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Colloquio con il senatore a vita alla vigilia del suo novantesimo compleanno

Giulio Andreotti ovvero
la sostenibile leggerezza della storia


 

di MARCO BELLIZI - GIOVANNI MARIA VIAN

Per il suo compleanno non ha chiesto regali particolari, anche se un desiderio alla fine se lo lascia scappare:  "Beh, se proprio posso... magari una proroga". Giulio Andreotti compie, il prossimo 14 gennaio, 90 anni. Che siano stati intensi è innegabile. Che siano stati dettagliatamente analizzati, in diverse sedi, è altrettanto certo. Il senatore a vita però sembra sempre sorvolare con invidiabile leggerezza la lunghissima rassegna degli anni trascorsi, con quel distacco che probabilmente è uno dei segreti della sua longevità come uomo pubblico. E oggi è lì, nel suo studio a Palazzo Giustiniani, davanti alla sua scrivania, tra un libro di don Giussani e uno di Renato Farina, avvolto in un doppio cardigan per combattere il freddo, intento a scrivere, quasi a memoria vivente di oltre un settantennio di storia politica italiana. E in uno dei foglietti, un appunto recita:  "Quota 90". Sottotitolo ideale:  si segna la quota quando non si è ancora arrivati in cima. Anche perché il senatore Andreotti di cose da dire ne ha ancora diverse. Non i segreti, che essendo tali, è ridicolo anche chiederli. Altro. Per esempio che l'unità politica dei cattolici doveva finire prima e che ora è molto meglio distribuirsi fra i partiti. Che la cultura non c'è più. Che la giustizia italiana paga i troppi gradi di appello. E che la crisi economica c'è ma non è diversa dalle altre. E poi ricordi, aneddoti noti e meno noti, raccontati con pacata ironia per oltre un'ora in un colloquio con il direttore del nostro giornale e con chi scrive.

Senatore, auguri...

Grazie. Intanto ringrazio Dio, perché, lungo la strada... ecco:  i miei compagni di scuola non ci sono più. Delle volte quando eravamo ragazzi usavamo una frase per salutarci:  "L'ultimo spenga la luce". Adesso ci guardiamo bene dal dirlo... Ma, insomma, ora abbiamo tutti buone condizioni di vita, alimentari, medicinali efficaci, la mortalità si è ridotta...

Qualcuno ha detto che si arriverà presto a vivere 120 anni.

Se fossi il ministro del Tesoro mi preoccuperei. In questi giorni, fra l'altro, ci apprestiamo anche a celebrare i cento anni di Rita Levi Montalcini.

Veniamo alle domande...

È la mia prima intervista a "L'Osservatore Romano". Non ricordo se in tempi preistorici, negli anni della Fuci, magari sia già capitato. L'ho detto altre volte, come lettore de "L'Osservatore", attualmente credo di essere il decano dei viventi, perché cominciai a leggerlo agli inizi degli anni Trenta, un po' per la curiosità. Avevo 12-13 anni. Costava 20 centesimi, mia madre mi dava 40 centesimi per il maritozzo. Invece cominciai a prendere un certo gusto a leggere "L'Osservatore" e "Il Messaggero". Venivo anche un po' preso in giro a casa per questo. Mia madre i giornali non li leggeva. Poi ricordo il periodo, in modo particolare, degli anni durante la guerra, gli Acta Diurna, la rubrica di Guido Gonella. Allora si dava anche la caccia a chi comprava il giornale del Vaticano. Si arrivò addirittura a fare dei picchetti presso le edicole. Ci fu anche un attuale docente universitario, Claudio Pavone, a cui fecero bere un bicchiere di olio di macchina perché stava comprando "L'Osservatore". C'era anche qualcuno, che poi divenne pure deputato democristiano, che su "Roma fascista" - allora, ricordo, si facevano grandi polemiche contro "L'Osservatore" - scriveva poesiole del tipo:  "L'Osservatore romano, uscito adesso, sia requisito per il cesso". Era un momento nel quale il giornale certo dava fastidio. C'erano notizie, specie sulla guerra, di cronaca obiettiva. E poi, appunto, c'era la celebre rubrica di Guido Gonella, nella quale si parlava liberamente, al contrario dei giornali italiani, tutti diretti dalla "cultura popolare":  perciò il mondo si limitava ai nostri alleati, il resto era o ignorato o era una sorta di Sodoma e Gomorra. Certo, fa una certa impressione ora.

Era il periodo delle leggi razziali.

Le leggi razziali furono tra le meno sentite, perché non c'era una tradizione in questo senso, da noi. Ricordo che in occasione del congresso della Fuci del 1938 a Genova - ero al secondo anno di università - eravamo di sera alla Messa nella chiesa dell'Immacolata a via Assarotti. Il parroco era don Giacomo Lercaro, che poi diventò cardinale. Ascoltammo una predica sull'uguaglianza degli uomini di fronte a Dio che lì per lì non capivamo, ci sembrava un po' ovvia. Capimmo dopo che era uscito il comunicato del Partito fascista in cui si preannunciavano le leggi razziali, che erano a imitazione della Germania ma che qui erano del tutto prive di razionalità storica. Erano anni molto bui; vedere che i nostri compagni ebrei non potevano più frequentare con noi la scuola... C'era un'infatuazione nazionalista, una specie di massimalismo del tutto privo di fondamento. Se si riflette, fa impressione come si possa creare o deviare l'opinione pubblica e portare generazioni intere su strade completamente sbagliate.

La popolazione cattolica come viveva questo periodo?

Certamente c'era anche prudenza nel criticare. Tuttavia, non solo non c'era adesione, ma nell'occasione nella quale si poteva dire una parola, sia in parrocchia, sia nei circoli, venivano prese le distanze. Pensare che gli uomini potessero dividersi per razze risultava un po' curioso. Quando un sistema politico perde i suoi controlli si scivola facilmente in deviazioni di cui uno poi non è neanche personalmente responsabile, perché è un po' l'aria che respira.

L'aria che si respira oggi in Italia è per molti aria di crisi. Hanno ragione i pessimisti o gli ottimisti?

Mah... se si guarda indietro, anche se non c'è mai lo stesso ritmo, si vede che si seguono sempre certi meccanismi. Ci sono giornate in cui il buio rimane di più e alcune in cui è molto ridotto, e c'è l'alternarsi di fattori positivi e fattori negativi che forse derivano dalla natura dell'uomo, che è sempre la stessa. C'è chi è portato a essere più del partito di Caino e chi più del partito di Abele. Normalmente quelli di Caino prevalgono. Però, bisogna stare attenti a non fare insorgere nei giovani una reazione verso di noi che sembriamo sempre volerci presentare come più bravi, più buoni. Probabilmente non è vero. Solo nell'altro mondo si potrà vedere se in media le generazioni erano meglio o peggio. Certamente vi sono stati molti progressi:  l'assistenza sanitaria e la stessa legge sulle pensioni rendono vivibili le condizioni anche di chi è in età considerevole.

Quindi lei non ha la percezione di una crisi economica diversa dalle altre.

Io penso di no. Intanto, guardando a quello che accade fuori, ripeto:  ogni tanto c'è il sole, altre volte no. Poi le medie è difficile farle. Se siamo in tre, io non ho da mangiare e gli altri due hanno più del necessario, interessano poco delle medie... Adesso c'è un sistema di attenzione alla vita degli altri, oltre confine, molto superiore a prima. Prima le notizie da fuori erano poche. Ricordo quando compravo "Il Messaggero", e trovavo le notizie dall'America di un corrispondente che mi ricordo si chiamava Angelo Flavio Guidi. Leggevo delle cose tali che mi sembrava di leggere un libro di fantascienza. Pensavo anche che fosse caricato. Poi c'è stato un certo avvicinamento alla vita degli altri. Le stesse comunicazioni rendono più aperti i confini, una volta se uno non sapeva che si poteva stare meglio non scalpitava, ora se sa che si può stare meglio scalpita e allora chi governa bisogna che ne tenga conto.

Questo vale anche per i Paesi che guardano all'Occidente come a terre di benessere.

Lo so, certo. D'altra parte noi stessi, quando alle volte guardavamo i film americani, vedevamo delle cose che sembravano uscite da un romanzo. Si vedevano cose strane. Mi rimase impresso vedere uomini che stavano in cucina. Era come vedere un uomo nudo... Da un certo punto di vista l'autarchia ci ha fatto bene. Dal punto di vista psicologico. Certo ci si spingeva a vedere i dati positivi per non lamentarsi.

Una certa tendenza all'autarchia in quelle generazioni è ancora ravvisabile.

Beh, in un Paese geograficamente e storicamente molto vario come l'Italia avere l'uguaglianza significherebbe fermare alcuni settori completamente e questo è impossibile. I fascisti psicologicamente erano bravi nel dare la sensazione che noi eravamo i più bravi, che non ci mancava niente. Questo orgoglio diventava il modo comune di ragionare. Dopo venne capito il trucco, ma nel momento era normale, probabilmente a scuola anche il maestro era venuto su con certe idee e in maniera naturale le trasmetteva senza sapere di fare propaganda.

In quale dei suoi molti incarichi ha avvertito maggiormente il peso della responsabilità?

Probabilmente il ministero della Difesa. Avevo un certo disagio iniziale. Io per ragioni fisiche - per insufficienza toracica - non sono stato ammesso al corso allievi ufficiali. Ho fatto il servizio militare in sanità. Rimasi a Roma mentre purtroppo alcuni dei miei compagni andarono in guerra e non tornarono. Allora mi sembrò un po' avvilente:  essere uno scarto di leva era un po' come essere considerato un minorato. Sul momento ci rimasi male. Poi ho ringraziato Dio perché sono rimasto sempre a Roma. Fui fortunato. E anche un po' lavativo:  se guardo il mio servizio militare sono più i giorni di licenza che quelli in servizio effettivo. Ebbi, prima sei mesi, poi dodici mesi di convalescenza. Ma tutto sommato ho capito che è meglio essere un po' curvetto e senza grandi polmoni e essere vivo.

Lei è stato fra l'altro cinque volte ministro degli Esteri.

Lì si impara a capire quanto è importante il rapporto internazionale, che porta ad abituarsi al concetto di non essere al centro dell'universo. Poi la spinta, come cattolico, a cercare più motivi di convergenza e di dialogo che non i motivi di scontro, pur essendoci - è chiaro - concorrenza, a cominciare dal campo commerciale, industriale. Però, le prime volte che si va a una di queste riunioni internazionali, come quando cominciarono i primi contatti europei, per esempio, si allargano molto gli orizzonti. Ricordo però una frase che diceva De Gasperi:  "Studiate le lingue, perché è molto importante. Però prima di tutto, ancora più importante, è sapere quello che uno dice". Mi rimase molto impresso. Allora c'era un modo di parlare, un'oratoria che si definiva "napoletana":  un solo sostantivo, molti aggettivi. Un modo di parlare molto enfatico. Ricordo gli ultimi personaggi di quella scuola:  Giovanni Porzio, De Nicola, che quando parlava era straordinario, poi se uno va a riassumerlo... Però era musicale. Prendiamo il Consiglio dei ministri. Ora si parla come stiamo parlando noi adesso. Allora, ci si alzava in piedi. Porzio, ricordo, si metteva le dita nel taschino ed esordiva:  "Ragguardevoli signori!". Un comizio. Era un'Italia molto superficiale per alcuni aspetti. Però non so se il bilancio sia totalmente positivo, oggi, rispetto ad allora. C'erano determinati valori. Lo stesso De Nicola, per esempio. Era un avvocato, abbastanza facoltoso ma molto spendereccio e molto generoso. Ed era rimasto senza soldi, veramente. Lo dissero a De Gasperi. E De Gasperi disse:  vediamo di fargli dare una consulenza dal Banco di Napoli. E mi mandò a casa di De Nicola a Napoli a offrirgli questa proposta. Mi disse "Ringrazi De Gasperi ma io nella vita non ho mai preso un denaro senza che potessi dare una controprestazione. Siccome per il Banco di Napoli non posso fare niente, mi dispiace, non posso accettare". Fu un esempio di vita importante perché qualche volta si parla di un passato ottocentesco in un certo modo... però c'erano moralmente dei veri capiscuola.

Allora però non c'erano donne. Invece lei guidò il primo Governo con una donna ministro, Tina Anselmi al dicastero del Lavoro.

Questo è un Paese nel quale nella vita quotidiana si chiacchiera molto di rivoluzione, sembra se ne debba fare una al giorno. Poi, per cambiare qualcosa, se non c'è un precedente... Io avevo avuto modo di conoscere la Anselmi, mi sembrava una persona che ragionasse bene - cosa che del resto poi ha fatto - e poi mi sembrò giusto che questa chiusura alle donne fosse superata, una chiusura che altri Paesi non avevano conosciuto o che comunque avevano superata. Certo si metteva anche in evidenza il ruolo positivo della donna nella cura dei figli, ci si chiedeva da chi potesse essere sostituita nel caso lavorassero entrambi i genitori. Insomma, questioni che oggi sembrano preistoria.

Ma se lei dovesse descrivere gli italiani a uno straniero, come li descriverebbe?

È difficile trovare un'espressione riassuntiva, forse lo incoraggerei a non lasciarsi impressionare dai toni molto polemici o da certe frasi o ingiurie.

Come è cambiata in questi anni la politica estera italiana?

È cambiata nel senso che gli strumenti di informazione portano anche quotidianamente a conoscere molte più cose di quante se ne conoscessero una volta. Prima eravamo molto con il piede di casa. A volte facendo il salto molto in alto si rischia di farsi delle illusioni. La Società delle Nazioni, dopo la prima guerra mondiale, era una cosa molta bella, ma era curioso che non ci partecipassero gli Stati Uniti. Poi, noi siamo venuti su deviati dalla polemica, perché quando la Società delle Nazioni decise contro di noi le sanzioni perché avevamo invaso l'Etiopia, gli studenti furono portati a fare le manifestazioni in piazza.

De Gasperi ha fatto molto per alimentare una certa coscienza internazionale.

Sì, perché lui veniva da una scuola importante, aveva fatto la sue esperienze politiche prima a Innsbruck poi a Vienna, una scuola di pluralismo. Il confine non era una paratia, al contrario... L'abitudine a conoscere uno le culture dell'altro, comprese le lingue.

A proposito di paratie, cosa pensa della crisi a Gaza?

Sa, la natura dell'uomo... non è che sia accettabile in assoluto il principio homo homini lupus, però i contrasti veri uno li ha con i vicini... Io credo che nessuno dei due contendenti vuole quello che sta accadendo, però ci vorrà del tempo prima di arrivare a una pacificazione effettiva in quelle zone.

Senatore, fra i temi dell'agenda politica italiana del 2009 c'è quello della giustizia. Una riforma in questo settore quali criteri dovrebbe seguire?

Una riforma è auspicabile perché ci sono stati molti casi limite. È vero che sono di solito proprio quelli che fanno cronaca e di altri magari non si parla, però credo sia necessario un sistema nel quale la giustizia sia più rapida e meno costosa. Anche per un cittadino, delle volte, per poter avere ragione... Loro, i magistrati si arrabbiano se uno dice questo:  la pluralità dei gradi è utile ma questo è l'unico settore nel quale la legge presuppone gli sbagli. Non esiste un altro settore professionale dove c'è una possibilità d'appello. Tuttavia quello di una giustizia rapida e meno costosa è un auspicio che si è sempre fatto. Però è difficile. In teoria si può dire, ma in pratica...

Le è dispiaciuto, dal punto di vista personale e politico, non essere stato finora chiamato alla presidenza della Repubblica?

Mah, visto che faccio questo mestiere... È un po' come uno che fa la vita militare:  insomma, guarda le greche dei generali come un punto di arrivo importante. Quindi, per carità, non è che abbia pensato "no, no, Dio me ne scampi", però, insomma, sono sopravvissuto. Anche perché accanto a quello che può essere il lato positivo del potere, ci sono anche delle responsabilità e dei sacrifici. Per esempio non potersene andare a spasso come uno vuole, senza bisogno di scorte. È una limitazione. Se il capo dello Stato vuole andare a farsi una passeggiata a Villa Borghese, senza corazzieri, come fa a muoversi? Insomma, non è tutto oro quel che brilla al Quirinale.

Che  ricordo  personale  e  politico  ha  di Pio XII?

Ho un ricordo notevole. Anche della sua severità. Quando ero presidente della Fuci, le volte che sono andato in udienza privata, mi sottoponeva a veri e propri interrogatori. Voleva sapere molto come erano gli studenti, se c'era assistenza religiosa sufficiente a quelli richiamati alle armi. Era molto severo. Quando ci fu l'esordio, qui a Roma, del fenomeno dei cosiddetti comunisti cattolici, il Papa fu di una grandissima severità perché era dell'avviso che queste tendenze andassero stroncate subito. Io ebbi anche un piccolo incidente, nel senso che quando avevano arrestato Adriano Ossicini, io avevo paura che il Papa, che doveva parlare a un incontro con l'Opera di assistenza agli operai di monsignor Baldelli, si riferisse criticamente ai cattolici comunisti. In quel momento sarebbe stata una pugnalata. Mi permisi di mandare una lettera al Papa nella quali gli chiesi cortesemente di non parlare di questo tema. E non ne parlò. Però poi qualche giorno dopo, lo incontrai in occasione di un consiglio nazionale. Lui mi guardò con un sguardo estremamente severo e disse:  "Andava bene?". Si vede che gli era costato non parlarne. È stato un grande Papa. Più passa il tempo più uno vede anche la sua santità effettiva. Qualche volta è sembrato che fosse uno qualunque, insomma, poco spirituale. Io ho avuto il vantaggio di conoscere il futuro Papa quando ero ragazzino, perché la sorella di Eugenio Pacelli abitava in via dei Prefetti 22. Avevamo la terrazza comune, io abitavo al 18. E conoscevo la figlia. Quando questo austero monsignore andava a trovarla, e le portava della cioccolata, me ne passava un po' dalla terrazza.

Era già nunzio...

Sì ma noi devo dire eravamo poco interessati. A me interessavano di più i giocatori della Roma che andavano a pranzo all'angolo di via dei Prefetti.

Dopo la guerra invece lei era già al governo, come sottosegretario. Cambiarono i rapporti con Pio XII?

Era molto rigido nei principi. Anche giustamente. Parlavo prima di questo gruppo dei comunisti cattolici. Lui sentiva l'ingiustizia, chiamiamola filosofica, di queste posizioni. Come se lui dovesse prendere dagli altri l'insegnamento sociale. Come se già non ci fosse all'interno della Chiesa. Su questo mostrò di essere un uomo di grandi principi e di grande spiritualità. Più passa il tempo e più si vede che gigante fosse.

Come mai tutte queste polemiche contro Pio XII?

Probabilmente proprio perché prese questo atteggiamento molto fermo nei confronti del comunismo. Ciò gli portò in campo politico una reazione che probabilmente paga ancora. Invece, solo per dirne una, non lasciò un centesimo ai nipoti. Non aveva nulla. Una persona, anche sotto questo aspetto, dalla spiritualità profonda.

E il predecessore come lo ricorda?

Non ricordo molto. Ricordo un inconveniente che mi capitò. Quando ci fu la persecuzione dei circoli cattolici da parte dei fascisti - avevo dodici anni, a cavallo fra il 1931 e il 1932 - non ricordo perché capitai a un'udienza collettiva nella sala del Concistoro. Fui enormemente colpito dal fatto che quest'uomo gridasse e piangesse nello stesso tempo. Io svenni. Mi misero dietro una tenda bianca in una sala vicina. Fu un trauma.

E dei successori cosa ricorda?

Giovanni XXIII lo conobbi in maniera quasi occasionale. Lui era molto amico di monsignor Belvederi, che era zio di mia moglie. Io ero andato a Trento a un congresso della Democrazia cristiana. Facemmo tappa a Venezia, per fare visita al Patriarca. Mi invitò a colazione e mi condusse lui a vedere la Salute perché voleva che il sottosuolo, un vecchio magazzino dei monopoli, fosse dato al seminario, cosa che poi accadde. Mi colpì perché dopo colazione mi disse:  "Ti faccio fare un riposo nel letto di Pio X". Così feci la "pennichella" nel letto del Papa.

Benedetto XVI ha sollecitato la formazione di una nuova generazione di cattolici impegnati in politica. Della generazione precedente cosa salverebbe e cosa no?

Probabilmente, visto dopo, bisogna considerare che c'era un atteggiamento che veniva ancora dalla realtà dello Stato pontificio; era difficile distinguere fra Stato e Chiesa. Ricordo una frase di mia zia che era nata nel 1854:  "Quando c'era il Papa la gente non pagava le tasse per non dare i soldi al Papa. Quando il Papa andò via non pagava le tasse perché non voleva dare i soldi a chi teneva prigioniero il Papa". Diceva sempre questa frase che io ho capito solo dopo cosa significasse. Insomma, c'era ancora questa confusione. Del resto le strade del centro di Roma portano ancora gli editti dell'amministrazione pontificia. Comunque ci sono state figure positive dei cattolici italiani impegnati in politica. Sturzo e De Gasperi non sono i soli.

Come mai si è conclusa l'esperienza dell'unità politica dei cattolici?

Mah, allontanatosi appunto dal 1870, ormai il ricordo dello Stato pontificio è diventato sempre più solo un ricordo storico. Poi c'è stata tutta una tendenza, che fu calcata molto bene da monsignor Montini, di cercare di allontanare tutti i problemi pratici, dello Stato, da quelli invece che erano i problemi dell'educazione, della cultura cattolica.

Quindi si può dire che lei non rimpianga la Democrazia cristiana.

Per un certo periodo, fu indispensabile anche per frenare uno scivolo dell'Italia verso l'estrema sinistra. Però poi per il resto, vista la diversa situazione europea, la situazione mondiale, forse sarebbe stato molto meglio tenere distinte le due cose. Allora forse poteva anche dispiacere come democristiani di non godere di questo obbligo, ma bisogna riconoscere che era giusto.

Insomma, è meglio il pluralismo dei cattolici?

A mio avviso sì. Se non c'è una ragione difensiva che porta ad accantonare per esempio i problemi economici per salvare solo quella che è, chiamiamola così, una paratia culturale, allora è meglio che i cattolici si distribuiscano.

E sui temi etici c'è qualcosa da difendere?

La vita. Se la scienza oggi dice che l'embrione è vita, chi uccide l'embrione fa una cosa gravissima. Ma questi sono argomenti di diritto naturale, comuni anche ai non cattolici. La vita è la vita. Poi se uno ha meritato di andare in Paradiso o no, questo lo vedremo. Il più tardi possibile...

Delle questioni che si dibattono sul cosiddetto fine vita cosa pensa?

Non ho una opinione mia. È molto difficile veramente trovare lo spartiacque tra quello che è giusto e quello che non è giusto. Sono molto prudente, non conosco molto questi temi. Certo, non si ha l'abitudine, come avveniva invece nell'Ottocento, di discutere, anche fra laici, di teologia, in profondità.

C'è un declino culturale?

Se usiamo il termine cultura non si può essere ottimisti. Se si parla di erudizione, di conoscenza, allora siamo molto più avanzati di un tempo. È una cosa un po' diversa.

Nella sua lunga carriera politica ha fatto qualcosa che non rifarebbe?

Certamente non mi considero perfetto. Qualche volta uno è portato più a seguire gli impulsi che non i ragionamenti. Sotto questo aspetto forse le generazioni precedenti alla nostra erano migliori. Noi poi siamo legati al catechismo di Pio X che aveva riassunto in formule brevi, semplici, tutto questo. Comunque, di "caprate" ne ho fatte anche io.

E una cosa che non ha fatto e avrebbe voluto fare?

Vorrei avere studiato meglio le lingue.

(© L'Osservatore Romano 11/01/2009)