A cento anni dalla morte di Cesare Lombroso

Criminale
voglio guardarti in faccia


di Oddone Camerana

Acento anni dalla morte - e non dalla nascita, si fa notare, perché anche questo particolare è un segno - Cesare Lombroso torna di attualità. La collezione di reperti criminali, corpi di reato, fotografie, disegni, strumenti di punizione, crani, scheletri, attrezzature carcerarie e manicomiali, la raccolta messa insieme dallo studioso veronese di origine, ma torinese di adozione, è nuovamente visibile nel museo a lui intitolato con sede accanto ai già esistenti Museo di anatomia umana di Luigi Rolando e Museo della frutta di Francesco Garnier Valletti. Un insieme all'insegna della scienza positiva e dei dati certi, prospera a cavallo del XIX e del XX secolo, che viene a costituire una sorta di museo dell'uomo collocato davanti al parco torinese del Valentino. In concomitanza con l'apertura dell'esposizione, lo storico Silvano  Montaldo  e il medico legale Paolo Tappero hanno  curato per la Utet il volume interdisciplinare Cesare Lombroso cento anni dopo e la nuova casa editrice milanese Et.al ha ripubblicato una delle opere più tristemente famosa del medesimo La donna delinquente, la prostituta e la donna normale (pagine 640, euro 32).
Rimosso, demonizzato, considerato scomodo, quando non è stato visto da alcuni come un ciarlatano, nonostante l'enorme notorietà raggiunta in Italia e a livello internazionale, dalla Russia al Nord America, la domanda che il criminologo pone è:  come mai il fondatore di quella che viene chiamata la "scienza triste" vede oggi un ritorno e un'attenzione per lo meno sul piano della sua conoscenza? Siamo di fronte a una sua riscoperta? Direi di no e la ragione è che c'è un Lombroso che non è mai scomparso. Un Lombroso popolaresco, un Lombroso di superficie che, letto in modo giustizialista e vendicativo, è duro a morire e spinge alla rinascita di una concezione della pena come risorsa remunerativa e compensativa.
Ancora di recente in una lettera a un quotidiano nazionale, per esprimere la propria indignazione nei riguardi di un'impresa della grande distribuzione rea di aver messo in circuito prodotti deteriorati e rilavorati, chi scriveva, non contento del provvedimento inflitto all'impresa in questione, aggiungeva:  "Vogliamo i nomi dei criminali, le facce sui giornali; vogliamo guardarli secondo la fisiognomica, vedere se assomigliano ai maiali, agli sciacalli, agli avvoltoi". Ecco dunque riemergere l'insopprimibile bisogno di vedere la faccia del criminale, la voglia di incrociare il suo sguardo sentita in modo speciale dalla vittima o dai suoi superstiti, la tentazione di poter penetrare nel mistero del male, di cogliere il segno esteriore del crimine nascosto nel corpo, sentimenti questi che stentano a scomparire e che fanno pensare a come si possa essere senza saperlo lombrosiani in senso deteriore. Del resto già nel Cinquecento lo scienziato e commediografo napoletano Giacomo della Porta e poi nel Settecento il teologo e frenologo svizzero Johann Kaspar Lavater pensavano in modo lombrosiano. L'idea che le facce fossero come un libro da leggere era una convinzione operante. Ma saranno Lombroso e gli studi compiuti nella sua epoca a cercare di dare dignità scientifica al pregiudizio in questione, quello di vedere identità e continuità tra l'aspetto esteriore e l'interiorità, tra i tratti del volto e le predisposizioni del carattere, tra gli indizi esterni e le condizioni mentali di un soggetto in esame. Spiegare biologicamente e anatomicamente il crimine, questa sì è stata la novità del secolo lombrosiano, il risultato delle osservazioni e delle classificazioni contenute ne L'uomo delinquente, nelle oltre duemila pubblicazioni lombrosiane, nonché nell'"Archivio di psichiatria, antropologia criminale e scienze penali", la rivista della "nuova scuola". È lì che il prognatismo accentuato, l'angolo abnorme del profilo di un volto, le mandibole sviluppate, gli zigomi sporgenti, le orecchie deformate, i sopraccigli troppo contigui e altre particolarità escono dal descrittivo aneddotico e familiare per assumere la rilevanza di una possibile prova, il peso di un indizio. Incubi scomparsi, restati ciononostante nel linguaggio corrente come per esempio quel "bernoccolo degli affari" che non si sa bene che cosa sia ma di cui non si esclude l'esistenza.
Ma c'è un altro Lombroso che, al di là della sua discussa notorietà di studioso e di riformatore della scienza penale, emerge in concomitanza dell'avvicinarsi dei centocinquanta anni dell'unità d'Italia. Ed è il Lombroso scrittore, il narratore, se vogliamo, da intendersi come specchio di quella che è stata una delle ossessioni della narrativa del secondo Ottocento e primi del Novecento, l'ossessione della degenerazione umana, specialmente quella delle grandi città sviluppatesi a seguito della prima inurbazione dovuta alla rivoluzione industriale. Ossessione che in Italia ha trovato in Lombroso un "narratore" che narratore propriamente non è, ma scrittore sì, e certamente di degenerazioni urbane. Fatto sta che mentre Parigi ha avuto in Zola de La bête humaine, de L'assommoir e di Fecondité il narratore dell'atavismo, dell'alcolismo e della piaga degli aborti clandestini e in Maupassant il testimone di altrettanti "vizi", mentre Londra è stata servita egualmente dalle pagine di Dickens, Stevenson, Conrad e Herbert George Wells per citare alcuni, così come Oslo da Ibsen, Stoccolma da Strindberg, San Pietroburgo da Dostoevskij e Vienna da Musil, lo stesso non si può dire per le nostre città rappresentate degnamente nel senso detto più da Lombroso che da autori riconosciuti come tali del fine secolo nostrano quali sono stati Capuana, Verga, De Amicis e D'Annunzio. Sarà che la nostra cultura dell'epoca è stata più contadina che urbana, certo è che trattandosi di descrivere tare e decadenze umane Lombroso è più adatto di altri a essere messo a confronto di un Céline.
Cose del passato si dirà, spazzate via dalla grande guerra e dal grande incendio sacrificale da cui è stata attraversata. Sennonché la smania scientifica lombrosiana di trovare nella famigerata fossetta occipitale del cranio dell'omicida la causa del comportamento criminale imputatogli sembra rinascere sotto altre spoglie nell'imporsi del determinismo genetico che si nasconde dietro il non ancora famigerato Dna e nella riduzione dell'essere umano alla sua identità genetica. "Lombroso - è stato detto in proposito - non è poi tanto lontano da Craig Venter", il biologo a cui si devono importanti studi sulla mappatura del genoma umano.
Lombroso non sarebbe infine così tenacemente rimosso dagli stessi che forse lo venerano se a lui, oltre ai meriti e ai demeriti accennati, non fossero attribuibili alcuni dei motivi di turbamento che ancora tormentano i pensieri della criminologia corrente. In questo senso il delitto politico non avrebbe l'attenzione e, se vogliamo, i riguardi che gli sono riservati se Lombroso non avesse scritto Genio e follia e sua figlia Gina, da lui ispirata, I vantaggi della devianza. È nella funzione innovatrice riconosciuta ai criminali folli e alla devianza stessa, definita "levatrice del progresso", che si deve risalire per capire il peso e l'importanza che, nella valutazione della giustizia, hanno avuto e continuano ad avere i delitti politici rispetto a quelli cosiddetti comuni.



(©L'Osservatore Romano 13 dicembre 2009)
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