Index   Back Top Print


logo

 

«L'Osservatore Romano» verso il 1929

Quando tutte le luci si spengono
e ne rimane accesa una sola


 

Mentre si avvia alla conclusione il convegno di studi celebrativo organizzato dal Governatorato, dal catalogo della mostra 1929-2009 Ottanta anni dello Stato della Città del Vaticano in corso presso il Braccio di Carlo Magno.

Grazie ai Patti lateranensi, il 1929 fu per "L'Osservatore Romano" un anno decisivo. Dopo quasi un settantennio, infatti, il giornale del Papa entrava nel nuovo minuscolo Stato che ristabiliva - in una forma talmente minima da apparire quasi simbolica, ma tuttavia effettiva - il potere temporale pontificio, soppresso con la presa di Roma. La mattina dell'11 febbraio di quell'anno, mentre al Laterano si firmavano gli accordi, Pio XI presentava infatti il trattato ai parroci romani spiegando che esso era inteso "ad assicurare alla Santa Sede una vera e propria e reale sovranità territoriale (non conoscendosi nel mondo, almeno fino ad oggi, altra forma di sovranità vera e propria se non appunto territoriale) e che evidentemente è necessaria e dovuta a Chi, stante il divino mandato e la divina rappresentanza ond'è investito, non può essere suddito di alcuna sovranità terrena".
Davanti ai preti della sua diocesi il Papa si assunse pienamente la responsabilità della conciliazione e affermò che il papato non aspirava a "garanzie delle Potenze a favore del nuovo assetto", non avendo esso "bisogno di assenso né di consenso, né di garanzia"; anche perché - si chiedeva con un crescendo significativo - "garanzie propriamente dette dove potremmo trovarle se non nella coscienza delle giuste ragioni Nostre, se non nella coscienza e nel senso di giustizia del popolo italiano, se non più ancora nella divina Provvidenza"? E, di fronte a critiche che prevedeva potessero giungere da parti tra loro opposte, Pio XI giocava d'anticipo: "Forse alcuni troveranno troppo poco di territorio, di temporale. Possiamo dire, senza entrare in particolari e precisioni intempestive, che è veramente poco, pochissimo, il meno possibile quello che abbiamo chiesto in questo campo e deliberatamente", al fine tra l'altro di "rendere addirittura ingiuste, assolutamente irragionevoli tutte le recriminazioni fatte o da farsi in nome di una, stavamo per dire, superstizione di integrità territoriale del paese".
Il nuovo Stato era cioè formato da "quel tanto di territorio che basti come supporto della sovranità". Per spiegarsi meglio, e richiamandosi con un paragone fortemente simbolico al santo italiano per eccellenza, il Papa aggiunse: "Ci pare insomma di vedere le cose al punto in cui erano in S. Francesco benedetto: quel tanto di corpo che bastava per tenersi unita l'anima", cioè "quel tanto di territorio materiale che è indispensabile per l'esercizio di un potere spirituale affidato ad uomini in beneficio di uomini", nei fatti "ridotto a così minimi termini da potersi e doversi anch'esso considerare spiritualizzato dall'immensa, sublime e veramente divina spiritualità che esso è destinato a sorreggere ed a servire". Inoltre - sottolineava con grande realismo e altrettanto senso pratico Pio XI - "non si riflette forse abbastanza quel che significhi di incommodo e di pericoloso (diciamo al giorno d'oggi) aggiungere al governo universale della Chiesa l'amministrazione civile di una popolazione per quanto minuscola. La piccolezza del territorio Ci premunisce contro ogni incommodo e pericolo di questo genere. Sono sessant'anni ormai che il Vaticano si governa senza particolari preoccupazioni".
Di un decennio più lunga della questione romana era la storia del giornale del Papa. Le sue origini risalivano non per caso all'ultimo periodo del potere temporale del papato, mentre nascevano e si moltiplicavano in tutta Europa i primi giornali in senso moderno. Tra questi, quelli cattolici si contrapponevano in un clima spesso di acceso confronto con organi di stampa violentemente anticlericali. Nella capitale dello Stato pontificio, al "Diario di Roma" (1716-1848) si succedettero, con un carattere ufficiale, la "Gazzetta di Roma" (1848-1849), il "Monitore Romano" (1849) e il "Giornale di Roma" (1849-1870), ai quali si aggiunsero su posizioni reazionarie "Il costituzionale romano" (1848-1849), di proprietà francese, e quindi un periodico, poi divenuto quotidiano, denominato "L'Osservatore Romano" (1849-1852). In questo contesto, ma senza legami con le testate appena ricordate (nemmeno con l'omonima), l'1 luglio 1861 iniziò a essere pubblicato "L'Osservatore Romano".
L'idea era stata di due rifugiati politici provenienti dal territorio delle Legazioni - un avvocato di Forlì, Nicola Zanchini, e un giornalista bolognese, Giuseppe Bastia, trasferitisi a Roma dopo l'annessione al regno d'Italia della maggior parte dello Stato della Chiesa - e poté realizzarsi perché si incrociò con il progetto del Governo pontificio di fondare un giornale politico da affiancare all'ufficiale "Giornale di Roma", ottenendo finanziamenti privati. A interessarsene fu soprattutto il sostituto del ministro dell'Interno, Marcantonio Pacelli, nonno del futuro Pio XII.
Il primo numero del giornale recava programmaticamente sotto la testata la dicitura "Giornale politico-morale", che in seguito fu trasformata definitivamente in quella di "Giornale quotidiano politico-religioso". E a sottolineare il carattere battagliero e non clericale del quotidiano - nato su iniziativa di due laici per la difesa dei diritti della Santa Sede - insieme naturalmente alla sua ispirazione di fede, dal primo numero del 1862 comparvero nella testata le due espressioni che vi figurano ancora oggi: unicuique suum ("a ciascuno il suo", una classica formulazione risalente al diritto romano) e l'evangelico non praevalebunt ("non prevarranno", con allusione alle porte dell'inferno, cioè le potenze del male). I due iniziatori del giornale, finanziato privatamente, ma sostenuto da Pio IX con diverse misure fin dall'inizio, ne furono anche i primi direttori (1861-1866), e a loro successe il marchese Augusto Baviera, molto legato a Pio IX, attivo fin dagli esordi del quotidiano e che già nel 1863 era entrato nella comproprietà del giornale, di cui divenne unico proprietario nel 1865 e che diresse per quasi un ventennio, dagli inizi del 1866 fino al 1884. Direttore in senso moderno, Baviera seppe imprimere al giornale un carattere proprio, in certa misura anche autonomo rispetto alle direttive del Governo pontificio; anzi, per questo più di una volta la direzione del giornale fu richiamata e sanzionata, anche severamente.
Subito dopo la presa di Roma (20 settembre 1870), sparì definitivamente l'ufficiale "Giornale di Roma", mentre "L'Osservatore Romano" era costretto a sospendere le pubblicazioni, riprese tuttavia già il 17 ottobre successivo con l'assorbimento delle funzioni del "Giornale di Roma" e con il conseguente ovvio spostamento su posizioni più ufficiali. La tendenza fu accentuata in seguito alle vicende degli ultimi anni della direzione di Baviera: questi cedette infatti la proprietà del giornale alla Societé générale des publications internationales di Parigi, un gruppo di tendenza cattolica intransigente che possedeva alcune testate in diverse capitali europee e che a Roma nel 1881 aveva fondato il "Journal de Rome". Il nuovo giornale fu inizialmente sostenuto da Leone XIII e per qualche tempo venne diretto da Baviera (che continuò a dirigere anche "L'Osservatore Romano"), spostandosi poi addirittura su posizioni critiche nei confronti della linea moderata del Papa. Nel 1884 "L'Osservatore Romano" fu acquistato dal marchese Cesare Crispolti che ne divenne direttore, finché dopo la cessazione del "Journal de Rome" nel 1885, Leone XIII acquistò definitivamente per la Santa Sede la proprietà de "L'Osservatore Romano", che tuttavia nemmeno allora assunse formalmente il carattere di giornale ufficiale.
Nell'ultimo quindicennio dell'Ottocento il giornale aumentò la diffusione e si accrebbe il suo prestigio. Alla direzione di Crispolti (1884-1890) seguirono quelle di Giovanni Battista Casoni (1890-1900), avvocato e giornalista bolognese nominato da Leone XIII con l'intenzione di un controllo diretto del giornale, e di Giuseppe Angelini (1900-1920), altro giornalista che vide accentuarsi l'interesse diretto dei Papi - in particolare di Benedetto XV - per il loro giornale. Sotto la direzione di Angelini "L'Osservatore Romano", negli ultimi anni del pontificato di Pio X, ampliò i suoi interessi, comprendendo per alcuni periodi anche racconti d'appendice e dal 1909 una rubrica dedicata ad arte, sport e teatri, con la quarta pagina per vari anni quasi interamente riservata alla pubblicità, e dal 1911 passò dalle quattro pagine degli inizi a sei.
La linea del giornale seguiva naturalmente quella della Santa Sede, con un'attenzione particolare per la questione romana e le vicende italiane, mentre per quanto riguarda le notizie internazionali vanno sottolineate la freddezza con cui fin dall'inizio viene commentata l'impresa coloniale italiana che portò all'occupazione della Libia e soprattutto la scelta di imparzialità durante la prima guerra mondiale. Questa scelta fu sostenuta con una settantina d'articoli dello stesso cardinale segretario di Stato Pietro Gasparri e moltissimi altri da lui ispirati e realizzata attraverso dispacci d'agenzia pubblicati secondo un "programma di stretta imparzialità" e "a semplice titolo d'informazione per i suoi lettori e senza assumere menomamente la responsabilità delle notizie in essi contenute o farle in alcun modo proprie". Nel 1920 fu chiamato alla direzione del giornale il conte Giuseppe Dalla Torre, giornalista ed esponente di primo piano delle organizzazioni cattoliche, che vi sarebbe rimasto per un intero quarantennio coadiuvato da redattori e collaboratori di rilievo.
Il 4 novembre 1929, pochi mesi dopo la costituzione dello Stato della Città del Vaticano in seguito al trattato del Laterano, "L'Osservatore Romano" si trasferì all'interno dei confini della nuova piccolissima entità statale, e questo significò immediatamente per il giornale un'ulteriore crescita del suo prestigio e della sua diffusione, favorita anche dal parallelo restringersi degli spazi di libertà nell'Italia fascista. Dalla fondazione, nel 1861, il quotidiano aveva avuto a Roma ben dodici sedi successive, prima nel cuore della città e poi, dal 1919, più vicino al Vaticano, nel nuovo quartiere Prati: piazza dei Santi XII Apostoli 62 (1 luglio 1861 -29 marzo 1862); piazza dei Crociferi 48 (nel palazzo Petri, dal 31 marzo 1862 al 20 marzo 1871); via del Nazareno 14 (nel palazzo del Bufalo, dal 21 marzo 1871 al 21 dicembre 1873); piazza San Claudio 94 (in uno stabile ora non più esistente, dal 23 dicembre 1873 al 6 giugno 1877); via del Nazareno 14 (per la seconda volta nel palazzo del Bufalo, dal 7 giugno 1877 al 14 agosto 1887); via de' Burrò 145 (15 agosto 1887 - 30 marzo 1895); vicolo Sciarra 64 A (1 aprile 1895 - 19 febbraio 1903); via del Gesù 89 (20 febbraio 1903 - 20 marzo 1906); piazza del Gesù 47 (21 marzo 1906 - 1 gennaio 1909); piazza Mignanelli 22 (2 gennaio 1909 - 1 novembre 1919); via Ennio Quirino Visconti 22 (3 novembre 1919 - 18 luglio 1925); via Germanico 146 (20 luglio 1925 - 3 marzo 1928); via Silla 35 (4 marzo 1928 - 3 novembre 1929).
L'entrata in Vaticano del giornale papale rappresenta emblematicamente la crescente rilevanza dell'informazione per la Santa Sede durante il pontificato di Pio XI, in un'epoca nella quale si diffonde largamente la coscienza dell'importanza della stampa, di cui i regimi totalitari colgono perfettamente le possibilità come strumento potente per la propaganda: parlando il 10 ottobre 1928 a un gruppo di direttori di giornali, Mussolini afferma esplicitamente che la stampa è un elemento del regime fascista e una forza al suo servizio. E nel contesto italiano, dove ovviamente "L'Osservatore Romano" ha il suo ambito principale di diffusione, durante gli anni Trenta il giornale vaticano - scriverà in un libro di memorie pubblicato nel 1947 François Charles-Roux, ambasciatore di Francia presso la Santa Sede - era l'unico in lingua italiana che non obbediva alle disposizioni governative e del partito fascista perché, stampato nella Città del Vaticano, non rispondeva che alla Santa Sede: "La sua indipendenza nei confronti del governo aveva fatto crescere la sua tiratura a un numero di copie ben diverso dal solito. A Roma il giornale si esauriva nelle edicole appena veniva distribuito. In provincia, le copie non bastavano a coprire le richieste. I giornali fascisti furono gelosi del suo successo. Il governo e il partito s'inquietarono per la sua diffusione. Ben presto si ebbero incidenti: compratori malmenati, pacchi interi di giornali sequestrati e bruciati".
Insieme alle difficoltà gli anni Trenta significarono comunque - per l'informazione vaticana in generale e per "L'Osservatore Romano" in particolare - un periodo di crescita che costituì la base per quella, impetuosa, durante la seconda guerra mondiale e poi nel corso del dopoguerra e della guerra fredda sotto il pontificato di Pio XII negli anni Quaranta e Cinquanta. La stagione postbellica costituì a sua volta la maturazione indispensabile che permise la grande espansione della seconda metà del Novecento. Proprio alle soglie di questa si colloca una riflessione importante e di valore permanente pubblicata nel numero speciale del primo luglio 1961 per il centenario del giornale. Così alla testimonianza di Charles-Roux va aggiunta quella di Giovanni Battista Montini, allora cardinale arcivescovo di Milano ma che due anni più tardi sarebbe stato eletto papa e avrebbe preso il nome di Paolo VI. Figlio di un giornalista, sensibilissimo ai problemi dell'informazione, come sostituto della Segreteria di Stato aveva esercitato dal 1937 al 1954 l'alta direzione su "L'Osservatore Romano", e per l'occasione centenaria scelse di scrivere delle sue difficoltà: "Ne feci io stesso l'esperimento nel triste e drammatico periodo dell'ultima guerra, quando la stampa italiana era imbavagliata da una spietata censura e imbevuta di materiale artefatto. "L'Osservatore" ebbe allora una funzione meravigliosa, non già perché si fosse arrogato compiti nuovi e profittatori, ma perché continuò impavido il suo ufficio d'informatore onesto e libero. Avvenne come quando in una sala si spengono tutte le luci, e ne rimane accesa una sola: tutti gli sguardi si dirigono verso quella rimasta accesa; e per fortuna questa era la luce vaticana, la luce tranquilla e fiammante, alimentata da quella apostolica di Pietro.
"L'Osservatore" apparve allora quello che, in sostanza, è sempre: un faro orientatore". Che dal Vaticano, nella fedeltà al servizio del Papa e grazie alla sua indipendenza, guarda con amicizia al mondo.

g.m.v.

(© L'Osservatore Romano 14/02/2009)