Lo struggente diario per immagini di Thomas Geve

Auschwitz negli occhi di un bambino


di Gaetano Vallini

Per qualcuno i suoi disegni sono il corrispettivo visivo del Diario di Anne Frank. Di sicuro compongono una testimonianza altrettanto toccante e drammatica della Shoah, e in particolare della Shoah vista attraverso gli occhi ingenui ma senza veli dei bambini. In occasione del Giorno della Memoria Einaudi manda in stampa i disegni di Thomas Geve, uno dei pochi bambini usciti vivi da Auschwitz, ospitati dal 1985, dopo un lungo oblio, nel Memoriale di Yad Vashem, che ha collaborato alla pubblicazione.
Il giorno della liberazione Thomas raccoglie le poche forze rimastegli per fissare su carta l'orrore che ha vissuto. E affronta il male assoluto con le sole armi che possiede - alcune matite colorate, l'innata curiosità di ragazzino e la speranza in un mondo migliore - trasformando il retro dei formulari delle SS nei 79 disegni che compongono Qui non ci sono bambini (Torino-Gerusalemme, 2011, pagine 180, euro 24).
Accingendosi a sfogliare le pagine del libro ci si chiede che cosa ricorda della sua vita ancora acerba un quindicenne con un'infanzia trasformata in un inferno? Com'è il mondo sprofondato nell'abisso visto attraverso i suoi occhi avidi di conoscenza? E cosa accade quando l'unico, invalicabile orizzonte che si para dinanzi a un ragazzo è quello del filo spinato di un campo di sterminio? Si può diventare uomini quando tutt'intorno il senso stesso di umanità è annientato e ciò che resta degli uomini è solo fumo che esce dalla ciminiera di un crematorio?
Con i loro tratti inconfondibili i bambini disegnano solitamente scene di vita familiare e di festa, paesaggi tranquilli e soleggiati, arcobaleni, esperienze di giochi gioiosi. Thomas invece rappresenta senza enfasi la cruda e terribile realtà del campo. Un microcosmo diviso tra carnefici e vittime, con il tempo scandito dal dolore, dalla morte ma anche, in qualche modo, dalla volontà di resistere. Del resto la sua esperienza era già drammaticamente segnata, come scrive nell'introduzione:  "Sono nato nell'ottobre del 1929 a Stettino, sulle rive del Baltico. Avevo poco più di tre anni quando Hitler salì al potere, nel gennaio del 1933. L'unico universo di cui avessi memoria fu quello della repressione e della persecuzione".
Basterebbe già questo. Ma c'è di più, molto di più. E di peggio.
"Avevo tredici anni - aggiunge - quando fui mandato ad Auschwitz con mia madre. Era la fine di giugno del 1943. Poiché dimostravo più della mia età, ebbi la fortuna di essere considerato abile al lavoro. I bambini sotto i quindici anni erano inviati direttamente alla camera a gas. A parte un altro ragazzo, uno zingaro di nome Jendros, allora ero il più giovane dei 18.000 internati nel campo di Auschwitz i. Avevo il numero di matricola 127003. Mia madre fu mandata a Birkenau e lavorava alla fabbrica "Union". Purtroppo non sopravvisse. Dopo l'evacuazione di Auschwitz sono stato nel campo di Gross-Rosen, nel gennaio del 1945, e poi a Buchenwald, dove sono stato liberato l'11 aprile 1945. Prima di quel giorno non avevo mai conosciuto la libertà".
Un'esperienza terribile, dalla quale però Thomas esce maturo come può esserlo un bambino cui è stata rubata l'infanzia. Quel ragazzino sveglio ha poca esperienza del mondo, ma sa che quanto ha vissuto non può essere la normalità della vita. Comprende di essere stato protagonista e testimone di qualcosa di tremendo, che non può essere nascosto, ma che va raccontato.
E fa ciò che ogni bambino ha sempre fatto:  inizia a disegnare (le didascalie Geve le aggiunse qualche anno dopo). "Ero gravemente debilitato - dice, ricordando i giorni successivi alla liberazione - e avevo perso le unghie dei piedi per l'attrito contro gli zoccoli di legno e per la denutrizione. Troppo malridotto per lasciare la mia baracca, il blocco 29, quello dei prigionieri antifascisti tedeschi, vi rimasi più di un mese dopo la liberazione del campo. Fu allora che eseguii una serie di settantanove disegni miniaturizzati, a colori, delle dimensioni di una cartolina, per illustrare i vari aspetti della vita in campo di concentramento. Li feci essenzialmente con l'intento di raccontare a mio padre la situazione cosi com'era realmente stata".
Il primo pensiero, dunque, è per il padre che non vede da quando, alla fine del 1938, ha lasciato la famiglia a Berlino per andare in Inghilterra, da dove invano ha tentato di ottenere i visti di uscita per moglie e figlio. Thomas non sa ancora che la mamma è morta.
Diversi artisti sopravvissuti hanno rappresentato l'inumana e malvagia essenza dei campi di sterminio, ma la testimonianza offerta dai disegni di un ragazzino che per due anni ha vissuto nella più grande fabbrica della morte della storia va ben oltre il valore artistico, diventando qualcosa di eccezionale nella sua unicità.
I disegni di Thomas sono pur sempre quelli di un bambino, peraltro non particolarmente dotato dal punto di vista artistico; sono essenziali, volutamente documentaristici, si potrebbe dire, corredati da legende e scritte che non hanno nulla di letterario. Ma l'attenzione al dettaglio è singolare, anticipazione dell'ingegnere che sarebbe diventato. Si va dalle descrizioni planimetriche del complesso di Auschwitz-Birchenau e del campo di Buchenwald all'organizzazione del lavoro; dalla enumerazione dei contrassegni di stoffa che distinguevano i reclusi (ebrei, zingari, detenuti politici e così via) ai bracciali per le varie mansioni (ad esempio, kapò, capo del blocco); dalle selezioni che dividono gli abili al lavoro da quanti venivano mandati alle camere a gas ai continui appelli quotidiani. Non mancano scene che descrivono la vita nei vari blocchi, l'infermeria, persino il bordello, nonché gli estenuanti e lunghi turni di lavoro, le punizioni, la distribuzione del cibo, la mensa, la camera a gas, il crematorio.
In quell'esercizio di memorizzazione apparentemente distaccato Thomas deve aver trovato la forza per sopravvivere; imparando la dislocazione delle varie baracche, dei diversi edifici, delle tubature, dei reticolati elettrificati quel ragazzino si è posto un obiettivo concreto e immediato, che lo ha impegnato mentalmente, forse in vista di una seppur remota possibilità di fuga. In ogni caso un esercizio che, nonostante il freddo, la fame e le violenze, lo ha tenuto aggrappato alla vita, fisso a quel pezzo di cielo azzurro che da qualche parte doveva pur esserci oltre il filo spinato e il denso e maleodorante fumo nero. Fino alla liberazione. Una liberazione che pure trova spazio nei disegni, così come l'ingresso in un "nuovo mondo", con l'arrivo degli americani a Buchenwald e la passeggiata a Weimar. "Avevo quindici anni - scrive Geve - quando ho visto Weimar per la prima volta. La cosa che mi colpiva di più erano i bambini che giocavano per strada".
Qui non ci sono bambini - che ha come sottotitolo Un'infanzia ad Auschwitz - è un documento di una bellezza straziante. Eppure non è stato facile veder pubblicati i disegni che lo compongono. Il padre di Thomas tentò invano in Inghilterra subito dopo la guerra. E non ebbe miglior sorte il resoconto scritto della sua esperienza scritto dallo stesso autore, il quale riuscì a farlo pubblicare solo nel 1958 a Gerusalemme, dove si era nel frattempo trasferito. Per il libro con i disegni bisognò attendere il 2009, grazie a un editore di Parigi.
Il giovane Thomas Geve, giunto il 29 giugno 1943 ad Auschwitz sulla Judenrampe ("rampa degli ebrei") a bordo del trasporto numero 39 proveniente da Berlino con il suo carico di 346 ebrei, 136 dei quali inviati direttamente verso le camere a gas, "in quel luogo trovò - come scrive Frediano Sessi nella postfazione - ciò che il medico nazista Johann Paul Kremer, addetto alle gassazioni, definisce nel suo diario "l'inferno in terra", "l'anus mundi". Seppe resistere e sopravvivere, producendo, ancora ragazzo, una testimonianza unica nel suo genere, un atto d'accusa forte e commovente di uno spirito che seppe resistere, come pochi, alla corruzione e alla distruzione". Da quei giorni del 1945 Thomas Geve non ha mai più disegnato.



(©L'Osservatore Romano 24-25 gennaio 2011)
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