'oggetto di questo catalogo.
Ora, la meta ideale di ogni artista, un po' come quella del credente, è cercare di "carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità". Così, già il 7 maggio 1964, Paolo vi nella stessa Cappella Sistina si rivolgeva agli artisti da lui convocati per ristabilire un'alleanza nuova tra l'ispirazione divina della fede e l'ispirazione creatrice dell'arte. Come confessavano sia il grande pittore catalano Joan Miró, sia Paul Klee, l'arte non ha il compito di descrivere il visibile, ma di cogliere nel visibile l'Invisibile. Anche un poeta, Jules Laforgue, nei suoi Complaintes, proclamava che "l'Arte è l'Inconnu, l'Ignoto, il Mistero". Si deve, tuttavia, riconoscere che da tempo l'alleanza tra fede e arte si è infranta.
L'arte ha lasciato il tempio, ha relegato su uno scaffale polveroso le grandi narrazioni bibliche, i simboli, le figure, le parabole sacrali e si è avviata lungo le strade "laiche" della contemporaneità. Ha abbandonato la concezione secondo la quale l'opera artistica incarna una visione trascendente dell'essere, anzi, "crea un mondo" per usare le parole del filosofo Heidegger, e si è sostanzialmente dedicata a sperimentazioni di linguaggio, a complesse ricerche stilistiche, a elaborazioni autoreferenziali e persino a pure e semplici provocazioni. Queste vie non si protendono verso nessuna meta, a differenza di quei tentativi che il primo Novecento aveva esperito, apparentemente scardinando la grammatica estetica tradizionale, ma con la ricerca di una costante epifania di bellezza e di mistero, come accadeva nel passato.
Tanto per fare un esempio, si pensi solo alla musica dodecafonica e ai suoi sorprendenti risultati, oppure all'arido taglio della tela operato dal pittore Lucio Fontana che si trasformava, però, in "uno spiraglio per intravedere l'Assoluto". Ora spesso questo non accade più, perché si teme sempre che sia in agguato la dedizione funzionale e servile dell'arte a un messaggio, a una "verità", a una "bellezza". Il pittore Georges Braque, citato da Benedetto XVI nel suo discorso del 21 novembre 2009, in modo folgorante affermava, nel suo saggio Il giorno e la notte, che "l'arte è fatta per turbare, mentre la scienza rassicura". Ai nostri giorni l'arte vuole ancora turbare, ma lo fa solo scandalizzando e provocando, non più inquietando le coscienze, le menti e i cuori, costringendoli ad affacciarsi sull'abisso dell'Infinito, dell'Oltre, dell'Altro.
Di fronte a questa divaricazione tra la fede (o più genericamente la trascendenza) e l'arte, divaricazione che non può essere colmata con il mero ricalco degli stili e delle espressioni di un passato glorioso, Benedetto XVI ha voluto appunto riproporre, nelle attuali coordinate culturali, un nuovo incontro con gli artisti, nella gamma molteplice che tale termine comporta e che ora va oltre architettura, pittura, scultura, letteratura, musica, comprendendo le nuovi arti come il cinema, il design, la video-art, la fotografia e così via. E lo ha fatto sulla scia di un'altra memoria particolare:  dieci anni prima, il giorno di Pasqua del 1999, Giovanni Paolo II indirizzava, infatti, una sua Lettera agli artisti, anch'essa destinata a "confermare la sua stima e a contribuire al riannodarsi di una più proficua cooperazione tra l'arte e la Chiesa".
A questo punto, tenendo conto certo del presente testimoniato dall'opera della diocesi di Linz che vuole invertire la tendenza appena descritta, vorremmo solo gettare uno sguardo simbolico, non certo esaustivo, sul passato che sta alle nostre spalle. Desideriamo, infatti, anche attraverso le voci di tanti testimoni, riaffermare il legame spontaneo tra la fede e l'arte, così da rivelare la loro parentela segreta che le rende idealmente sorelle, proprio come è dimostrato dall'impegno profuso dal vescovo Schwarz in questa linea. Per usare le parole di un artista che ha testimoniato sempre questo incontro tra estetica e fede, Marc Chagall, "i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell'alfabeto colorato che era la Bibbia". Essa è stata, infatti, l'atlante iconografico per eccellenza, l'"immenso vocabolario" della cultura, come la definiva il poeta francese Paul Claudel. È significativa, perciò, la professione di principio che facevano i pittori senesi del Trecento nei loro Statuti d'arte:  "Noi siamo manifestatori, agli uomini che non conoscono la lettura, delle cose miracolose operate per virtù della fede".
Era talmente stretto questo legame che già sei secoli prima, il cantore delle immagini della Chiesa d'Oriente, san Giovanni Damasceno, giungeva al punto di avanzare questa proposta:  "Se un pagano viene e ti dice:  Mostrami la tua fede!, tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei quadri sacri". Questo incontro dell'arte con la liturgia e la spiritualità ha generato quello straordinario patrimonio che ha abbellito secoli e secoli di storia occidentale. Il famoso archeologo dell'Oriente cristiano, Guillaume de Jerphanion, aveva intitolato la sua trilogia sulle chiese rupestri della Cappadocia nell'attuale Turchia così:  Voix des monuments. Sì, non solo quegli affreschi e quelle architetture mirabili, ma ogni espressione d'arte, di letteratura, di musica e persino  di  un certo cinema a noi vicino - si pensi a Bresson, Dreyer, Bergman, tanto per evocare una celebre triade - diventa voce che ci conduce "all'etterno dal tempo", per usare un'icastica formula dantesca (Paradiso xxxi, 38).
Certo, anche nel passato secolare della storia cristiana non sono mancate le cesure e le censure che hanno spezzato quel legame e hanno sostituito il silenzio a quelle voci. Il pensiero corre all'iconoclasmo dell'viii secolo in Oriente o alla reticenza "ascetica" della Riforma protestante, che stenderà onde bianche aniconiche sulle pareti delle chiese ma che, per fortuna, farà subentrare la straordinaria potenza creatrice della musica (Bach è un nome che riassume tutti gli altri, pure grandi). Si può intravedere questo sospetto nei confronti dell'arte anche in una certa teologia, timorosa di derive "idolatriche" e che perciò si è affidata solo alla speculazione e al linguaggio tecnico, spazzando via lo splendore dei simboli, delle immagini e delle narrazioni. D'altronde, è ben noto il monito biblico del Decalogo a "non farsi immagine alcuna" di Dio (Esodo, 20, 4), così da evitare la prostrazione davanti al vitello d'oro, materializzazione del divino. Questa catarsi dal materialismo e dal realismo sacrale è, certo, necessaria. Ma si è andati oltre. Teologia e teologi, come si diceva, si sono non di rado votati esclusivamente alla riflessione sistematica, eliminando segni e simboli, considerati come una nebbia rispetto al cielo cristallino del pensiero e della logica formale.
In realtà, il linguaggio simbolico tiene compatta in sé la verità e la sua espressione. È significativo che un teologo del rilievo di Marie-Dominique Chenu ribadisse, nella sua Teologia del xii secolo, la necessità di riservare attenzione alle opere artistiche, sia letterarie, sia plastiche, sia figurative, perché esse non sono "soltanto illustrazioni estetiche, ma dei veri "luoghi" teologici". Alla radice di questo c'è il cuore stesso del messaggio cristiano, l'Incarnazione. Essa, infatti, rende visibile Dio che in Cristo - come afferma san Paolo - ha la sua eikôn, la sua "icona-immagine" perfetta (Colossesi, 1, 15). Anzi, la Genesi riconosceva nella stessa nostra umanità l'"immagine e la somiglianza divina" (1, 26-27). Il monaco e teologo Teodoro Studita (viii-ix sec.) non esitava, seguendo la logica dell'Incarnazione, a giungere al paradosso per cui, "se l'arte non potesse rappresentare Cristo, vorrebbe dire che il Verbo non si è incarnato".
Ritorniamo, così, alla sostanza del nostro discorso, cioè alla convinzione della possibilità, o meglio, della necessità dell'incontro tra l'artista e la trascendenza, tra la bellezza e la fede, strutturalmente legate tra loro da una consonanza naturale, perché tese a esprimere il senso ultimo dell'essere, a svelare l'epifania del mistero, a conquistare l'infinito e l'eterno, a varcare il velo della superficie per intuire il segreto ultimo della realtà. È ciò che monsignor Schwarz ha testimoniato in questi anni in modo efficace, invitando l'arte contemporanea a operare in questa direzione attraverso gli interventi negli spazi sacri e col ricorso ai grandi temi della spiritualità, della liturgia, della simbolica cristiana. Per questa via si confermava quanto lo scrittore Hermann Hesse dichiarava in modo esplicito nel suo saggio su Klein e Wagner, ricorrendo a questa definizione citata dallo stesso Benedetto XVI nel discorso agli artisti del 21 novembre 2009:  "Arte significa:  dentro a ogni cosa mostrare Dio".



(©L'Osservatore Romano 17 novembre 2010)
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