La consegna alla diocesi di Roma della lettera del Papa sul compito urgente dell'educazione

Il ruolo della tradizione:  a colloquio col matematico Giorgio Israel

I rivoluzionari?
Tutti figli della tradizione

Monica Mondo

Giorgio Israel insegna storia della matematica all'Università "La Sapienza" di Roma. Il suo cognome denota l'appartenenza a un popolo, la sua storia familiare ne porta le ferite, e c'è la storia dell'Ebraismo e della sua religione all'apice degli interessi di questo uomo di scienza anomalo, perché osa porre e proporre il problema del significato dell'Essere, del destino, e la sfida esaltante e terribile della libertà dell'uomo. Così leggiamo sul suo blog e sulle pagine del settimanale "Tempi", del "Foglio" o del "Corriere della sera" l'indignazione per l'impedita visita del Santo Padre alla sua università, in nome della libertà della ragione, perfino la difesa coraggiosa del Pontefice nelle polemiche sulla preghiera per gli Ebrei nel rito liturgico in latino, ricordando una vicinanza culturale e umana di antica data di questo Papa con i "fratelli maggiori".

Gli abbiamo chiesto di confrontarsi con la Lettera sul  compito  urgente  dell'educazione di Benedetto XVI, ancora scoprendo affinità profonde, di sostanza e di linguaggio. Innanzitutto l'importanza della tradizione, di ciò che è dato:  e cita Hanna Arendt, che ha ispirato molto del suo prossimo libro intitolato Chi sono i nemici della scienza. Riflessione su un disastro educativo, in uscita da Lindau a fine mese.

La Arendt spiega benissimo l'apparente contraddizione tra tradizione e innovazione. La scuola non può che essere fondamentalmente conservatrice, ma proprio per consentire ai giovani di avere gli strumenti, al limite, per rivoluzionare il mondo. L'errore più grande che possiamo fare è non offrire ai nostri figli un'immagine  compiuta  della  realtà  in  cui  si trovano.

Chi  gliel'ha  offerta? Quale  tradizione  l'ha formata?

Quella della scuola italiana di allora, infinitamente migliore dell'attuale, come qualità dell'istituzione. E soprattutto l'educazione dei miei genitori, l'influenza di mio padre, che mi ha proposto il suo modo di vedere, e un grande amore per la conoscenza, razionale e scientifica. Era uno scienziato. Ma non aveva, diremmo oggi, una visione positivistica, ristretta, della ragione. Non accettava idee di tipo riduzionistico come quelle ora in voga. Aveva una visione religiosa, aperta. Diremmo ora che era "un ebreo riformato", attento ai valori morali e alla dimensione universale dell'ebraismo. Ricordo le passeggiata con lui, la domenica pomeriggio, quando recitava a memoria brani delle Scritture. Un insegnamento forse un po' difficile per un ragazzo, spesso è più semplice entrare nella religione per la via formalistica. Così quel che mi è stato lasciato ha inciso a scoppio ritardato, più che sul momento. Ma era, ed è, la via giusta.

Cito la Lettera, che sarà consegnata sabato 23 alla Diocesi di Roma. E cioè a tutte le diocesi:  "Anche i più grandi valori del passato non possono semplicemente essere ereditati, vano fatti nostri attraverso una, spesso sofferta, scelta personale".

È chiaro che il richiamo alla tradizione non può essere conservativo, un ricorso al passato per restaurarlo. Ma gli strumenti della tradizione vanno offerti, proprio perché l'insegnamento non diventi pura metodologia. È il dramma che viviamo oggi.
Cartesio, che ha rivoluzionato il pensiero filosofico, è stato formato al collegio gesuita di La Flèche. Galileo era un aristotelico, in fondo. Ora si pensa invece che occorra proiettarsi in avanti, cioè nel vuoto, sostituendo ai contenuti la metodologia, "la scelta dei nullatenenti", diceva Lucio Colletti.

Perché "oggi è più difficile educare"? Di chi è la colpa, se l'educazione è un problema impellente per i genitori e perfino per i loro figli, se è diventata un'emergenza?

Ha influito purtroppo la contestazione degli anni Settanta che ha distrutto la struttura dell'istituzione e il principio di autorità, che è essenziale nell'istruzione. Questi aspetti di antagonismo libertario si sono mescolati di recente con un atteggiamento di tipo tecnocratico per cui si oscilla tra due poli, entrambi sbagliati. Da una parte l'abbattimento del merito, quell'"assecondare negli errori, fingere di non vederli o peggio condividerli come se fossero le nuove frontiere del progresso umano", come dice il Papa. Penso a una delirante indicazione della legislazione spagnola sulla scuola che afferma il diritto dei bambini a sbagliare. Sbagliamo tutti, sempre, ma bisogna educare al riconoscimento dell'errore, non all'esaltazione dell'errore! Si distrugge così l'idea dell'insegnamento a favore di un autoapprendimento, che riduce l'insegnante a una sorta di animatore culturale. Dall'altra parte si ripropone la scuola come impresa basata su principi di ingegneria gestionale, profitto, concorrenza. Ma la scuola non è fornitura di servizi o prodotti, pur eccellenti, ma qualcosa di peculiare in sé, cioè l'educazione, la conoscenza.

Ben povera è l'educazione se lascia da parte "la grande domanda riguardo alla verità". È una parola invece che fa paura, si preferisce ignorare il suo provocante appello, o negarla.

Dicono che è dogmatismo, o superstizione. Una delle tragedie culturali del nostro tempo è ridurre tutto al problem solving. Ciò che non è formulabile in termini di problemi risolvibili non è degno di considerazione. Mentre la capacità fondamentale sta nel porre i problemi, più che nel risolverli.

La scuola come luogo dove imparare a desiderare, a domandare. È questa la sua dimensione etica.

Qui sta il contenuto fondamentale, che si apprende prima di tutto in famiglia, ma prosegue di pari passo nella scuola. Faccio un esempio della confusione mentale che aleggia nei nostri esperti di istruzione. Si propone, per introdurre una sorta di liberismo, un'istruzione formata sulla domanda delle famiglie. E vengono fuori così i corsi sull'affettività, gli psicologi in classe. Ma è un'inversione di responsabilità grottesca. È nella famiglia che si costruisce la figura etica del ragazzo. Se la famiglia fa difficoltà a dargliela, facciamo allora delle politiche per la famiglia. Ma di per sé, la famiglia è impreparata a definire i percorsi disciplinari di un ragazzo. Deve farlo un'istituzione consolidata come la scuola, che viceversa non deve occuparsi di definire l'affettività, o la figura di "cittadino" del ragazzo. Una tale visione, purtroppo portata avanti anche da chi si dice cristiano, corrisponde invece a un'idea tecnocratica, laicista dell'educazione.

"Anima dell'educazione, come dell'intera vita, può essere solo una speranza affidabile". Non abbiamo dove posare la nostra fiducia, se non abbiamo un luogo e una strada per il significato esauriente del vivere, cosa possiamo trasmettere?

Questo è il tema centrale. Mi è capitato di discutere in una scuola con dei ragazzi, di esortarli ad avere un'ampia visione culturale, che tenga conto delle domande fondamentali dell'uomo. Chi può negare che ciò che ci interessa realmente è il tentativo di rispondere a chi siamo, dove andiamo, il senso del nostro essere qui ed ora. Ecco, si è alzato un solo ragazzo, tra più di duecento, dicendomi che non gliene importava nulla. Aveva la fidanzata, la moto, internet, amava la musica, Questo bastava.

Mentiva, se ne accorgerà al primo dolore, al primo desiderio insoddisfatto. Ma a volte è più comodo mentire, la ricerca seria ha bisogno di fatica, e di buone compagnie.

Tutti portano con sé queste domande, ma la nostra vita ha troppi stimoli di altro genere, dettati dalla tecnologia. Vere forme di alienazione, come un anestetico che ci fa dimenticare le vere domande e distrugge la capacità di rapporti affettivi, la sensibilità morale. Senza farci guardare le inquietudini che stanno riposte in fondo all'anima. Per questo la scuola in tutti i campi, letterario, scientifico, artistico, deve far emergere le domande che stanno dietro questa grande impresa del conoscere. Domande che forse non troveranno una risposta definitiva, ma solo tenerle vive fa acquistare un senso alla nostra avventura della ragione. Altrimenti, si agitano, latenti, al fondo di noi e si ripropongono semplicemente come incubi, emergono come patologie, da sfogare con la rabbia, o curare con gli antidepressivi.



(©L'Osservatore Romano 23 febbraio 2008)
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