Un americano a Parigi:  intervista al regista Julian Schnabel, che in Francia ha girato un film sulla malattia

Non c'è tempo per essere sentimentali

Luca Pellegrini

Inforca occhiali dalle lenti gialle, forse per filtrare la luce e renderla più solare. Lo sguardo, in sintonia, è quello attento di un pittore che filtra la realtà, anche la più cruda, riproducendola su tele enormi, che si espandono inglobando spazi e tempi. Julian Schnabel è originale anche come regista cinematografico, perché i suoi soggetti, centellinati con estrema cura, non sono facili, non sono comuni. Lo scafandro e la farfalla, la sua terza regia, ha vinto lo scorso anno al Festival di Cannes il meritatissimo premio per la migliore regia, ha poi conquistato due Golden Globe, tra cui quello per il miglior film straniero e ora concorre agli Oscar con quattro significative candidature. È un film che penetra profondamente nella vita di Schnabel, oltre che in quella dello spettatore. Le ragioni per le quali lo ha voluto girare risalgono prima di tutto al rapporto con il padre.

Quanto è stato influenzato dalla figura di suo padre in questa ultima regia?

Mio padre è morto nel 2004 all'età di 92 anni. Ha vissuto una vita bellissima assieme a mia madre per ben sessant'anni, non ha mai avuto alcuna malattia. Ma era dominato dal terrore della morte. Gli ultimi anni per lui sono stati i più difficili. Mi sono detto:  se posso rubargli la paura della morte, allora in questo caso sarò stato davvero un buon figlio. La sceneggiatura del film, che mi è arrivata quando lui era malato, è tratta dalle memorie di Jean-Dominique Bauby:  prigioniero nel suo corpo come in uno scafandro, era riuscito a dettare un libro con il solo battito della palpebra sinistra. Mi sono detto:  abbiamo bisogno di vedere dentro di noi per cercare una realtà più dolce e chiara che ci aiuti a capire la morte. Bauby mi ha insegnato come trovare questa realtà, come trovare uno scopo, una meta:  la sua terribile malattia si trasforma diventando un libro, uno strumento con il quale negare la morte a cui è inesorabilmente condannato. È stato capace di afferrare la vita nelle sue condizioni disperate:  mentre scriveva, veniva piano a piano a consumare la paura della morte. Così, quando realmente è morto, ha sentito come completata la sua vita, si è sentito soddisfatto di aver vissuto anche nella totale paralisi, non ha avuto più paura di morire. Ci ha lasciato un grande insegnamento che io ho cercato di trasmettere nel film:  ama coloro che ti stanno vicini, dedica attenzione ai tuoi figli, afferra le occasioni e le opportunità che la vita ti concede, non irrigidirti nelle tue posizioni, sii cosciente di ciò che hai, come le braccia e le gambe quando ti funzionano e non aspettare di non averle più per capire quanto era bello poter camminare, correre, afferrare le cose. Bauby si domanda, con la sua visione retrospettiva della vita:  ero così cieco e sordo che sono dovuto precipitare in questo tragico disastro, vivendo in un corpo quasi morto, per capire che cosa è davvero la vita? La mia vita, scrive, è stata un susseguirsi di mancanze:  le donne che non ho amato, i momenti di gioia che ho lasciato scorrere via, una corsa in cui sapevo già chi avrebbe vinto eppure non ho scommesso sul vincitore. Ora, confida, ho un nuovo palato col quale assaporare le cose, sentirne il gusto, avere ancora desideri.

Il film configura anche un particolare rapporto con il malato e la malattia.

La storia di Bauby e, mi auguro, il film ci aiutano anche a capire meglio le persone ammalate, i disabili:  hanno dei desideri, hanno una loro vita. Noi vediamo soltanto le carrozzelle e la loro malattia, ossia ciò che sta concretamente dinanzi a noi. Ma lì di fronte abbiamo anche una persona che vive, lì di fronte abbiamo una parte dell'umanità. È una questione di consapevolezza. Questo film serve per rendere tutti consapevoli di cosa sia la vita:  sii cosciente del tuo presente anche se è soltanto nella tua mente, perché lì puoi scoprire e trovare un mondo più grande e vasto di quello che avresti mai immaginato. Mi ha fatto pensare a questa grande libertà. Affiorando dalla foschia di un coma puoi vivere una vita anche se questa sta a metà tra coscienza piena e sogno:  puoi arricchire questo interstizio, puoi riempirlo di tante cose, viverlo con ricchezza.

L'assenza di tesi morali è la grande forza espressiva che rende questo film "puro" dinanzi alla tragedia di una malattia, di una paralisi, di chi la vive in prima o terza persona. Come ha fatto a resistere alla tentazione di dare un'interpretazione personale?


Parlare di purezza per il mio film significa averlo prosciugato da ogni sentimentalismo e averlo girato in modo soggettivo. Il più delle volte i film sono girati in modo oggettivo:  tu vedi qualche cosa, vedi la malattia di un altro. È un po' quello che avviene nella pittura:  si osserva la tela che è racchiusa nella cornice. Ma a me interessano quei quadri che vanno oltre la cornice e così il quadro diventa un frammento di un mondo più grande. Penso di aver provato a fare un film come questo tipo di quadro:  girando dal punto di vista del malato, di Bauby, hai la sensazione che la sua malattia sia la tua malattia, che la paralisi sia capitata proprio a te. Lo spettatore comincia a realizzare che nel film guarda sì il malato, ma guarda anche se stesso:  le vite corrono parallele, le esperienze sono simultanee.

Bauby ci insegna a riconsiderare la vita e il tempo del suo scorrere.

La vita è come un battito di ciglia, è molto rapida, ma è anche infinita. Nel poco tempo che abbiamo, dobbiamo tentare di abbattere tutto il superfluo e arrivare all'essenza pura delle cose. Quando, a maggior ragione, si ha così poco tempo come Bauby, non si ha più spazio per essere sentimentali e per mentire. Bisogna trovare un modo per continuare a vivere.

Ha avuto rapporti con la famiglia, i parenti, gli amici di Bauby?

Li conosco tutti:  la madre, la moglie, gli amici. I suoi figli hanno visto il film finito:  erano contenti, hanno pianto, mi hanno ringraziato. Hanno capito che potevano continuare a vivere, che un periodo si era definitivamente chiuso.

E alla sua famiglia, ha fatto vedere il film ultimato?

Ho voluto che tutta la mia famiglia fosse coinvolta nella lavorazione del film:  mia moglie interpreta una fisioterapista che insegna a Bauby come muovere la lingua ed i miei cinque figli mi sono sempre stati vicini.

L'idea di portare al cinema la storia della malattia di Bauby ha trovato subito immediata accoglienza o ha dovuto attraversare difficoltà produttive?

I produttori volevano fare questo film perché il libro è molto conosciuto. Ma io ho chiarito subito che volevo fare un film tutto francese, anche se sono americano. Ho chiesto di girare in Francia, nei veri luoghi che hanno avuto a che fare con la malattia di Bauby e con attori esclusivamente francesi. Ho insistito per girare un film che fosse autentico, o almeno ci ho provato. Ho girato in un vero ospedale, quello di Berck-sur-mer, nel nord della Francia, con veri pazienti, veri medici, vere infermiere e veri fisioterapisti.

Quali sono state le reazioni che le è capitato vedere negli spettatori?

Più che le reazioni degli spettatori, ciò che mi ha sorpreso e reso fiero di questo film è stata la reazione dei medici, come quelli dell'Harvard Medical Centre che hanno iniziato a proiettarlo. Il Maimonides Hospital di Brooklyn, dotato di un centro specializzato per la cura di persone colpite da ictus, ha deciso di utilizzare il film come strumento terapeutico. Molti ammalati mi hanno detto che questo film parla veramente a nome di tutti loro. Nei dibattiti che sono seguiti alla sua proiezione negli Stati Uniti, neurologi e medici mi hanno confermato quanto il film meriti di essere visto dai loro pazienti. Ho anche vinto un premio scientifico perché la ricostruzione medica è molto accurata. Soltanto in una scena mi sono concesso una libertà:  quando un fisioterapista immerge il corpo di Bauby, che ha subito una tracheotomia, in una piscina e lo tiene in braccio. Per quella immagine mi sono ispirato alla Pietà di Michelangelo.

Il suo prossimo film si ispirerà al libro di Rula Jebreal La strada dei fiori di Miral.

Mi ha colpito molto il libro di Rula e desidero trarne un film. È la storia di una giovane palestinese, Miral, accolta in un orfanotrofio fondato in Israele nel 1948 da Hind Husseini per dare riparo a quelle giovani che gli esiti cruenti della nascita dello Stato d'Israele avevano lasciato senza genitori né mezzi di sussistenza. Miral è divisa tra la solidarietà al suo popolo e il desiderio di pace. Io sono ebreo, ma spero ogni giorno nella pace per il Medio Oriente. Credo che sia necessario smettere di demonizzare il popolo palestinese perché tutti, anche negli Stati Uniti, possano capire che cosa è accaduto loro. Io non sono un analista politico, ma nei tre film che ho girato, ho provato sempre ad imparare il più possibile dalle situazioni legate ai miei film. Per questo mi sento non solo coinvolto, ma responsabile delle storie che racconto. Quella scritta da Rula ci insegna come il mondo potrebbe essere migliore.

Questa, dunque, la ragione per la quale è diventato un regista di cinema?

Non penso che l'ignoranza possa portare felicità, ma che la conoscenza sia libertà. Non giro film per raccontare cose e fatti che già conosco. Giro film per imparare quelle cose e quei fatti che, sono convinto, mi possano aiutare.


(©L'Osservatore Romano 2 febbraio 2008)
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