A margine di una riflessione di Lucetta Scaraffia sugli interventi dell'Unesco

I Sassi di Matera
e lo scolabottiglie di Duchamp


Il 7 aprile scorso Lucetta Scaraffia, nella rubrica "Luci di posizione" che tiene su "Il Riformista", ha sottolineato un possibile paradosso: talvolta lo zelo conservativo finisce col distruggere quello che vorrebbe proteggere. Strappando dal contesto originario luoghi, rituali, usanze od opere d'arte si rischia di perderne l'autenticità. È accaduto - rileva Scaraffia - alla parte antica di Matera, che dopo l'intervento dell'Unesco ha perduto i suoi abitanti ed è diventato uno sfondo perfetto ma senza vita per gite turistiche. Prendiamo spunto da questa provocazione per fissare l'attenzione sulla valenza del contesto nella percezione della realtà.

di MARCELLO FILOTEI

Facendo le pulizie nello studio del fratello la sorella di Marcel Duchamp buttò l'originale del Bottle Rack, lo scolabottiglie che aveva chiarito al mondo il concetto di contesto. Prendendo semplicemente quell'oggetto di uso comune e spostandolo dal suo ambiente abituale a una galleria d'arte, l'artista francese aveva inventato l'arte concettuale. Tornato da un viaggio di lavoro negli Stati Uniti, non fu difficile all'artista sostituire l'opera con un altro scolabottiglie qualunque, perché l'idea dell'opera era proprio quella di evidenziare come l'ambiente modifichi il significato delle cose, di qualsiasi cosa.
Allo stesso modo fa bene Lucetta Scaraffia a non piangere se il Palio di Siena non viene ammesso nell'elenco dei siti candidati a diventare parte del Patrimonio immateriale dell'umanità protetto dall'Unesco, perché essendo il Palio di Siena qualcosa di vivo ne avrebbe solo da perdere. L'intervento dell'organismo internazionale ha infatti senso solo quando tende a conservare qualcosa di già morto per evitarne la decomposizione; perde invece di significato se vuole preservare da contaminazioni qualcosa che vive di vita propria: non si può curare una persona sana.
Ancora una volta è solo una questione di contesto: prendere qualcosa che ha un valore intrinseco e spostarla, anche metaforicamente, in un museo solitamente la uccide. Prendere invece un oggetto comune e depositarlo in una galleria d'arte gli conferisce significati nuovi. Per essere chiari, senza il crescendo che lo precede il do di petto è paragonabile all'urlo di Tarzan. Di per sé non significa niente, perché è pensato come parte di un tutto. Allo stesso modo il chiacchiericcio in sala durante un concerto è in genere deprecabile, ma se avviene durante l'esecuzione di 4.33 di John Cage fa parte della composizione ed è anzi auspicabile. In quel "brano" infatti, l'artista americano chiede a un solista di qualsiasi strumento di "non suonare" per 273 secondi (-273 è la temperatura dello zero assoluto in gradi centigradi) proprio per sottolineare come i rumori della vita quotidiana possano emanciparsi e diventare suoni da organizzare in un discorso coerente. Di per sé "non suonare" non significa nulla, ma "non suonare" davanti a un pubblico acquista un significato.
Negli anni Cinquanta Cage lo aveva spiegato a tutta l'Italia durante "Lascia o raddoppia?", dove si è portato via cinque milioni di lire come esperto micologo, visto che con la musica guadagnava poco. Tra una specie e l'altra di funghi aveva parlato della sua musica, all'epoca già molto apprezzata in giro per il mondo, e ottenne di eseguire in diretta il suo Water Walk per vasca da bagno, annaffiatoio, cinque radio, pianoforte, cubetti di ghiaccio, pentola a vapore e vaso di fiori. "Torna in America adesso o resta qui?", commentò un attonito Mike Bongiorno dopo essersi congratulato per la vittoria. Io vado, "mia musica resta", rispose Cage, "Ah! Lei va via e la sua musica resta qui, ma era meglio che la sua musica andasse via e lei restasse qui", chiosò Bongiorno, il presentatore che come chiarì Eco non fu mai contagiato dal virus della curiosità.
Quello che restava oltre la musica di Cage - che come Duchamp ha enormemente influenzato gli artisti che sono venuti dopo di lui - era il principio di decontestualizzazione.
La questione è ancora aperta e sentita tanto che nel 1984 fu trattata con ironia in un film popolare come Il mistero di Bellavista di Luciano De Crescenzo nel quale Salvatore - che ha fatto solo la terza elementare, "però due volte" - va a vedere una mostra dove incappa in un'opera della serie Bathtub di Tom Wesselmann, uno dei padri della Pop Art. Di fronte a un lavoro che rappresenta un bagno finemente arredato, Salvatore si chiede: "Tempo fa un muratore amico mio durante il lavoro trovò un quadro di Luca Giordano; subito intuì che doveva trattarsi di un capolavoro.
Ma se un muratore dell'anno 3000 sotto le macerie di una villa trovasse un quadro di Wesselmann penserebbe che è un'opera d'arte o un bagno scassato?". Dipende tutto dal contesto.


L'abbraccio mortale di un museo


di SILVIA GUIDI

"Per capire l'arte medievale bisogna visitare l'ultima stanza del Museo di Cluny" (l'attuale Musée National du Moyen Age), era solito dire ai suoi allievi il medievista coreano I Deug-Su, scomparso a Firenze nel 2004; la stanza meno scenografica e più spoglia del museo parigino, quella in cui erano raccolte sotto una impietosa luce bianca (fino al nuovo allestimento del 2000) decine di statue di santi, profeti e patriarchi biblici decapitati o mutilati delle braccia o del viso durante la rivoluzione, frammenti di decorazione strappati alle facciate delle chiese, capitelli di pietra impilati uno sopra l'altro, bassorilievi rimossi dalla loro sede originaria e recuperati nel mercato antiquario, "macerie scampate a un gigantesco crollo", una sorta di "Hôtel des Invalides della memoria".
La "stanza delle macerie" era pedagogicamente preziosa, secondo il professore coreano, per far capire agli studenti quale lente deformante si frappone perennemente davanti ai nostri occhi quando cerchiamo di "leggere" il medioevo. Anche le opere apparentemente integre - spiegava I Deug-Su - quasi sempre sono mutilate dal loro contesto, del loro "movente" originario e della loro più profonda ragion d'essere, come quelle strane statue dalle grandi teste sui corpi esili che sembrano grottesche a uno sguardo contemporaneo, ma recuperano tutta la loro armonia se ricollocate nella sede originaria; prima di lanciarsi in giudizi critici spericolati - sono "sbagliate", caricaturali, profeticamente moderne, volutamente espressioniste o sottilmente dissacranti - bisogna tener presente il fatto che, il più delle volte, erano semplicemente pensate per essere viste dal basso, e inserite in un complesso sistema iconografico in dialogo dinamico con le vetrate decorate e gli altri arredi della cattedrale o del santuario per cui erano state fatte.
Talvolta il nemico peggiore delle opere non è l'incuria ma un eccesso di zelo, come nel caso delle illustrazioni più belle e preziose asportate dai codici miniati; non sempre venivano sottratte di nascosto, spesso erano gli stessi proprietari del codice a privare le tavole del loro contesto con l'intento di valorizzarle o conservarle meglio.
Tra le vittime eccellenti di questa "mutilazione di significato" - che prelude quasi sempre a uno smembramento anche materiale dell'opera - c'è anche la celebre Maestà di Duccio di Buoninsegna. Nel 1311, tutta la città di Siena scende in piazza per accompagnare in processione la tavola dalla bottega del pittore all'altare del Duomo. Nel capolavoro di Duccio, i senesi sentono infatti espressa la loro identità e la consapevolezza di appartenere a un popolo, quell'imprinting culturale, diremmo adesso, per cui su ogni moneta veniva inciso Sena vetus, civitas Virginis ("Siena antica, città della Vergine"). La grande tavola - le cui dimensioni erano imponenti, probabilmente circa 370 per 450 centimetri - era dipinta su tutti e due i lati: il prospetto tutto dedicato a Maria, il retro a Cristo; nella predella, nel tergo e nel coronamento trovavano posto oltre 50 storie.
Fino al grande retablo salmantino dipinto dai fratelli Delli nel XV secolo, l'opera di Duccio è il più grande ciclo di storie di Gesù e Maria mai realizzato. "Quando la Maestà era nel luogo per il quale fu concepita era una sorta di cattedrale umana dipinta entro una cattedrale di pietre e di marmi" (Enzo Carli); prima di essere chiusa in un museo, la tavola era collocata sotto la cupola, perché la luce diretta potesse incendiare l'oro del fondo e le immagini potessero completare le storie della Vergine narrate sulle vetrate circostanti; chi entrava nel Duomo vedeva il volto di Maria, e le storie della sua vita raccontate nella predella e nel coronamento, e la visione della Madre di Dio lo predisponeva ad accorgersi delle storie di Cristo narrate nel retro della grande tavola (cfr. Mariella Carlotti, Figlia del tuo figlio, La Maestà di Duccio di Buoninsegna, Firenze, 2002).
Nel 1506, in pieno rinascimento, la Maestà viene rimossa dall'altare maggiore. Nel 1771 viene praticamente smembrata: le due superfici dipinte, il prospetto e il retro, vengono separate e tagliate in tante tavole, riposte in un mezzanino dell'Opera del Duomo, dove rimangono fino al 1878, quando quello che resta della Maestà viene ricomposto in una sala del museo, insieme alle storie della predella e del coronamento, malamente tagliate. Accanto all'inventario dei danni materiali - molte storie dipinte sono andate perdute, come anche la ricca carpenteria che ne costituiva la struttura - la lista dei danni immateriali è ancora più grave: senza l'ingrediente-base della luce e della sacralità del luogo di origine, è andato perduto anche il complesso e profondo messaggio teologico di quella che voleva essere una "finestra semiaperta sul Cielo" (Fabrice Hadjadj).



(©L'Osservatore Romano 9 aprile 2011)
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