Le storie narrate dai "quadroni" del Duomo di Milano

Il pellegrinaggio «virtuale»
di Carlo Borromeo


Giovedì 5 novembre, nel quadro delle celebrazioni per i quattrocento anni dalla canonizzazione di Carlo Borromeo e nell'ambito delle iniziative di "Imago Veritatis", si terrà al Duomo di Milano un incontro dedicato ai "quadroni" che illustrano la vita del santo. Dopo la lettura di passi del Vangelo da parte di Roberto Mussapi, sarà pronunciata una lectio magistralis che pubblichiamo integralmente.

di Timothy Verdon

Il Nuovo Testamento afferma di Uno solo, Gesù Cristo, che egli "era il Verbo" e che "si fece carne" così che "abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità" (Giovanni, 1, 1). Afferma però che molti - tutti quanti credono nel nome di Gesù e lo accolgono come il Cristo - possono "diventare figli di Dio" (Giovanni, 1, 12).
Questi sono i santi, che a loro volta incarnano le promesse di bene contenute nelle Scritture ed emanano un riflesso della gloria del Figlio unigenito Cristo. Anch'essi sono contemplati dagli uomini e dalle donne tra cui abitano, perché - come Cristo è "l'immagine dell'invisibile Dio" (Colossesi, 1, 15) - i santi sono immagini di Cristo. San Leone Magno dice che la santificazione dei cristiani serve precisamente a che "l'immagine di Dio risplenda, come riflessa nello specchio del cuore umano, modellato secondo la forma del modello" (Discorso, 95, 6-8:  Patrologia latina, 464-465).
Vi è un preciso legame tra il Verbo Cristo e l'immagine offerta dalla vita dei santi:  la Scrittura, che letta e interiorizzata s'incarna in essi, come suggerisce questo ritratto di Carlo Borromeo mentre legge, un'opera cinquecentesca conservata alla Biblioteca Ambrosiana. Altri ritratti di san Carlo insistono che, nel suo caso, l'interiorizzazione della parola non era solo un atto intellettuale ma spirituale, morale, affettiva, fisica:  pensiamo alla celebre tela del 1628 di Daniele Crespi, dove il santo legge davanti a un crocifisso, piangendo mentre mortifica il corpo col digiuno; o all'incisione seicentesca di Pietro di Jode che lo fa vedere inginocchiato e con le mani giunte, il libro aperto ma lo sguardo fisso su Cristo in croce. Alla maniera delle immagini di santi del lontano Duecento, quest'icona di lettura orante è poi collocato al centro di una serie di piccole raffigurazioni relative alla Vita Caroli, come se l'essenziale chiave interpretativa di ogni sua azione fosse la preghiera, in cui, leggendo contemplava l'amore di Dio visibile in Cristo crocifisso, lasciandosi trasformare in ciò che leggeva, in ciò che vedeva.
Ecco le coordinate teologali e pastorali dell'impegnativo programma iconografico avviato nel Duomo di Milano nel 1602:  le piccole scene nell'incisione infatti riproducono il primo ciclo di ventidue "quadroni" di vari autori.
Il programma verrà allargato nei decenni successivi, per diventare la serie di 48 grandi tele a illustrazione della vita e dei miracoli del grande arcivescovo deceduto nel 1584. Nel 1602 egli era solo beato Carlo - la canonizzazione verrebbe nel 1610 - ma il Capitolo e la Veneranda Fabbrica vollero porre davanti agli occhi di tutti l'immagine del santo pastore che Dio aveva dato alla Chiesa milanese, proponendo Carlo Borromeo come "parola visiva" in cui fino a oggi risuona il Vangelo di Cristo; uomo di intensa devozione, spesso raffigurato in contemplazione dell'immagine di Cristo crocifisso, diventò così egli stesso "icona" da guardare. Nella tradizione cattolica, come tutti sanno, lo sguardo che i fedeli rivolgono ai santi non è solo celebrativo ma anche funzionale:  il Concilio di Trento (che san Carlo promosse e alla cui ultima sessione partecipò nel 1563) aveva infatti reiterato sia il ruolo intercessorio dei santi in cielo, sia l'utilità della loro venerazione in terra nonché della venerazione delle loro reliquie e delle immagini che li rappresentano.
Questa sottolineatura tridentina traspare chiaramente in uno dei quadroni tardivi illustranti i miracoli di san Carlo:  la storia del piccolo Melchiorre Bariola afflitto di un tumore, la cui madre angosciata innalza preghiere davanti a un ritratto dell'arcivescovo raffigurato mentre prega davanti al crocifisso.
Da questa prima scena, a sinistra, l'artista - Camillo Landriani - sposta poi l'attenzione verso destra, dove vediamo l'intervento di san Carlo a favore del fanciullo. Tra i messaggi del quadro vi è perciò l'assicurazione che le immagini potenziano la preghiera, favorendo un contatto non "immaginario" ma reale che, nella logica della Comunione dei santi, funziona a nostro favore. In quest'ottica, l'uso secolare di riappendere i quadroni tra i pilastri della navata centrale del duomo ogni anno nel periodo della festa di san Carlo (4 novembre) costituisce qualcosa di più di un addobbo. Queste grandi immagini che chiudono l'intercolunnio, rimpicciolendo la cattedrale e concentrandone la vita nella sola navata maggiore, creano praticamente una chiesa nella chiesa, un santuario carlino nel duomo dei milanesi, i quali si scoprono abbracciati dalla vita e immersi nelle gesta dell'eroico pastore ivi sepolto, sotto il presbiterio dove aveva organizzato sinodi e presieduto l'Eucaristia. I quadroni trasformano l'enorme spazio sacro in un luogo di raccoglimento - di anamnesi e di apprendimento - nello spirito della paolina lettera agli Ebrei che esorta:  "Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunziato la parola di Dio; considerando attentamente l'esito finale della loro vita, imitatene la fede. Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e per sempre!" (Ebrei, 13, 7).
Proprio questo passaggio concettuale - dai "capi che hanno annunciato la parola" alla Parola stessa, Gesù Cristo che in ogni tempo della storia si manifesta in modo riconoscibile perché immutato, ha ispirato i quadroni più importanti, il ciclo della Vita Caroli iniziato nel 1602 a dimostrazione della santità dell'arcivescovo ancora da canonizzare. Tra i primi episodi raffigurati, ad esempio, San Carlo che vende l'ereditario principato d'Oria per distribuirne il ricavato ai poveri diventa non solo attualizzazione del comando di Cristo:  "Vendete ciò che possedete a datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli dove ladro non arriva e tarlo non consuma" (Luca, 12, 33), ma anche riproposta rettificata dell'incontro di Gesù con un giovane ricco che, avendo da sempre osservato i comandamenti di Dio, chiedeva che cosa ancora dovesse fare.
"Se vuoi essere perfetto - aveva risposto il Salvatore - va, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo" (Matteo, 19, 21). Udita questa parola, il giovane del Vangelo "se ne andò, triste; possedeva infatti molte ricchezza" (Matteo, 19, 22), mentre ecco:  Carlo Borromeo, giovane e super ricco, non se ne va ma rimane, vende i suoi beni, dà ai poveri, così realizzando la seconda parte dell'invito di Cristo:  "Vieni! Seguimi!" (Matteo, 19, 21). In un'era aristocratica, Carlo - di famiglia principesca e nipote di un Papa - si spoglia dei privilegi, coltivando in sé "gli stessi sentimenti di Cristo Gesù", il quale, "pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini" (Filippesi, 2, 5).
Nello stesso spirito poi il quadrone raffigurante San Carlo che rinuncia formalmente ai titoli ecclesiastici, opera del Landriani con il Morazzone, in cui le reazioni stupite dei cardinali della corte pontificia suggeriscono quanto fosse inusuale un tale gesto, che tra l'altro implicava anche la rinuncia alle prebende.
In una Chiesa allora gerarchica come era aristocratica la società che essa serviva, Carlo Borromeo invece prende alla lettera il consiglio dato da Cristo ai discepoli:  "Ma voi non fatevi chiamare "rabbì", perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate "padre" nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste" (Matteo, 23, 8-9).
La stessa commistione di comportamenti obbedienti a Cristo e di "sentimenti" propriamente cristici traspare in altri dei quadroni. Nell'opera di Carlo Buzzi, San Carlo che istituisce scuole di dottrina cristiana, per esempio, vediamo l'arcivescovo mentre obbedisce alle normative tridentine, preoccupandosi della formazione catechetica e morale dei giovani, ma oltre ai catechisti l'artista fa vedere gli stessi fanciulli, così rammentando l'amore di Gesù per i piccoli, di cui diceva "lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite; a chi è come loro, infatti appartiene il regno di Dio" (Luca, 18, 16); l'enfasi del pittore sull'attiva partecipazione dei fanciulli all'investitura episcopale del maestro allude forse a questa loro "padronanza" del regno.
Fanciullesco nella sua innocenza sarà poi il gesto dello stesso arcivescovo che brucia, non volendola leggere, una lettera anonima con i nomi dei suoi nemici. Il quadrone, opera di Carlo Carloni, infatti incarna l'affermazione paolina secondo cui la carità cristiana, "magnanima" e "benevola", "non si adira, non tiene conto del male ricevuto" ma piuttosto "tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta" (I Corinzi, 13, 4-5.7); l'immagine traduce soprattutto la carità di Cristo che, mentre veniva inchiodato alla croce, pregava per i suoi uccisori:  "Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno" (Luca, 23, 34). Così, e più esplicitamente, L'attentato alla vita di san Carlo, opera del Fiammenghino, assimila l'arcivescovo a Cristo, secondo la parola dello stesso Salvatore:  "Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me... se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi" (Giovanni, 15, 18).
In questo dipinto narrante l'ostilità che l'opera riformatrice di san Carlo suscitò all'interno della Chiesa milanese - l'attentatore era infatti un religioso - vi è un particolare significativo. L'arcivescovo è raffigurato in orazione davanti a un'immagine:  una pala d'altare della Madonna col Bambino. San Carlo - che sapeva di essere un segno di contraddizione in mezzo al popolo cristiano - cercava cioè conforto contemplando il Cristo di cui, ancora bambino, Simeone aveva detto:  "Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele, e come segno di contraddizione" (Luca, 2, 34).
I segni. Nel più puro spirito cattolico, e osservantissimo degli insegnamenti tridentini, san Carlo valorizzò i segni tradizionali della fede, affidando il senso della propria opera al loro potere comunicativo. Gli edifici di culto e la suppellettile sacra furono per lui oggetto di minuta, quasi pignola attenzione, perché la magnificenza materiale e la bellezza, l'ordine e la pulizia trasmettevano un messaggio spirituale, parlando di Cristo riconosciuto e creduto, accolto e adorato - come la presenza fisica del vescovo in mezzo al popolo parlava del Signore che dall'alto del cielo si china sul mondo dei peccatori. Ma san Carlo non solo visitava le parrocchie e i santuari della sua vasta diocesi:  li arricchiva di reliquie, trasferendo personalmente questi cimeli di continuità storica nei luoghi dove i fedeli li potevano venerare. Il rinnovo di antiche pratiche devozionali locali era per lui obbedienza al comando del Signore trasmesso dal profeta Geremia:  "Fermatevi nelle strade e guardate, informatevi dei sentieri del passato, dove sta la strada buona percorretela, così troverete pace per la vostra vita" (Geremia, 6, 16). I segni erano i sentieri del passato, la strada buona da percorrere, la via della pace.
Soprattutto il segno grande, la croce del Redentore, era per Carlo Borromeo la strada buona su cui lui, pastore, doveva condurre il suo gregge. Gli artisti concordano nel raffigurarlo estatico mentre reca il Santo Chiodo in processione, nel reliquario cruciforme:  il quadrone del Fiammenghino fa capire come la pietas del santo si comunicava al popolo, e la visione ravvicinata del medesimo evento di Giulio Cesare Procaccini, nella parrocchiale di Orta, suggerisce la ragionevolezza dell'estasi di san Carlo - la sua lucidità - nonché la dinamica pace che gli pervadeva non solo la mente ma anche gli affetti, anche il corpo purificato dall'ascesi.
Ho detto che la fiducia di san Carlo nei segni rispecchiava il "più puro spirito cattolico". In una pagina straordinaria, il padre della Chiesa Agostino d'Ippona, battezzato dal predecessore di Carlo Borromeo, sant'Ambrogio, dice che "la presentazione della verità mediante segni ha il potere di accendere ed accrescere quell'ardente amore per il quale noi, come fiamme che obbediscono alle leggi della natura, gravitiamo verso l'alto e contemporaneamente verso le profondità, cercando un luogo di riposo. Presentate in questo modo, le cose ci commuovono ed attivano le nostre emozioni molto di più che se venissero esposte con la mera ragione (...) credo che le emozioni vengono accese meno facilmente mentre l'anima è assorta nelle cose materiali, ma quando essa viene condotta a segni materiali delle realtà spirituali, e da questi poi verso le cose che i segni rappresentano, allora l'anima si rafforza nell'atto stesso di passare dagli uni alle altre, appunto come la fiamma di una fiaccola che, muovendosi, arde sempre più intensamente" (Epistola, 55, 11, 21).
Dal modo in cui è raffigurato nei dipinti che descrivono il suo rapporto con i segni tradizionali, è chiaro che san Carlo imparava da essi a diventare lui stesso segno, come imparava dalle immagini a lasciarsi trasformare in vivente icona di Cristo. Questo processo raggiunse un punto apicale quando, durante la pandemia del 1576-1577, Carlo ministrò agli appestati a rischio della propria vita, offrendosi infatti come immagine non solo del cristiano che visita Cristo nei malati (cfr. Matteo, 25, 43), ma dello stesso Cristo Gesù che, "consacrato in Spirito Santo e potenza ... passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui" (Atti, 10, 38). Magnifico il quadrone del Cerano che fa quasi confondere l'arcivescovo cardinale con gli appestati a cui offre il cuore e la borsa; ancora più commovente il mediocre dipinto del Mandriani che lo raffigura mentre amministra i segni sacramentali - la cresima e l'estrema unzione - ai suoi figli infetti dal morbo. Sullo sfondo vediamo l'accampamento degli appestati e, nella media distanza a destra, i cadaveri ammucchiati dei morti.
Non a caso, al centro della composizione vediamo la croce astile del vescovo, non solo un segno liturgico ma qui chiaramente chiave unica di lettura degli eventi. Gli ultimi episodi del ciclo pittorico insistono su questo rapporto speciale di san Carlo con i segni e con le immagini:  l'erezione delle croci viarie a Milano, con cui san Carlo rinnovò la prassi paleocristiana e medievale, consacrando Milano al Salvatore. Opera del Cerano, è fra i capolavori del ciclo; la visita poi a Torino per venerare la Sindone, dove il santo è accolto dalla famiglia ducale e l'ultima dei suoi quattro pellegrinaggi al Sacromonte di Varallo dove, nottetempo e solo, andava a pregare davanti ai simulacra nelle cappelle in mezzo al bosco. Fondato alla fine del Quattrocento da un francescano osservante, fra Bernardino Caimi, per ricreare l'emozione del pellegrinaggio in Terra Santa, ormai impossibile causa il deterioramento dei rapporti tra l'Europa cristiana e l'Impero Ottomano, il messaggio del Sacromonte era stato potenziato nel Cinquecento con la scansione drammatica dei misteri della vita di Cristo in cappelle separate, contenenti gruppi plastici di più figure, in uno stile fortemente veristico; la prima guida stampata, del 1514, ne elenca ben ventotto, di cui alcune allora in via di completamento. L'artista responsabile di questa prima fase dell'espansione, era Gaudenzio Ferrari.
Le scene nelle cappelle del Sacromonte - costruzioni "multimediali" con scultura, pittura, architettura scenografica, mobili e oggetti di uso quotidiano, tendaggi e perfino costumi di vera stoffa e parrucche - hanno particolare interesse per la storia dell'arte in quanto suggeriscono il retroterra del realismo barocco e del suo primo grande esponente, Caravaggio.
Hanno interesse soprattutto nel contesto dell'emergente sensibilità religiosa, codificata dal Discorso del cardinale Paleotti ma già in formazione prima del concilio. L'impatto "sacro" delle scene in queste cappelle diventa chiaro se leggiamo il racconto della visita di san Carlo al santuario nel 1584, pubblicato dal futuro vescovo di Novara, Carlo Bascapé, otto anni dopo, nel 1592.
La visita del 1584 - la quarta compiuta dal Borromeo dal 1568 - precede di pochi giorni la sua morte, avvenuta nella notte tra il 3 e il 4 novembre di quell'anno. Secondo Bascapé, san Carlo arrivò a Varallo intenzionato a meditare sulla morte di Cristo, di cui aveva venerato la sindone poco tempo prima a Torino. Dormiva su un asse di legno, si nutriva di solo pane e acqua e si dava la disciplina.
Leggeva - forse dal nuovo manuale per la visita alle cappelle, pubblicato nel 1566 da Francesco Sensalli - e pregava fino a sei ore al giorno. La notte poi, solo, con una lanterna in mano, visitava la cappella corrispondente all'episodio della vita di Cristo che aveva studiato e meditato durante il giorno. Il quarto giorno fece la sua confessione in lacrime.
L'immagine che Bascapé dipinge - del santo solo e sofferente che, alla luce incerta di una lanterna contempla per ore intere statue policrome di legno e terracotta nelle cappelle isolate del bosco - è straordinaria. Carlo Borromeo non era un contadino credulone o un pio artigiano:  era un principe, figlio di una delle casate più potenti dell'Italia settentrionale e nipote di Pio iv; aveva titoli di studio. Sembrerebbe improbabile che un simile personaggio potesse coltivare le disposizioni interiori descritte dal Bascapé davanti a simulacra dipinti, ma non ci sono ragioni per dubitare il racconto del biografo.
Il fatto però dice molto della fame di emozioni e forse anche dell'apertura mistica al reale che diventano in questi anni elementi chiave dell'esperienza religiosa.
Nel Settecento verrà modellata una figura di san Carlo orante per la cappella della Preghiera di Gesù nell'orto, san Carlo insieme a Cristo, san Carlo come Cristo, san Carlo alter Christus. Questa figura è specialmente toccante perché fu davanti a un'immagine dell'Orazione di Cristo nell'orto che il santo era spirato a Milano il 3 novembre 1584:  una piccola tavola di Giulio Campi oggi alla Biblioteca Ambrosiana, dove l'iscrizione informa che Carolus mentis corporisque oculos in hac tabella defixos habens, animam Deo reddidit ("Avendo gli occhi della mente e del corpo fissi su questa tavola, Carlo ha ridato a Dio la sua anima"). Così al momento di nascere al cielo, Carlo Borromeo guardava un'immagine umana dell'Immagine divina Cristo, il cui Vangelo aveva illustrato con la vita.



(©L'Osservatore Romano 5 novembre 2009)
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