Un ricordo di monsignor Cesare Angelini

Capelli bianchissimi e tonaca color carbone


di Arturo Colombo
Università di Pavia

Monsignor Cesare Angelini l'ho conosciuto nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, quand'ero studente a Pavia e lui, ormai da anni, era l'impareggiabile rettore dell'Almo Collegio Borromeo. Già allora, classe 1886, aveva una gran chioma di capelli bianchissimi, che contrastava subito con la tonaca color carbone, da cui spuntavano due candidi polsini; poi, più in basso, sotto la veste talare uscivano delle vecchie e ruvide scarpe da contadino.
A conferma che lui veniva da una famiglia povera, della Bassa pavese - precisamente da Albuzzano - di cui ci lascerà questa immagine, domestica e commovente:  "Polenta e pan giallo con una rapa o una sleppa di lardo, erano il cibo quotidiano; per vedere il pan bianco o pane di frumento, bisognava ammalarsi...".
Più tardi, lui stesso si descriverà così, parlando in terza persona ma tracciando un autoritratto disincantato, e molto veritiero:  "Il fanciullo è cresciuto, ha studiato, ha sofferto, ha letto molti libri, forse ne ha anche scritti; è invecchiato, soprattutto è invecchiato. Ma è rimasto sempre uno di campagna, riconoscibile lontano un miglio, all'aria, al passo, all'aspetto. E perché avrebbe dovuto cambiare? È la sua verità, la fedeltà alle origini".
In effetti, a seguire anche sinteticamente il suo lungo itinerario - ha avuto la fortuna di vivere, lucidissimo, fin quasi a novant'anni, fino al 1976 - si avverte che nella sua straordinaria figura convivevano tre personalità, distinte eppure felicemente complementari:  il sacerdote, il letterato e il critico. Del resto, Carlo Bo - che lo conosceva bene - l'ha definito in modo perfetto, quando l'ha chiamato "fedele servitore di Cristo e umile servitore della poesia".
E infatti, fra le tante pagine che ha scritto (fra le quali spicca un'ottima edizione degli Atti degli Apostoli uscita da Einaudi nel 1967, nonché l'attenta cura dei Vangeli tradotti da Niccolò Tommaseo, nel 1949) ho sempre ammirato lo stile carico di equilibrio e raffinatezza, con cui, per esempio, ha saputo raccontare Parabole e fatti nel Vangelo, un delizioso librino pubblicato nel 1955 dalle edizioni Pro Civitate di Assisi, e purtroppo mai più riproposto.
Per darne un esempio, subito illuminante, credo che basti rammentare quanto Angelini scrive a proposito dell'episodio dell'adultera.
Naturalmente Angelini cita le parole del Vangelo di Giovanni:  "Chi di voi è senza peccato, lanci contro di lei la prima pietra". Sono "le sole parole che Gesù dice" ci ricorda Angelini, aggiungendo "e torna a fregare per terra".
Ma subito dopo aggiunge questo commento, carico di autentica pietas:  "Non mi pare di sforzare il Vangelo affermando che Gesù volesse dire:  "Chi di voi è senza questo peccato, lanci contro di lei la prima pietra". Come dire:  ci siete dentro tutti; e perché accusarvi tra voi con ipocrita accanimento e poca carità?".
Discrezione e ironia:  ecco un'altra delle costanti, che spiccavano in questo singolare sacerdote, quando si andava a trovarlo nel "suo" Borromeo, e lui era seduto a un'elegante scrivania che ti diceva, o ti faceva credere, fosse appartenuta addirittura a Vincenzo Monti. Ti accoglieva con immediata, spontanea cordialità; si metteva a parlare dei suoi autori, in primis del Manzoni, aggiungendo quasi subito che il celebre autore dei Promessi Sposi non era solo "un grande" delle nostre lettere, ma per lui costituiva "un'eredità o, meglio, un bene che più se ne parla e più aumenta"; anzi, rappresenta "una verità che ci accompagna tutti i giorni" perché "in ogni momento e per ogni situazione ha una risposta da dare".
Poi, mai professorale né cattedratico, cambiava discorso, e magari si metteva a parlare di Pavia nel suo modo insolito e arguto, descrivendo quelle "viuzze brevi, chiuse come conchiglie, e dentro vi romba la storia dei secoli".
Perché quasi sempre Angelini ti sorprendeva con quel suo timbro, sempre rasserenante, di uscire dagli schemi, per suggerirti dei percorsi nuovi, dei collegamenti imprevedibili. Certo, aveva le sue preferenze:  oltre a Manzoni e alle figure che spiccano in Nostro Ottocento (edito da Boni nel 1970), per esempio, Renato Serra, che considerava "il nostro vero maestro di lettura, d'infallibile gusto" oppure Carlo Dossi, cui si era accostato "negli anni del primo dopoguerra, tra il 1919 e il 1920, attraverso l'amicizia di Carlo Linati" e che ammirava per la costante "fedeltà lombarda":  un'immagine che secondo Angelini valeva più di un elogio...
Ma non aveva il minimo timore di uscire anche da quelli che - nella lontana Italia degli anni Cinquanta - potevano sembrare schemi ideologici, un po' rigidi e settari. Così, in un saggio del 1946 era stato prontissimo nel sostenere che "molto Croce vive in noi, anche in chi non lo confessa" e aveva specificato, caso mai qualcuno fingesse di non aver capito:  "Non dico dei suoi (di Croce) imprestiti scientifici e culturali, ma del suo esempio di lavorare e pensare, severamente, che parve a tutti nuovo, ed è un vivere interno e intenso".
Forse, il giudizio più acuto su Angelini l'ha dato Giovanni Spadolini, che lo conosceva bene. Tant'è vero che a cent'anni dalla nascita, nel novembre del 1986, così si è espresso:  "Angelini, né come scrittore né come sacerdote, ha mai avuto il tormento della fede, che si scontra con l'autorità e deve piegarsi all'obbedienza. No, Angelini ha avuto il dono della fede, che durante tutta la sua lunga e operosa giornata ha saputo far coesistere e convivere - in modo che considero addirittura sorprendente - con il dono di un gusto e di uno stile, interamente dedicati a coabitare in compagnia dei suoi autori preferiti".
Non so di quanti altri si possa dire altrettanto.



(©L'Osservatore Romano 9-10 novembre 2009)
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