Giovanni Mercati e Sergio Pignedoli diaconi di San Giorgio in Velabro

L'erudito solitario
e il vescovo dell'amicizia


di GIANFRANCO RAVASI

Il "titolo" che viene assegnato a ogni cardinale, come è noto, è legato a una chiesa romana così da riaffermare l'antica radice che connetteva il collegio cardinalizio al clero della città del Papa. Questa tradizione si è per me compiuta con l'attribuzione di una delle più antiche e gloriose diaconie di Roma, quella di San Giorgio in Velabro, incastonata non soltanto nella storia imperiale (il Palatino confinante e l'arco degli Argentari di Settimio Severo) o costantiniana (l'arco di Giano), ma anche nell'insula greca, scandita da Santa Maria in Cosmedin, da San Teodoro e dallo stesso trapasso del titolo da un martire romano, come Sebastiano, a una figura del culto orientale cristiano come san Giorgio. Questa, però, non è ovviamente una nota autobiografica vera e propria, cosa che non avrebbe molto senso per i nostri lettori.
Vuole, invece, essere l'evocazione di un paio tra la settantina di cardinali che mi hanno preceduto nel titolo. Naturalmente, particolare emozione provai quando appresi che cardinale diacono di San Giorgio in Velabro era stata un'altissima figura della teologia, della cultura e della fede come John Henry Newman, che lo fu dal 1879 al 1890.
Qui, però, vorrei far emergere da un certo oblio due altri miei predecessori che, in un certo senso, incrociarono anche la mia vita ed ebbero un rilievo notevole per la Chiesa. Nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, nella quale vissi come prefetto per diciotto anni, talora mi capitava sotto gli occhi un ritratto, opera di un non memorabile pittore, tale Giuseppe Rivaroli; il personaggio rappresentato, però, con la porpora cardinalizia, un volto ieratico e scavato e mani che stringevano un codice antico, era Giovanni Mercati, uno dei maggiori eruditi del secolo scorso.
Nelle sale austere dell'istituzione creata agli inizi del Seicento dal cardinale Federico Borromeo (una biblioteca che ebbe l'onore di avere una "scheda" descrittiva composta da Alessandro Manzoni nell'intero capitolo XXII del suo capolavoro, I Promessi Sposi ) il giovane prete emiliano - era nato a Villa Gaida (Reggio Emilia) nel 1866 ed era stato ordinato sacerdote nel 1889 - era approdato nell'ottobre 1893. Là, per citare un profilo biografico tracciato dal filologo romagnolo Augusto Campana e pubblicato nel 1996, "aveva trovato l'alta esperienza e il consiglio" di un altro straordinario studioso come il prefetto Antonio Maria Ceriani e del collega Achille Ratti, il futuro Pio XI, "ma vi aveva trovato soprattutto se stesso, attraverso le esperienze - non le prime, ma certo le decisive - di esploratore di manoscritti, che determinarono tutto il corso posteriore dei suoi studi".
Su quei tavoli di studio, occupati in passato da un altro celebre emiliano, Ludovico Antonio Muratori di Vignola (Modena), aveva iniziato un itinerario cronologicamente breve (nell'aprile 1898, dopo cinque anni, passava infatti alla Biblioteca Vaticana) ma sorprendente per qualità. Non bisogna, infatti, dimenticare che il giovane Mercati era in pratica un autodidatta, ma dentro di sé confessava di sentire "una specie di vocazione" per la quale aveva dovuto lottare superando anche la riluttanza del suo vescovo. Subito si era avviato sui sentieri d'altura dei palinsesti che un altro grande studioso che aveva vissuto per qualche tempo all'Ambrosiana, quell'Angelo Mai a cui Leopardi dedicherà un'appassionata e ammirata "canzone", aveva "tormentato" con la noce di galla per poterne decifrare le scritture nascoste. Ricordo ancora non solo le tracce di colore marrone dello "scopritor famoso" - come il poeta di Recanati lo definiva - lasciate da Mai su quelle pergamene, ma anche quelle blu degli acidi usati da Mercati.
Fiorivano, così, da quei palinsesti brani dei Salmi dagli Esapla, un commentario a Luca composto nel IV secolo da Tito di Bostra, il cui testo, perduto, era noto solo in frammenti delle versioni copta e araba, uno scritto giuridico bizantino, pubblicato con la collaborazione del futuro beato Contardo Ferrini, e così via in una lista di frammenti e di codici che erano puntualmente documentati da pubblicazioni scientifiche. Passavano spesso davanti ai miei occhi quei volumi che non è il caso ora di citare, ma che testimoniavano l'eccezionale solerzia e acribia di questo studioso poco più che trentenne, il cui amore per i testi biblici e patristici s'intrecciava con le ricerche sugli scritti giuridici, sulle opere umanistiche e persino sulla storia delle biblioteche. Un giorno del marzo 1898 il prefetto della Vaticana, Franz Ehrle, visitando l'Ambrosiana, intuì subito la qualità di questo giovane ricercatore. Ritornato a Roma, mettendogli davanti "gli interessi gravissimi della Santa Sede" lo costrinse a una scelta sofferta.
Che l'Ambrosiana fosse rimasta nel cuore di Mercati lo si scopre in una lettera sorprendente (e un po' sconfortata) scritta dal Vaticano al suo antico prefetto dell'Ambrosiana monsignor Ceriani, datata 7 marzo 1899 e custodita all'Ambrosiana ove ebbi occasione di leggerla. In essa si ha, infatti, un impietoso ritratto della Biblioteca Apostolica di allora: "Decine di migliaia di volumi giacevano in angoli; e persone che da 10 e 20 anni sono qui non ne sapevano e non ne curavan niente! È un orrore, perché intanto si spendeva (...) Fuori del p. Ehrle, nessuno s'intende di libri, o ci ha passione: vorrebbero avere la pappa fatta, cioè trovar pronto quello che loro bisogna senza far fatica (...) eppure vivono e scampano alle spese della Biblioteca senza aiutarla; e se occorre, vedendo di mal occhio e facendo guerra a chi vi si dedichi disinteressatamente con tutto il cuor suo (...) E se non guardassi le cose coll'occhio della fede e dell'amore che porto alla Santa Sede, (...) verrebbe ben la voglia di lasciar andare tutto per la sua strada, e di pensare al commodo e alla quiete propria".
Sotto l'impulso del prefetto Ehrle, però, la Vaticana fu trasformata e Mercati divenne il suo collaboratore più stretto fino al punto di subentrargli come pro-prefetto nel 1918, prefetto nel 1919 e di accedere, infine, a quella carica di cardinale bibliotecario e archivista che lo condusse alla diaconia di San Giorgio in Velabro, mantenuta fino alla morte giunta il 22 agosto 1957 (e si può aggiungere che il titolo diaconale è stato assegnato a un altro Bibliotecario di Santa Romana Chiesa, il cardinale salesiano austriaco Alfons Maria Stickler che lo tenne dal 1985 sino alla morte nel 2007, a 97 anni).
Un titolo che, come sopra dicevo, nel 1973 era stato attribuito a un altro mio predecessore che vorrei brevemente rievocare e che ebbi occasione di incrociare nella mia vita, questa volta in modo diretto. Si tratta di un altro emiliano, il cardinale Sergio Pignedoli (1910-1980), amico di Paolo VI che lo volle suo ausiliare quand'egli era arcivescovo di Milano. Là anch'io lo conobbi ancora da seminarista; lo rividi poi a Roma quand'era, prima, segretario di Propaganda Fide e poi presidente del Segretariato per i non cristiani. Ci univa anche il fatto di essere stati entrambi ex alunni del Seminario Lombardo di Roma e di avere amici comuni a Milano, in particolare lo scrittore Luigi Santucci.
Incomparabilmente lontano dall'erudizione di Mercati, egli offriva nella sua stessa persona solare, nella sua comunicazione vivace, nel suo ottimismo di base il profilo dell'apertura ai grandi orizzonti, del dialogo e dell'amicizia. Non per nulla il suo motto episcopale era Virtus ex alto, perché il suo sguardo tendeva sempre con entusiasmo verso l'infinito esaltando la grazia divina che dall'alto percorre tutte le strade del mondo, sciogliendo anche il gelo del rifiuto. Il suo spirito era sostanzialmente missionario: non a caso anche la sua attività diplomatica si era svolta nei Paesi e negli ambiti più diversi, dall'America Latina all'Africa, dalle Nazioni Unite al Canada. Ma ciò che mi accosta idealmente a lui è proprio il desiderio di affacciarsi oltre le frontiere per scrutare territori differenti in cui l'umanità si muove e s'interroga: penso che il cardinale Pignedoli sarebbe stato l'ideale e appassionato patrocinatore del "Cortile dei Gentili" che ora il Pontificio Consiglio della Cultura sta inaugurando a Bologna e Parigi, in attesa di estenderlo in tutto il mondo come spazio di incontro e di dialogo qualificato tra credenti e non credenti, i "gentili" appunto dell'omonimo atrio del tempio di Gerusalemme riservato ai pagani.
Uomo della convivialità (le sue mense quotidiane erano sempre affollate di persone diversissime tra loro, gente semplice e intellettuali, ragazzi e autorità), spontaneamente legato ai giovani (era stato assistente di un collegio di studenti dell'Università Cattolica e degli scout), dotato di una straordinaria capacità di tessere e mantenere rapporti, Pignedoli custodì sempre - come ricordò Giovanni Paolo II nella messa di suffragio per la sua morte - "la cura, anzi il culto dell'amicizia, il cui raggio in lui fu assai vasto".
Mercati e Pignedoli, lo studioso solitario e silenzioso e il pastore entusiasta e aperto al mondo, costituiscono quindi un dittico dalle tavole ben diverse. Eppure sono entrambi modelli di un ministero ecclesiale prezioso e glorioso che - accanto a quello celebratissimo e grandioso del beato cardinale Newman - rappresenta non solo per il loro ben più modesto successore nel titolo cardinalizio, ma per tutti gli ecclesiastici e i fedeli, un emblema luminoso da seguire, sulla scia del monito di quel gioiello omiletico e teologico che è la Lettera agli Ebrei: "Ricordatevi delle vostre guide, che vi hanno annunciato la Parola di Dio. Considerando attentamente l'esito finale del loro itinerario, imitatene la fede!" (13, 7). Anche un intellettuale "laico" contemporaneo di Mercati come Giorgio Pasquali, nella sua opera Filologia e storia (1920), ammoniva che "chi non ricorda non vive".



(©L'Osservatore Romano 6 febbraio 2011)
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