Intervista al regista di «In the Valley of Elah»

Partirono credendosi Davide
Tornarono sentendosi Golia

Luca Pellegrini


Sventola nel cielo torbido del Tennesee la "Old Glory" americana a stelle e strisce:  sgualcita e sporca, la bandiera proviene dall'Iraq. Però, è stata issata al contrario. È il segno forte e originale con il quale una nazione intera chiede aiuto sentendosi isolata e sola. Questa nazione sono gli Stati Uniti d'America e con questa immagine dolente e disperata finisce la storia, ispirata a fatti realmente accaduti, di In the Valley of Elah del regista americano Paul Haggis. La valle è quella in cui Davide, con solo cinque pietre e una fionda, sconfisse Golia. Ispira compassione, questa nuova e toccante riflessione cinematografica sull'America in guerra e, diversamente dal violento e provocatorio film di Brian De Palma, Redacted, non ancora uscito sugli schermi, questo di Haggis è una splendida e avvincente meditazione sugli effetti disastrosi della guerra nell'intimo dei cuori e delle famiglie. Uno straordinario Tommy Lee Jones è il padre, ex-ufficiale e giustamente patriota, che ha perso il figlio, scomparso al suo rientro nella base in New Mexico, dopo aver svolto pericolose missioni nei deserti iracheni. Nel corso delle sue personali indagini, si verranno a scoprire molte verità. Non solo quelle relative a un raccapricciante e gratuito delitto. In modo altrettanto doloroso, il padre potrà fare esperienza di come la guerra tramuti cuori di carne in cuori di pietra, e dia spazio al male e all'intolleranza, facendo della violenza e della depravazione l'anestetico col quale soldati giovani e zeppi di confusi ideali vengono travolti da esperienze indicibili.
Questo di Haggis è un film da non dimenticare:  condanna la guerra senza mai farne vedere direttamente gli orrori. I silenzi, del film e del mondo, sembrano racchiudere un grido angosciato e un pianto disperato che ormai non riusciamo a contenere più.
Paul Haggis medita sulla società in cui vive traducendo in sceneggiature ed immagini le sue riflessioni. Non sono ovattate da alcun prudente pudore, sia politico che sociale. Nessuna finzione:  per lui, una guerra è una guerra, un atto di violenza è sempre da condannare. Tutto questo riguarda il suo Paese, gli Stati Uniti, di cui si dice cittadino orgoglioso. Ma il patriottismo va misurato sul grado di umanità e di umiltà col quale si vivono prima di tutto i rapporti umani in casa propria e poi in quella degli altri. Gli Usa, dunque - che hanno sviluppato tecnologie e benessere di cui ha beneficato tutta l'umanità, che hanno portato l'uomo sulla luna e lo hanno fatto viaggiare nello spazio, che hanno incarnato l'immagine del benessere, delle opportunità e della democrazia nel mondo, che sono stati il sogno per intere generazioni - sono anche il Paese in cui una violenza endemica affiora a vari livelli:  nei ghetti, nelle scuole, nelle famiglie, nelle città multietniche e multiculturali, nelle relazioni interpersonali.

Le domando:  come mai non si cerca di creare ed elaborare forme di confronto e di dialogo che siano capaci di evitare i conflitti, anziché scatenarli?

Purtroppo è una domanda che non andrebbe nemmeno fatta. È molto più facile sfruttare gli istinti più bassi degli uomini, vale a dire violenza e vendetta. Noi siamo troppo veloci e superficiali nel credere a ciò che ci viene detto e propagandato e troppo lenti nel metterlo in discussione. C'è poi la responsabilità dei mass media, di proprietà di grandi società il più delle volte colluse con il potere politico, che non forniscono più informazione libera. Alla fine spetta a noi, agli artisti e agli intellettuali, sollevare ed affrontare tali questioni.

Solo la bellezza può salvare il mondo:  citazione più che famosa, cara a Giovanni Paolo II. Lei pensa che, nel nostro mondo, ci sia spazio per una bellezza che non sia soltanto merce, moda, effimero?

Il mondo è pieno di bellezza. La vedi a Roma, a Los Angeles, a New York, in Cile e in India, dovunque. Abbiamo un dovere nei confronti dei poveri e dei disperati della terra, perché la bellezza può fare molto anche per loro. È nostro dovere di artisti portare la bellezza a più persone possibile. Dobbiamo lottare contro coloro che la sfruttano come merce. Vale anche per la democrazia:  politicamente, non c'è nulla di più bello della democrazia. Ma, come ogni bellezza, non deve mai essere corrotta, sfruttata e ridotta a merce di scambio.

Le opportunità del sogno americano hanno alimentato gli ideali di molti giovani. Si può dire esista ancora, dopo l'11 settembre e dopo la guerra in Iraq, questo mito o è ormai definitivamente tramontato?

Io amo il mio Paese e sono un patriota nel senso genuino e vero del termine, ma oggi non lo riconosco più. C'è stato un declino nei valori e nella morale. C'è una grandissima ipocrisia che serpeggia a tutti i livelli e credo che questa sia la cosa più sconvolgente nella nostra società. Ma credo che ci sia ancora posto per la speranza e per il sogno americano.

Dopo aver girato Crash - Contatto fisico e In the Valley of Elah, crede che il suo cinema abbia la possibilità di innescare un dibattito positivo all'interno della società americana, capace di promuovere, al di là delle differenze di orientamento politico, un vero cambiamento?

Sicuramente non penso che un film possa cambiare le cose o evitare una guerra, sarebbe ingenuo da parte mia. Sono convinto, invece, che un film possa spingere le persone a mettersi in discussione e a riflettere su questi temi, come ha sempre fatto l'arte, che ha saputo stimolare l'opinione pubblica e le coscienze. Allora penso che sia mio dovere, come artista, pormi queste domande e chiedere al pubblico, se avrà avuto la voglia di ascoltarmi, di innescare un cambiamento, che spetta soltanto a lui.

Come è nata in lei l'immagine biblica della Valle di Elah che dà il titolo al suo ultimo film? E chi sono per lei oggi il Golia e il Davide che si fronteggiano?

Da piccolo mi narravano la storia di Davide e di Golia quando volevano insegnarmi il concetto di eroismo e di innocenza e oggi facciamo lo stesso con i nostri figli. C'è, dunque, una battaglia che versa in una situazione di stallo:  da quaranta giorni il gigante Golia non trova un avversario degno di lui, gli eserciti sono immobilizzati. Alla fine questo ragazzino senza alcuna esperienza si leva e dice al re:  ci vado io, a combattere. È così piccolo che nemmeno può indossare un'armatura. È solo e deve aspettare che il gigante gli si avvicini per poter scagliare le sue pietre.
Mi sono immedesimato in Davide e confesso che sarei scappato prima:  ci vuole davvero tanto coraggio per fronteggiare Golia con una pietra.
Ripensando a questa storia della Bibbia, ho fatto due riflessioni che mi hanno spinto e convinto a scrivere la sceneggiatura del film:  innanzitutto, che tipo di re è quello che manda un ragazzo così giovane a combattere contro un gigante? Aveva forse troppa paura di assumersi le sue responsabilità, di combattere lui in prima linea. E ho capito come molti "re" anche oggi si assumono la pesante responsabilità di mandare giovani uomini e donne a combattere in una guerra per la quale non sono emotivamente preparati, incapaci e immaturi per affrontare le brutalità di una guerra. E poi, cosa succede davvero dentro di loro? Partono pensando di essere Davide, piccoli eroi che vanno a combattere un nemico enorme, ma quando arrivano nella loro valle di Elah si rendono conto, al contrario, che sono loro i Golia, perché loro hanno le armi più potenti. Quando rientrano a casa, cosa è successo al loro cuore? Sono partiti come bravi ragazzi, pensando di essere eroi:  tornano sconvolti per ciò che hanno visto, per le atrocità che hanno vissuto e sono distrutti dal punto di vista emotivo e psichico. Tra i veterani c'è un altissimo tasso di suicidi, di senza tetto, di insicuri. Un marine mi ha detto che la prima vittima di tutte le guerre è l'umanità. La guerra la distrugge.

Nelle sue appassionate riflessioni sulla musica, recentemente pubblicate con il titolo emblematico "La musica sveglia il tempo", il direttore d'orchestra Daniel Barenboim scrive:  "Sostengo che la musica ci dia uno strumento prezioso, grazie al quale possiamo imparare qualcosa di noi, della società, della politica - in poche parole, qualcosa che riguarda l'essere umano". Secondo lei si può applicare anche al cinema questa affermazione? I suoi film che cosa in particolare fanno conoscere dell'essere umano?

Io provo sempre nei miei film a parlare dell'essere umano. La cosa che più mi piace è porre agli spettatori domande sul chi siamo veramente, perché per molto tempo abbiamo avuto sistemi politici e di potere che hanno diviso gli uomini in buoni e cattivi e hanno usato questa suddivisione manichea per controllarci. È successo in tutte le epoche, succede ancora oggi. La verità è che noi siamo buoni e cattivi insieme. Non esiste il cattivo assoluto, nei miei film non lo troverà mai. Esiste il cattivo che si converte e il buono che cede al male. Succede anche a coloro che detengono il potere e che facilmente dimenticano tutta la predicazione di Cristo nel Nuovo Testamento. Meglio, ne ricordano e usano soltanto alcune parti, le Beatitudini sono per lo più trascurate. È terribile usare la Bibbia, la Parola di Dio, in modo così cinico, come spesso succede.

Il personaggio del poliziotto razzista in una Los Angeles collerica, intollerante, malvagia, umanamente alla deriva, impersonato da Matt Dillon in Crash, ha molto colpito e fatto molto discutere per la sua complessità:  il suo probabile ravvedimento, la sua scelta che impone alla sua vita un inaspettato cambio di rotta, secondo lei è frutto della coscienza che porta ad una vera catarsi o soltanto una specie di reazione pavloviana? Insomma:  la bontà scaturisce da un lavoro condotto nel proprio intimo o, invece, dalla più totale casualità?

Sono fermamente convinto della bontà dell'essere umano. Il personaggio del poliziotto in Crash è esemplare:  lui, bianco e razzista, si trova dinanzi alla donna di colore che aveva precedentemente umiliato e offeso ed ora gli sta chiedendo aiuto perché senza di lui brucerebbe viva a seguito di un incidente d'auto. Io credo profondamente, come ho detto, che un cattivo non lo sia totalmente:  in fondo al suo cuore c'è della bontà. È chiaro che un'esperienza del genere lo mette in discussione. In normali circostanze della vita, abbiamo una miriade di ragioni che ci portano a comportamenti diversi. Ma quando il tuo "non fare" può comportare la morte di un altro essere umano, io penso che questo ti faccia cambiare, faccia emergere il buono che c'è in te. Il poliziotto del film detiene il potere e l'autorità:  prima li usava per umiliare, offendere, controllare le persone, poi capisce che, al contrario, li deve utilizzare con umiltà anziché con arroganza, per il bene del prossimo. Questo vale per tutti i poteri del mondo, grandi e piccoli che siano. Dobbiamo avere compassione.



(©L'Osservatore Romano 19 dicembre 2007)
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