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Benedetto XVI incontra la comunità ebraica di Roma

Una visita storica
(ma anche normale)


 

Anticipiamo l'articolo che il nostro direttore ha scritto per il numero in uscita della rivista bimestrale dell'Università Cattolica del Sacro Cuore "Vita e Pensiero". Una sintesi del testo è stata pubblicata nel numero di gennaio di "Pagine ebraiche", il mensile dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.

La visita di Benedetto XVI agli ebrei di Roma è un gesto importante perché conferma ancora una volta l'apertura e l'amicizia della Chiesa cattolica per il popolo ebraico. Che Papa Ratzinger torna ad abbracciare idealmente visitando i luoghi più significativi - l'antico ghetto e la grande sinagoga - della più antica comunità della diaspora occidentale. Un insediamento di molto precedente l'arrivo nella città imperiale dei primi seguaci di Gesù, i quali vi giunsero negli anni quaranta del primo secolo.
Iniziava così - circa un quindicennio prima che Paolo descrivesse nella lettera ai cristiani di Roma il rapporto misterioso tra i due popoli - una storia di contiguità e vicinanza ma anche di concorrenza e contrasti, segnata da litigi e amicizie, curiosità e sofferenze, attrazioni reciproche e reciproche ignoranze. Come sembra attestare già Svetonio a proposito dell'espulsione dei giudei dalla città a causa di disordini originati appunto dall'annuncio di Cristo (impulsore Chresto). E come del resto avviene normalmente tra chi appartiene alla stessa famiglia, e persino tra fratelli, quali sono ebrei e cristiani; lo vogliano riconoscere oppure no.
Nonostante atteggiamenti ruvidi da entrambe le parti, nonostante l'antigiudaismo cristiano, peraltro radicalmente diverso dall'antisemitismo pagano del mondo antico e da quello dell'età moderna e contemporanea, sfociato nella tragedia della Shoah. Alla quale la Chiesa cattolica di Pio xii oppose, come poté, la silenziosa - e talvolta eroica - resistenza della carità, salvatrice di moltissime vite umane. E alle vittime della tremenda persecuzione Benedetto XVI renderà omaggio nel ghetto di Roma, come già più volte inequivocabilmente ha fatto, in particolare ad Auschwitz e più volte in Israele.
Pochi sono i cattolici del Novecento che hanno fatto tanto quanto Joseph Ratzinger - come teologo, come vescovo, come responsabile dell'organismo custode della dottrina cattolica e ora come Papa - per avvicinare ebrei e cristiani. A ricordarlo è stato, quasi con indignazione, lo stesso Benedetto XVI nella sua lettera ai vescovi cattolici dopo la revoca della scomunica a quelli lefebvriani, ritortagli contro da interessate strumentalizzazioni:  "Un invito alla riconciliazione con un gruppo ecclesiale implicato in un processo di separazione si trasformò così nel suo contrario:  un apparente ritorno indietro rispetto a tutti i passi di riconciliazione tra cristiani ed ebrei fatti a partire dal Concilio - passi la cui condivisione e promozione fin dall'inizio era stato un obiettivo del mio personale lavoro teologico".
Le radici di questa scelta di Ratzinger affondano negli anni della guerra, nella sua avversione all'ideologia pagana del nazionalsocialismo e nella formazione giovanile. Significativi sono in proposito i ricordi - nel profilo autobiografico pubblicato nel 1997 e relativo al periodo precedente l'episcopato - del tempo trascorso nel seminario di Frisinga subito dopo il conflitto:  "Nessuno dubitava che la Chiesa fosse il luogo delle nostre speranze. Malgrado le molte debolezze umane, essa era stata il polo di opposizione all'ideologia distruttiva della dittatura nazista; essa era rimasta in piedi nell'Inferno, che pure aveva ingoiato i potenti, grazie alla sua forza, proveniente dall'eternità. Noi avevamo la prova:  le porte degli inferi non prevarranno su di essa. Sapevamo, per esperienza diretta, che cosa erano "le porte degli inferi" - e potevamo anche vedere con i nostri occhi che la casa costruita sulla roccia si era mantenuta salda".
Nella comprensione dell'ebraismo, importante per il giovane seminarista fu soprattutto, a Monaco, l'insegnamento del biblista Friedrich Stummer, come sottolinea Ratzinger in un passo che per il suo interesse, non soltanto storico, conviene citare per esteso:  "In questo modo l'Antico Testamento è divenuto importante per me e ho capito sempre di più che il Nuovo Testamento - sottolinea - non è il libro di un'altra religione, che si è appropriata delle Sacre Scritture degli Ebrei, quasi si trattasse di una sorta di preliminare tutto sommato secondario. Il Nuovo Testamento non è altro che un'interpretazione a partire dalla storia di Gesù di "legge, profeti e scritti", che al tempo di Gesù non erano ancora giunti alla loro forma matura di canone definitivo, ma erano ancora aperti e si presentavano quindi ai discepoli come testimonianza a favore di Gesù stesso, come Sacre Scritture che rivelavano il suo mistero".
E continua:  "Ho capito sempre di più che il giudaismo (che in senso stretto comincia con la conclusione del processo di formazione del canone scritturistico e, dunque, nel primo secolo dopo Cristo) e la fede cristiana, così come è descritta nel Nuovo Testamento, sono due modi di far proprie le Sacre Scritture di Israele, che in definitiva dipendono dalla posizione assunta nei confronti della figura di Gesù di Nazaret. La Scrittura, che noi oggi chiamiamo Antico Testamento, è di per sé aperta ad ambedue le strade. Solo dopo la seconda guerra mondiale - riconosce Ratzinger - abbiamo comunque cominciato davvero a capire che anche l'interpretazione ebraica possiede una sua specifica missione teologica nel tempo "dopo Cristo"".
Questa convinzione storica e teologica è stata poi approfondita nel corso dei decenni e ha portato il cardinale Ratzinger all'introduzione che nel 2001 ha voluto premettere all'innovativo testo della Pontificia commissione biblica su Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana e alla stesura, iniziata nel 2003 e ormai in via di completamento, del Gesù di Nazaret, dove i riferimenti all'ebraismo sono continui e fondamentali. Nella breve introduzione al documento il porporato tedesco (allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e della stessa commissione), dopo averne ripreso l'affermazione che "senza l'Antico Testamento, il Nuovo Testamento sarebbe un libro indecifrabile, una pianta privata delle sue radici e destinata a seccarsi" (n. 84), sottolineava che "l'ermeneutica cristiana dell'Antico Testamento, che senza dubbio è profondamente diversa da quella del giudaismo, "corrisponde tuttavia ad una potenzialità di senso effettivamente presente nei testi" (n. 64). È questo un risultato, che mi sembra essere di grande importanza - aggiungeva Ratzinger - per la continuazione del dialogo, ma soprattutto anche per i fondamenti della fede cristiana".
Chiamato alla successione di Giovanni Paolo ii, esattamente un mese dopo la sua elezione Benedetto XVI ha dichiarato di considerare provvidenziale il fatto che sulla sede romana a un pontefice polacco sia succeduto un tedesco, quasi a chiudere simbolicamente gli orrori della seconda guerra mondiale. Nella continuità della ricerca di riconciliazione e amicizia con i "fratelli del popolo ebraico, cui siamo legati - ha detto durante la messa inaugurale del pontificato - da un grande patrimonio spirituale comune, che affonda le sue radici nelle irrevocabili promesse di Dio". Un cammino che è cominciato nella Galilea e nella Giudea al tempo del dominio romano e ha attraversato quasi venti secoli. Facendosi più largo e piano nella seconda metà del Novecento. Grazie a molti uomini e donne di buona volontà, tra i quali spiccano senza dubbio i successori del pescatore galileo. È su questo sfondo che va letta la visita di Papa Ratzinger alla comunità ebraica di Roma. Che arriva dopo numerosi incontri con esponenti dell'ebraismo mondiale, e in particolare dopo le visite alle sinagoghe di Colonia e di New York e il viaggio in Israele durante il pellegrinaggio in Terra Santa. E che è dunque una visita storica, ma anche normale.

g.m.v.

 (© L'Osservatore Romano 17/01/2010)