San Pietro e san Marco nell'iconografia dell'area adriatica

La roccia e il leone


Il 13 novembre il direttore dei Musei Vaticani ha presentato, nell'Aula del Sinodo in Vaticano, il volume San Pietro e san Marco. Arte e iconografia in area adriatica curato da Letizia Caselli (Roma, Gangemi, 2009, pagine 239). Pubblichiamo il suo intervento.

di Antonio Paolucci

San Marco e san Pietro insieme, perché insieme sono effettivamente stati nella agiografia e nella iconografia, nella leggenda e nella storia, sull'una e sull'altra sponda dell'Adriatico. Addirittura si può dire che ubi Marcus ibi Petrus.
Diremo dopo delle ragioni di questa singolare contiguità. Occorre precisare però che Pietro e Marco hanno avuto, nella storia, destini ben diversi. Totalmente religioso il primo, quasi esclusivamente politico il secondo. San Pietro è per tutti il caput Ecclesiae, il primo Papa; colui che legittima, nell'ecumene cattolico, la successione apostolica. San Marco, al contrario, è diventato fin da subito l'emblema di uno Stato. Per i dieci secoli della sua storia la Repubblica oligarchica Veneziana si è identificata con il nome dell'evangelista. Dire san Marco voleva dire Venezia. Il leone alato con il libro e la spada stava al centro della piazza principale in ogni città del Dominio di Terra o da mar; da Spalato a Verona, da Corfù a Crema. Il leone issato sulle galere da combattimento terrorizzava, al suo solo apparire, i pirati uscocchi e i corsari magrebini; e sbaragliò il Turco, a Lepanto, nel 1571.
San Marco stava in cima agli atti della Cancelleria Ducale e appariva sullo zecchino e sul ducato d'oro, monete  di  riferimento  in  tutti  i porti del Mediterraneo, da Costantinopoli a Barcellona, da Palermo a Tunisi.
Come e perché il leone, nella visione che Giovanni ebbe in Patmos, sia diventato l'emblema della Repubblica Veneziana e come, codificato in quali iconografie, motivato da quali ragioni, sia avvenuto il suo collegamento, insieme religioso e politico, con san Pietro, il santo egemone sull'altra sponda dell'Adriatico dalla Dalmazia alla Bosnia, questo è l'argomento del libro che vede all'opera, per il coordinamento di Letizia Caselli, molti autorevoli specialisti.
Sono iconografi come Giorgio Fedalto e Fabrizio Crivello, storici della Chiesa come Antonio Niero, storici dell'arte, archeologi, studiosi di miniatura e di arti applicate come Sergio Tavano, Nikola Jaksiæ, Ennio Concina, Francesca Flores d'Arcais, Ettore Merkel e altri ancora. Obiettivo comune di tutti è quello di contribuire, utilizzando ognuno i propri specialismi, a dipanare l'intricata matassa della historia marciana.
Fra la fine del primo e l'inizio del secondo millennio l'agiografia e l'iconografia dell'evangelista sono ormai definite e consolidate, almeno in area adriatica. L'una e l'altra sono il risultato della contaminazione di due tradizioni più o meno leggendarie che contengono però al loro interno frammenti di storia.
Ci sono la linea narrativa greco-orientale e quella latino-occidentale. Per la prima Marco fonda la Chiesa di Alessandria, ne diventa vescovo, viene martirizzato sotto Nerone nell'anno di Cristo 68 e sepolto nella località egiziana di Boucoli. Per il leggendario latino invece, Marco ha un destino prevalentemente romano e veneto. Arriva a Roma con Pietro nel 42, viene incaricato di evangelizzare Aquileia e le terre circostanti, muore ad Alessandria, ma da Alessandria i suoi resti mortali vengono trafugati dai veneziani nell'anno 828. Da questo momento in poi san Marco diventa il segno identitario di una città e di uno Stato. È il patrono di Venezia sostituendo nel ruolo il greco Teodoro, è titolare della basilica che porta il suo nome, è l'emblema della Repubblica.
C'è un elemento comune, tuttavia, in entrambe le agiografie. Marco è stato discepolo di Pietro, il suo vangelo è stato "dettato" o "approvato" dal Principe degli Apostoli. La distinzione è sottile, però importante. In una formella di avorio databile fra il VI e il VII secolo, conservata al Victoria and Albert Museum di Londra, vediamo Pietro in veste di magister seduto sullo scranno curiale in atto di dettare il vangelo a un Marco che, a capo chino, umilmente scrive.
Parecchi secoli dopo, nei mosaici della Cappella Zen in San Marco - siamo in pieno Duecento e l'iconografia del santo è definitivamente assestata - la scena cambia. Vediamo l'evangelista scrivere il libro nel suo studio e quindi sottoporlo all'approvazione di Pietro che lo benedice.
Nella rielaborazione "politica" che i Veneziani hanno fatto della vita Sancti Marci, l'evangelista è cresciuto in rango e in prestigio. Non è più amanuense, ma autore. Quanto alla presenza di Pietro accanto a Marco - li vediamo insieme, con sant'Ermagora, nei mosaici absidali della basilica - essa è per i veneziani preziosa e va sottolineata e valorizzata in ogni modo.
Poiché Venezia, nella mitografia ufficiale della Repubblica, si considera figlia di Roma, erede della sua gloria, e vuole per la Chiesa nazionale un collegamento apostolico di massimo rango. Quindi, san Pietro "deve" stare accanto a san Marco. Ubi Marcus ibi Petrus, appunto. Per i veneziani è una questione di prestigio dello Stato e di orgoglio patriottico.
Il "ritratto" più antico di Marco è affidato a una tavoletta del Fayyum (VI secolo) conservata nella Biblioteca Nazionale di Francia. È un uomo robusto, barbato e stempiato, che ci guarda frontalmente con grandi occhi neri. L'immagine di Pietro più lontana nel tempo la conosciamo. Sta nel noto rilievo lapideo di Aquileia che, alla fine del IV secolo, lo rappresenta di fronte a san Paolo.
Pietro è la roccia sulla quale riposa la Chiesa di Roma. Per questo le popolazioni dell'Illiria, convertite al cristianesimo d'Occidente, lo scelsero come loro santo patrono.
Ma la costa orientale dell'Adriatico - la Dalmazia insieme all'entroterra croato e bosniaco - entrarono presto nell'orbita politica e culturale di Venezia. Questo spiega perché, da Arbe a Trogir, si incontrino Pietro e Marco uniti nell'iconografia.
Quanto sia stato profondo il meticciato di culture in questa parte d'Europa, lo dimostra una tavola dipinta con l'immagine della Vergine che si conserva nel monastero di Santa Maria a Zara. Circa l'anno 1330, di fronte a una Madonna in stile in parte occidentale in parte greco-paleologo si inginocchia in proporzioni rimpicciolite il donatore, vestito in costume veneto, come un podestà di Padova o di Treviso. Dall'iscrizione sappiamo che il devoto è uno slavo di alto rango, di nome Paolo Subiæ, bano - cioè governatore - dei Croati e signore della Bosnia.



(©L'Osservatore Romano 14 novembre 2009)
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