Intervista al regista cinematografico Carlo Lizzani

L'impegno può essere una gabbia

Luca Pellegrini

Non solo prolifico regista, ma autore di memorie che ripercorrono un intero secolo e un'intera vita. Alla vigilia dell'uscita nelle sale italiane del suo ultimo lavoro cinematografico, Hotel Meina, Carlo Lizzani racconta in un libro l'impegno etico, laico, messo alla prova ogni giorno, di cui va fiero. Fatti, persone, artisti,  ambienti,  drammi, curiosità si ritrovano ne Il mio lungo viaggio nel secolo breve (Torino, Einaudi, 2007, pagine 334, euro 17,5), un percorso fatto di soddisfazioni e delusioni, tutto addensato attorno alle vicende del cinema italiano.
In generale il cinema è testimone autorevole in tutti i paesi, perché riesce indirettamente a dare l'idea di ciò che avviene nel campo della cultura e della politica. In Italia lo è stato a cominciare già dai tempi del film muto perché ci si poteva forse già leggere la retorica del cinema di regime, una certa idea di Roma, molto spettacolare, della vita e della cultura. Poi, durante il fascismo, il cinema è stato utilizzato come strumento di propaganda, filtrando l'ideologia di fondo della dittatura. Ancor più è stato testimone dell'Italia, in maniera molto accesa, nella stagione del dopoguerra con l'esplosione del neorealismo, una corrente cinematografica che si è voluta infiltrare nella vita quotidiana diventandone lo specchio. Infine, ecco apparire la stagione della commedia italiana. Diciamo che attraverso il cinema italiano si legge con una certa chiarezza la storia dell'Italia del secolo scorso.

All'indomani della fine della guerra, la riconquistata libertà politica, civile e artistica porta vigore al cinema creando un biennio assolutamente straordinario, il 1947-48, con le produzioni di Riso amaro, Germania anno zero, La terra trema, Ladri di biciclette. Una stagione irripetibile di autori, nata subito dopo una stagione di tragedie e sangue.

Certi movimenti tellurici della storia come le tragedie sociali, le guerre, le migrazioni, non possono non suscitare nell'arte e nella cultura in genere tempeste altrettanto grandi che sono, se è vera arte e vera cultura, in sé assai positive. È assai più raro, però, che alle intenzioni si accompagni anche ad un rinnovamento di linguaggio. In Italia è successo proprio così. Il movimento neorealista ebbe un'eco universale e divenne anche una grande rivoluzione formale e, nel cinema, un vero rinnovamento stilistico, creando una fioritura artistica eccezionale. Nella mia attività di storico del cinema ho cercato di mettere in evidenza quei punti che denotano, caratterizzano questo cambiamento del linguaggio. A mio avviso sono tre. Il primo, la confusione dei generi:  anche se le poetiche degli autori sono differenti, un film neorealista deve essere al di fuori dei generi. Il caso tipico è quello di Roma città aperta:  che cos'è effettivamente, un film di guerra, una tragicommedia? Il secondo riguarda gli aspetti corali e il rapporto tra individuo e coro, che sono fondamentali e si ritrovano in tutti gli autori neorealisti, da Visconti a De Santis, da Rossellini a Castellani, da Lattuada a Germi, fino all'ultima propaggine del neorealismo. Anche il mio cinema è caratterizzato fortemente da questo aspetto. Un terzo elemento è l'esterno:  per il cinema è stato come liberarsi da quella forma di claustrofobia che si era sofferta durante il fascismo e si soffre in qualsiasi tipo di dittatura. Gli esterni del cinema neorealista non erano pittoreschi, ma caratterizzati da questa linearità che si perde verso l'orizzonte; inquietanti, ma capaci di dare un senso di libertà, mai rassicuranti e paternalistici. C'è come un'impronta precisa, come le strade della periferia di Rossellini che non sai dove portano e finiscono, la distesa della pianura padana oppure la terra di Sicilia nella Terra trema di Visconti. Questo spiega perché il neorealismo, quando irruppe sulla scena cinematografica internazionale, ebbe un apprezzamento incondizionato.

Un rapporto di formazione è quello che lei instaurò con Blasetti e di cui ricorda alcuni brevi incontri fondamentali in una stagione difficile e tragica della vita del nostro paese. Poi ecco l'incontro con Rossellini che lei confessa essere stato, prima di tutto, un'esperienza di vita. Perché?

In Rossellini conviveva l'amore per il cinema e la professione con tutti gli aspetti della vita quotidiana e con la densità dei rapporti che lui viveva. Ricordo la sua sincerità assoluta:  lui, che è stato spesso accusato di essere un machiavellico, aveva il coraggio di affrontare anche i casi più difficili con chiarezza assoluta, con coraggio, con integrità. Fu per questo un mio maestro di vita. Anche se con lui l'esperienza professionale è stata relativamente breve rispetto alle altre, iniziata durante le riprese di Germania anno zero, che per me divenne un'avventura straordinaria e indimenticabile. I produttori avrebbero voluto che Rossellini girasse una specie di Roma città aperta a Berlino, con i suoi martiri, invece lui seguì coraggiosamente il suo istinto artistico che lo portò a fare un film di una durezza estrema, scarno, tragico, antipopolare. Dal punto di vista commerciale fece, anziché una montagna di soldi, una montagna di debiti. Ma ne uscì un capolavoro della storia del cinema.

Una vita non a servizio del cinema, ma il cinema a servizio di una vita. Nasce da qui il suo rigore etico?

Nasce da questo e da come io considero la mia vita in rapporto al cinema. Nasce anche dalla mia curiosità, dal desiderio di conoscere il mondo e il mio paese, di viaggiare. Il cinema mi si è presentato come uno strumento straordinario di conoscenza. Anche perché non ho mai nascosto la mia passione per il documentario, allora considerato un genere minore, che mi ha portato in Cina negli anni Cinquanta, poi ancora in Asia e Vietnam nel 1971 e 1973, poi in Angola e in America, per un'occasione molto particolare.

Quale?

Si trattava di girare uno dei cinque episodi, assieme a Pasolini, Bertolucci, Bellocchio e Godard, di un film che avrebbe dovuto chiamarsi Vangelo Settanta - e poi prese il titolo di Amore e rabbia - che voleva reinterpretare alcune parabole e narrazioni del Vangelo. Io scelsi la parabola del buon samaritano per trattare il tema dell'indifferenza. Il film si fondava su un fatto realmente accaduto:  un incidente su uno dei grandi ponti di New York e per due ore nessuno che si fosse fermato a soccorrere una donna gravemente ferita. Prendendo spunto da questo episodio sconcertante che fece scandalo, immaginai che nel gran caos della metropoli distratta soltanto un poveraccio, un piccolo rapinatore inseguito dalla polizia, si fermasse per portare aiuto. Ma, in questo modo, perdeva tempo e veniva catturato. Il film fu accolto bene anche dalla critica cattolica.

È un segno il fatto che il suo primo ruolo da attore, ne Il sole sorge ancora girato da Aldo Vergano nel 1946, sia stato quello di un giovane e coraggioso sacerdote fucilato dai tedeschi?

Era finita la guerra soltanto da un anno ed era ben presente nella memoria di tutti come le figure dei sacerdoti, dei parroci, nelle campagne, ma anche nelle borgate agricole delle città, erano state davvero un cardine della comunicazione personale porta a porta, voce a voce. Un fatto sentito da tutti come popolare, anche da coloro che gravitavano in aree politiche e culturali laiche e marxiste. Basti pensare alla figura dominante del sacerdote in Roma città aperta. Si sapeva come la grande maggioranza del clero si era spesa coraggiosamente per la protezione degli ebrei, dei perseguitati politici. Io non miravo a fare la professione di attore, ma quando mi venne offerta la parte l'accettai con entusiasmo proprio per ciò che rappresentava quel sacerdote nei miei ricordi della guerra. Fui scelto anche perché la mia immagine dava il senso ascetico, come fu scelto Gillo Pontecorvo, con la sua simpatia umana e la sua esuberanza, per quello del giovane partigiano. La sequenza nella quale sono avviato alla fucilazione mentre, tra due ali di folla all'inizio silenziosa, recito le litanie, cui si aggiungono mano a mano le voci di un coro per descrivere la protesta della gente, rimane a mio avviso una delle più intense di tutto il cinema italiano.

L'Italia diventa così un laboratorio ideale di riflessione sulla storia e sull'uomo in cui il cinema, lei scrive, linguaggio non elitario, diviene territorio di esplorazione e di sperimentazione adatto, più di ogni altra pratica artistica, al crescere e al fiorire di sodalizi intellettuali fecondi. Ecumenismo generazionale e pluralità di linguaggi e poetiche definiscono il mosaico della cinematografia italiana del dopoguerra. Ma confessa anche, non molto dopo aver girato, nel 1951, il suo primo lungometraggio Achtung! Banditi!, di aver vissuto come una marchiatura a fuoco quella di "regista impegnato". Immagine forte, eloquente.

In quel periodo c'era chiaramente un'egemonia culturale della sinistra, almeno sulla carta, che spaventava il centro-destra, anche se questo aveva pur sempre in mano l'editoria e l'economia. Si percepiva come pericolosa quest'egemonia e, dunque, mi affibbiarono la "marchiatura", che non venne risparmiata nemmeno a Rossellini e a De Sica. Fu un modo per rendere più difficile il nostro lavoro, perché "l'impegno" non avrebbe fruttato al botteghino. Pertanto, parlo di marchiatura quando diventa un peso. Per molti di noi lo fu davvero. Anche da parte della critica non ci fu buona accoglienza per alcuni miei film come Lo svitato, Esterina o La vita agra:  da me ci si aspettava sempre film di impegno. Certo, era bello essere attesi come autore impegnato, però era diventata una prigione, una limitazione artistica. Quando mi allontanavo da certi temi forti, ero circondato dalla freddezza di tutti,  anche  del  pubblico  e  dei  produttori, che mi davano sempre meno credito.

Sorprende quasi il Lizzani di Esterina a fianco di quello del Processo di Verona:  due risvolti della sua anima?

Diciamo che l'anima dominante è senz'altro quella della rigorosa attenzione alla storia, dunque il marchio non mi è pesato affatto se visto come caratteristica fondamentale della mia opera. Lo è diventato quando era utilizzato come strumento censorio.

Impegno da tutti riconosciuto per aver affrontato sempre, ieri come oggi, la storia dell'Italia in guerra:  da Mussolini ultimo atto del 1974 al recentissimo Hotel Meina, girato lo scorso anno e in uscita nelle sale.

Mi interessava particolarmente questa storia, prima di tutto perché, malgrado sembrassero acquisiti e indiscutibili l'olocausto e la resistenza, ci sono da anni tentativi di revisionismo che mi fanno orrore. Ricordare e testimoniare quei fatti da parte di chi, come me, li ha vissuti sulla propria pelle, ritengo sia un dovere morale. La storia umana non è lineare, è complessa, non tutto è chiaro del nostro passato, presenta continui rigurgiti che fanno dimenticare la verità, per questo è doveroso tornare a raccontarla. Già nel 1960 avevo avuto il coraggio con Il Gobbo, di narrare la storia di un partigiano diventato poi un pericoloso bandito, scrutando così anche i lati più oscuri dei fatti, soprattutto quando sono messi in dubbio. Così è stato per quanto accadde all'Hotel Meina. In questo caso sono stato colpito da alcuni aspetti particolari:  la capacità di prendere decisioni tali da portare alla catastrofe oppure alla salvezza; l'illusione di un gruppo di ebrei che confida nel fatto che la guerra stia per finire, dunque non tutto è perduto, pur arrivando loro l'eco delle deportazioni. Ecco, mi è piaciuto cogliere questo aspetto dell'attesa, che prelude all'arrivo, nell'arco di pochi giorni, della più inaspettata tragedia. Ho cercato di raccontare la fiducia degli ospiti ebrei dell'hotel che convivono per alcuni giorni con una piccola formazione di SS, fino al precipitare della storia.
Becky Behar, la figlia del proprietario dell'albergo all'epoca quattordicenne, si è salvata e l'ha accusata di avere inserito nel racconto fatti e personaggi non rispondenti alla realtà
In precedenti film di contenuto storico, come Il processo di Verona e Mussolini ultimo atto, pur attenendomi rigorosamente agli eventi narrati nel diario di Ciano per il primo e ai memoriali dei partigiani per il secondo, lavorai enfatizzando le coloriture e dando liberamente spessore ad alcuni personaggi. Le stesse critiche sollevate oggi per Hotel Meina mi furono, invece, rivolte quando girai L'oro di Roma. Oggi come allora mi è sembrato che fosse giusto appassionare il pubblico a questa vicenda e darle sfaccettature diverse. Così come la tela di un pittore, che deve dipingere una situazione drammatica, non inserisce solo il colore nero, così io ho inserito tocchi di colori diversi, come la storia d'amore tra Becky e un giovane ospite dell'hotel oppure la figura di una donna tedesca che, opponendosi al nazismo e collaborando con i partigiani locali, rappresenta l'altra Germania, quella di Goethe, Schiller, Mann, della Rosa Bianca, della resistenza tedesca a Hitler. Questo l'ho fatto non per assecondare i gusti del pubblico che vuole appassionarsi ad eventi drammaturgicamente più coloriti, ma proprio per equilibrare i colori della tela, ossia i toni, il clima del film, e per far sentire l'eco, nel microcosmo dell'hotel, di tanti fatti concomitanti. Come ad esempio quel germe della nuova Europa che, nella vicina Svizzera, veniva discusso in quegli anni, motivo per il quale ho inserito una scena in cui alcuni tedeschi antinazisti, italiani e inglesi si passano il "Manifesto di Ventotene" di Spinelli e Rossi.

"È proprio del cinema deformare, montare, per ottenere una sintesi". È ancora valida questa sua affermazione, quando si voglia fare del buon cinema, se non del cinema vero?

Certo. Vale naturalmente per un film che vive di una sua sceneggiatura, anche se tratta da fatti realmente accaduti. Non vale per un documentario, che deve rispondere completamente al vero.
Hotel Meina è stato presentato fuori concorso all'ultima edizione della Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia. Nel 1979 le veniva affidato l'incarico, per un quadriennio, della direzione della Mostra. In che cosa si caratterizzava il modello che propose allora?

Nell'avere una visione panoramica sullo stato delle cose del cinema, che significa essere riusciti a portare a Venezia anche alcuni film spettacolari, quelli che ai festival non venivano invitati, con un'attenzione particolare all'industria cinematografica. Poi, una visione a campo larghissimo comprendente tutti i paesi emergenti, con l'aumento del numero dei film e la creazione di vari segmenti, accoppiando ogni anno a questa programmazione l'organizzazione di un grande convegno, come quello che dedicai al rapporto tra immagine e suono oppure al problema della conservazione dei film, cui parteciparono filmoteche di tutto il mondo. Infine, l'apertura ai giovani, ai quali dedicai attenzione nella programmazione, facilitandone anche la partecipazione attiva. Insomma, un'attività a tutto campo non soltanto legata alla visione dei film, ma al meccanismo produttivo, alla fruizione della sala.

Tra un film e l'altro si descriveva come un vagabondo. Lo è ancora oggi?

Lo sono ancora per la curiosità innata di conoscere paesi, città, popoli. Lo sono anche perché non si deve vivere di solo cinema.

In questo momento sta pensando a nuovi film o a vagabondare?

Un progetto cinematografico ha bisogno di tanto tempo per realizzarsi. Ho una commedia nel cassetto, che inseguo da anni, ed è la storia di una giuria ad un festival, nelle ventiquattro ore che precedono il verdetto. Poi, una storia interessantissima sullo spionaggio telefonico ai tempi del fascismo, ispirata ad un piccolo libro di Giulio Andreotti, Operazione Via Appia. Infine, un progetto molto ambizioso:  la biografia cinematografica di santa Margherita da Cortona.

L'arte e l'artista sono fra le sue riflessioni.

È un tentativo di teorizzare l'estetica e di umanizzare il cinema. Sono convinto che umanizzando, manipolando la natura, l'uomo artista - dal graffiare la prima pietra in una grotta al girare oggi un film - estende il proprio dominio, lascia il proprio ritratto, non in senso biologico, ma riproducendo piuttosto attorno a sé un mondo meno muto, più comunicativo, e meno ostile.


(©L'Osservatore Romano 21-22 gennaio 2008)
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