Intervista al neurologo Gian Luigi Gigli sul problema dell'assistenza ai malati in stato vegetativo

Affrettare la morte di una persona incapace
non è un diretto beneficio


di Maurizio Fontana

Non hanno ancora ricevuto risposta i venticinque medici neurologi che lo scorso 16 luglio hanno inviato al procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di Milano una lettera per motivare scientificamente la richiesta di bloccare le procedure intese a porre fine alla vita di Eluana Englaro, la giovane - in stato vegetativo da sedici anni in seguito a un incidente - per la quale i genitori hanno chiesto la sospensione della nutrizione e della idratazione assistite. Sono passati pochi giorni. "Probabilmente mancano ancora i tempi tecnici per una risposta ufficiale - afferma Gian Luigi Gigli, professore di neurologia dell'università di Udine, firmatario e coordinatore dell'iniziativa - ma nel frattempo abbiamo già ricevuto numerose adesioni di altri medici, neurologi e non, e anche di moltissima gente comune".
Nel frattempo, però, il caso ha registrato importanti evoluzioni politiche. Nella notte fra il 21 e il 22 luglio, infatti, la Commissione Affari Costituzionali del Senato italiano ha votato l'apertura presso la Consulta di un conflitto di attribuzione con la Cassazione per la sua sentenza sul caso di Eluana. L'interesse è quindi molto alto e il professor Gigli spera che a questo interesse corrisponda una presa di coscienza per non arrivare a decisioni dalle conseguenze ritenute incontrollabili.

Il caso di Eluana Englaro presenta delle particolarità mediche, cliniche che giustificano un dibattito così ampio, articolato e acceso?

Il caso di Eluana Englaro ha richiamato l'attenzione dell'opinione pubblica e della stampa nazionale in quanto è il "caso Terry Schiavo" d'Italia. Si tratta della prima paziente che verrebbe messa a morte in Italia sulla base dell'arresto, per mano medica, dell'alimentazione e della nutrizione assistite che sta ricevendo. Quindi verrebbe lasciata morire di fame e di sete. Questo evento ha giustamente richiamato l'attenzione perché costituirebbe una svolta epocale:  cambierebbe di fatto la legislazione italiana, e per di più in maniera surrettizia, senza coinvolgimento del Parlamento, introducendo nell'ordinamento - che aveva sempre salvaguardato il principio della "indisponibilità della vita umana" - il concetto di "disponibilità della vita umana". La vita sarebbe a disposizione non solo della singola persona ma anche di quanti ritengono di poterne interpretare la volontà.
Dal punto di vista della professione medica - che ancora oggi nel codice deontologico nega in modo deciso l'ipotesi della eutanasia - la sentenza, se eseguita, introdurrebbe di fatto la possibilità per il medico di andare incontro a una procedura di tipo eutanasico per omissione, benché non chiamata con questo nome.

La richiesta specifica dei familiari di Eluana di procedere per via giuridica può coinvolgere situazioni analoghe?

Il problema è proprio questo. La Corte di Cassazione e la Corte d'Appello di Milano hanno di fatto imposto solo due paletti alla possibilità di estensione ad altri casi di questo tipo di intervento:  il fatto che lo stato vegetativo sia dichiarato irreversibile e il fatto che ci sia una manifestazione convincente della volontà del paziente.
È chiaro che se questi due concetti valgono nel caso di Eluana Englaro, essi potranno - perché in assenza di norme la giurisprudenza fa testo - essere invocati in altre simili circostanze. Se sarà accertato che in questo caso lo stato vegetativo prolungato è irreversibile - cosa che è tutta da dimostrare - e se saranno accertate come sicure le opinioni espresse in passato dalla paziente circa il suo non gradimento di una alimentazione assistita, se tutto questo potrà far testo nel caso di Eluana Englaro, potrà farlo anche in altri casi.

Nella vostra lettera inviata al procuratore della Repubblica, si legge di circa 1500 casi in Italia assimilabili a quello di Eluana.

Si tratta ovviamente di una stima, estrapolata sulla base dei dati epidemiologici a disposizione. Potrebbe essere anche maggiore, ma non dovrebbe comunque discostarsi in maniera significativa dalla realtà.

E a livello internazionale?

I casi nella letteratura internazionale non sono ovviamente omogenei. Tuttavia l'incidenza stimata dello stato vegetativo a sei mesi (ovvero il numero di nuovi casi) può essere collocata a livello internazionale tra lo 0,5 e i 4 casi ogni centomila abitanti. I dati invece che riguardano la "prevalenza", ovvero il numero di soggetti presenti nella popolazione, sono ancora più variabili (anche perché con il variare del tipo di assistenza - diversa da Paese a Paese - cambia anche la mortalità). Quindi laddove c'è una maggiore attenzione terapeutica - come è stato finora in Italia - i dati sulla prevalenza tendono ad aumentare. Con questi limiti possiamo stimare il numero di pazienti in stato vegetativo tra 1 e 10 casi ogni centomila abitanti. Volendo fare un esempio concreto e considerando la realtà degli Stati Uniti - dove possiamo stimare 2 o 3 casi ogni centomila abitanti - possiamo dire che abbiamo circa 7000 pazienti.

Possiamo definire dal punto di vista strettamente medico i confini della situazione di queste persone?

È sicuramente un bene chiarire. Innanzitutto queste persone non sono malati terminali. Tant'è vero che, se assistiti, possono vivere per molti anni - come nel caso di Englaro. Inoltre non sono malati in coma:  in essi la veglia si alterna al sonno; c'è una spontanea apertura degli occhi; c'è la presenza di alcune risposte riflesse che nel paziente in coma possono mancare. Quindi sono pazienti che vanno distinti sotto tutti i punti di vista, compreso quello comportamentale, dal paziente in coma. Non hanno bisogno di macchine. Per intenderci:  non c'è alcuna spina da staccare. Non sono attaccati a un respiratore, non dipendono da particolari sistemi di somministrazione di farmaci. Inoltre - contrariamente a ciò che molta gente pensa - possono essere (se l'assistenza è buona) mobilizzati. Non sono certamente in grado di camminare ma possono essere messi su una poltrona. Infine sono pazienti nei quali sempre di più le nuove metodologie d'indagine ci mostrano - in casi che cominciano ad essere numerosi - un mantenimento di più o meno elementari sistemi di analisi e di discriminazione delle informazioni. Con i limiti dell'approssimazione, tutto ciò lascia pensare che una forma più o meno residuale di consapevolezza (non oso parlare ancora di coscienza) sia in loro presente.
Ci troviamo di fronte a persone nelle quali, in presenza di un danno cerebrale che può essere variabile da soggetto a soggetto, si determina una condizione come quella di un interruttore spento. La possibilità di funzionamento non è esclusa. E i casi di recupero dimostrano che può riattivarsi.
È chiaro che il numero dei pazienti in cui questo recupero si verifica è maggiore nelle prime fasi cronologicamente successive alla comparsa del problema. Ma sono ampiamente documentati casi in cui il recupero è successivo e si verifica anche a distanza di molto tempo.

Qualche esempio?

Credo che tutti ricordino la vicenda abbastanza recente di quel paziente polacco che era stato urtato da un tram ed era entrato in una condizione prima di coma e poi di stato vegetativo. L'uomo aveva subito il trauma mentre il Paese era ancora in epoca comunista e si era successivamente svegliato (un paio di anni fa) in un contesto sociale completamente diverso che lo aveva all'inizio enormemente disorientato.
Tuttavia è logico che più lo stato vegetativo si prolunga nel tempo e minori sono statisticamente le possibilità di recupero. Anche perché quella della "non ripresa" sembra essere una profezia che tende quasi ad autorealizzarsi. Mi spiego:  se subentra un atteggiamento di abbandono del paziente è chiaro che le possibilità di recupero diminuiscono drasticamente. D'altronde è comprensibile che la società possa investire in termini di riabilitazione in maniera intensiva all'inizio perché c'è una maggiore possibilità di recupero. In ogni caso, al recente congresso di Lisbona della Brain Injury Association è stato presentato il caso di un soggetto che si è svegliato dopo diciotto anni.

Quando lei parla delle effettive capacità di percezione di alcuni stimoli, usa spesso il condizionale. Molti scienziati, invece, rilasciano dichiarazioni o prendono decisioni come se conoscessero perfettamente la fisiologia del cervello, come se fossero in grado di stabilire esattamente se una persona possa in un dato momento percepire, sentire, avere un qualche tipo di relazione con il mondo esterno. Questa certezza è giustificata?

Non possiamo saperlo, perché la maggior parte di questi pazienti non sono stati studiati da questo punto di vista. Possiamo invece dire con certezza che alcuni dei pazienti studiati con le nuove metodologie mostrano livelli di processazione ed analisi delle informazioni per quanto variabili da soggetto a soggetto. Ci sono, ad esempio, pazienti che sembrano capire più o meno la differenza fra il rumore di fondo e il parlato, oppure che riconoscono il proprio nome rispetto ad altri, o che addirittura rispondono (a livello di attivazioni cerebrali) al contenuto stesso di quello che gli viene detto o gli viene fatto vedere. Fino al caso più clamoroso - pubblicato nel 2006 su "Science" - di un paziente in stato vegetativo che era in grado di seguire i comandi o le istruzioni che venivano dati circa un'immaginaria partita di tennis.
Tutto ciò ci costringe a interrogarci su cosa sia la coscienza. Perché ancora non sappiamo dove essa sia localizzata. Fermo restando che pazienti in stato vegetativo sono uno diverso dall'altro quanto al danno, è altrettanto vero che noi non sappiamo con precisione come la coscienza lavori e quali siano le strutture assolutamente indispensabili per il suo funzionamento. È certo che la corteccia cerebrale gioca il ruolo più importante, ma anche che hanno un ruolo alcune strutture sottocorticali come i gangli della base o come il talamo. Allo stesso modo i dati più recenti di letteratura mostrano come anche alcune strutture del tronco dell'encefalo partecipino in qualche modo ai meccanismi che sottendono l'attività cosciente. Detto questo, noi dobbiamo quantomeno porci in una situazione di dubbio.

Le tecniche e gli strumenti attualmente in mano agli scienziati non garantiscono quindi una conoscenza assoluta e certa dei meccanismi della coscienza.

Assolutamente no. E metta in conto un altro fatto. Quanto ho appena descritto è il patrimonio di centri specializzati nella ricerca in questo campo, ma non fa parte dell'approccio diagnostico che viene normalmente seguito per la cura delle persone. Ad esempio, la risonanza magnetica funzionale dopo stimolazione con messaggi e informazioni piuttosto che non la Pet, certamente non vengono eseguite su tutti i pazienti.
Questo per sottolineare ancora che il buon senso vorrebbe un atteggiamento di umiltà e di dubbio. È un problema da cui possiamo uscire solo esulando in parte dalla pura medicina:  innanzitutto dobbiamo ricordarci che siamo di fronte a delle persone umane. La stessa Corte di Cassazione che ha dato il via alla sentenza di Milano riafferma che tali pazienti sono persone umane a tutti gli effetti e che sono portatori di tutti i diritti al pari delle altre. È necessario allora chiederci:  noi possiamo invocare un diritto sulla vita delle altre persone? È un diritto che ha il paziente stesso (estremizzando il principio di autodeterminazione) o, peggio, ce l'hanno anche altri che parlano in suo nome?
Questi sono i nodi da sciogliere. Perché se noi ammettiamo che il principio di autodeterminazione - magari per interposta persona - vale fino all'estremo, allora non c'è bisogno neanche di parlare di nutrizione e idratazione assistite attraverso cannula, ma addirittura - come viene proposto da qualcuno più estremista su autorevolissime riviste mediche - sarebbe possibile trasporre lo stesso tipo di atteggiamento anche, per esempio, alla nutrizione per bocca, col cucchiaio.

Chiariamo:  la nutrizione assistita, in casi come questo, può essere considerata secondo lei un trattamento medico?

Dobbiamo metterci d'accordo sulle definizioni. Fino al 1983 era pacifico per tutti, compresa l'Associazione Medica Mondiale, che la nutrizione e l'idratazione fossero comunque un trattamento di base, proprio perché di esse hanno bisogno sia il sano che il malato. E l'assistenza - sia che avvenga col cucchiaio perché il paziente non può muovere le mani, sia che avvenga con la cannula perché non può aprire la bocca - non è nient'altro che il metodo con cui questo diritto fondamentale viene garantito. Una sorta di "protesi" con la quale viene garantita una necessità fondamentale. A partire dal 1983 viene invece operata una profonda revisione semantica per cui la nutrizione e l'idratazione diventano trattamento medico e come tale rifiutabile dal paziente o da chi ne fa le veci legalmente. Si è trattato di una forzatura strumentale, funzionale al progetto culturale che, a livello internazionale, incominciava a delinearsi.
Merita sottolineare a questo punto che, comunque, la stessa sentenza della cassazione del novembre scorso nega esplicitamente che l'idratazione e la nutrizione assistite costituiscano una forma di accanimento terapeutico e ritiene che esse debbano piuttosto essere considerate come un intervento proporzionato. Ciò malgrado, la sentenza ha ritenuto di dare preminenza alla presunta volontà della paziente.

Sempre svincolandoci dal singolo caso di Eluana Englaro. Le richieste a volte estreme dei familiari chiamati a fronteggiare situazioni pesanti o disperate, ci richiamano al problema dell'assistenza e del sostegno ai malati e a chi condivide nella vita di ogni giorno il loro problema.

Questa è sicuramente una via da percorrere. Io stesso, insieme ad altri colleghi, ho fatto parte di una commissione ministeriale che ha operato tra il settembre 2005 e il febbraio 2006 producendo un documento corposo e articolato, nel quale venivano analizzati i percorsi assistenziali necessari a questi pazienti. Il documento prendeva in esame anche i casi in cui la situazione si mostra "cronicizzata" e quindi con speranze minime di recupero - pazienti nei quali non c'è più la possibilità, per ragioni realistiche, di richiedere un trattamento riabilitativo intensivo e per i quali si può sperare solo in una ripresa "spontanea". Per tali pazienti si arrivava a proporre - nei casi in cui la famiglia non esista, o non sia in grado per motivi economici o per motivi psicologici di farsi carico del problema, o comunque in quei casi in cui la famiglia pur facendosi carico del problema abbia bisogno di periodi temporanei di allentamento della pressione - che fosse comunque garantito sul territorio nazionale un numero adeguato di strutture - speciali unità di accoglienza permanente (Suap). Per i casi invece in cui è possibile l'assistenza a domicilio, si proponeva che fosse disponibile per i familiari non solo una rete di assistenza domiciliare, ma anche un sostegno economico per venire incontro alla perdita di guadagno che una situazione del genere inevitabilmente porta in una famiglia.
Di questo progetto non si fece nulla perché le vicende politiche che nel 2006 portarono al cambiamento di governo impedirono che il documento venisse portato alla conferenza Stato-Regioni che è l'organo deputato per decidere sugli standard di assistenza sul territorio nazionale.
Ora abbiamo saputo che nel nuovo Parlamento è stato presentato un disegno di legge che in pratica riprende il prodotto di quella commissione. Sulla spinta di queste ultime vicende sembra ci sia ora una maggiore attenzione a livello ministeriale. Così ci auguriamo da un lato che il documento della commissione possa essere riportato all'attenzione della conferenza Stato-Regioni, e dall'altro che il disegno di legge attuativo proposto in Parlamento possa essere già a settembre calendarizzato nei lavori parlamentari e giungere a una rapida approvazione. Sarebbe un atto di civiltà e di giustizia verso famiglie che sono state pesantemente colpite dalla vita.

In questo senso ci sono esperienze già sperimentate e documentate all'estero?

No. E credo che il nostro approccio sarebbe innovativo e interessante anche da questo punto di vista. Sarebbe un progetto estremamente umano e civile, nel solco della tradizione di solidarietà sociale e anche di amore cristiano che la nazione italiana certamente può offrire. È chiaro che in altri contesti ciò è più difficile. Pensiamo ad esempio alla medicina negli Stati Uniti che è in gran parte privatizzata:  lì o entrano in gioco opere caritatevoli oppure non è possibile affrontare il problema. Ecco allora che l'interruzione della nutrizione diventa pratica abituale:  il caso Terry Schiavo emerse solo perché si creò un conflitto tra i genitori e il coniuge. Ma non era una novità. Purtroppo certe pratiche erano documentate anche a livello di alcune strutture sanitarie cattoliche. Fu soltanto dopo un intervento di Giovanni Paolo ii - in occasione del congresso organizzato dalla Federazione internazionale dei medici cattolici e dalla Pontificia Accademia per la Vita nel 2004, nel quale con un memorabile discorso il Papa chiarì i giusti termini della questione - che anche nelle istituzioni sanitarie cattoliche degli Stati Uniti si cominciò ad osservare una presa di distanza da quelle che erano scelte e pratiche comunemente accettate.
Per quello che riguarda modelli simili a quello che noi proponiamo, per quanto ne so io, solo la Francia propone qualcosa di interessante.

Se si arriverà alla sanatoria per il caso Englaro viene da chiedersi cosa accadrà di tutte le persone che si trovano in situazioni simili e anche cosa dovranno fare i medici.

Come dicevo prima, innanzitutto questo caso farà giurisprudenza. In Italia non c'è alcuna legge definita. Nel momento in cui qualcun altro dovesse fare una richiesta analoga, la Cassazione dovrà tenere conto delle decisioni prese per il caso Englaro.
C'è da considerare che il problema non è dato solo dai pazienti entrati in stato vegetativo a seguito di un evento acuto (ad esempio a causa di un trauma) - nei quali, in base a quanto abbiamo detto in precedenza, potrebbe anche essere contestato il principio dell'assoluta irreversibilità che, lo riaffermo, è indimostrabile - ma anche dalla categoria di pazienti che sono entrati in uno stato vegetativo con un lento scivolamento cronico. Si tratta dei pazienti dementi, per i quali, essendo la malattia frutto di un processo degenerativo progressivo, vale il discorso della irreversibilità. E qui siamo nell'ordine di molte migliaia di persone, e con la tendenza a un aumento nel tempo considerato l'invecchiamento della popolazione.
La demenza agli ultimi stadi certamente corrisponde molto di più che non il caso Englaro ai requisiti richiesti dalla Corte di Cassazione.

A questo punto emerge la necessità di arrivare a un elemento chiarificatore, a un punto di riferimento che possa valere per tutti. Quali sono a suo parere i percorsi per arrivare a una cultura condivisa?

Alcuni aspetti condivisi possono senz'altro essere trovati. Innanzitutto penso alla risposta in positivo a livello di servizi sanitari e sociali. Non si vede perché anche i fautori dell'autodeterminazione a ogni costo non dovrebbero accettare una scelta di civiltà.
Questo non risolve però il problema del caso in cui questa autodeterminazione volesse comunque esercitarsi. Non è pensabile, a mio parere, che valgano testimonianze più o meno approssimative di ciò che una ragazza può aver detto dopo aver visto qualcuno in rianimazione, con tutta l'emotività che ciò comporta. Dovrebbero almeno essere fortemente limitate le manifestazioni di volontà di questo tipo.
Resta però un confine comunque non riconciliabile che divide chi ritiene la vita umana comunque "indisponibile" - come è stato finora nell'ordinamento giuridico italiano - da chi invece ritiene che così non sia. Chiaro che di fronte a questa che è una scelta di natura etica, filosofica, antropologica il dialogo diventa più complicato.
Un'altra risposta potrebbe darla in modo autorevole, una volta per tutte il Parlamento. In Italia abbiamo una Costituzione che viene invocata dalla stessa Corte di Cassazione e dalla stessa Corte d'Appello di Milano a proposito del principio di autodeterminazione. La Costituzione al numero 32 recita che nessun cittadino può essere costretto a sottoporsi a trattamenti medici non desiderati.
Ora questo comma dell'articolo 32 era stato inserito dai padri costituenti pensando a tutt'altro contesto:  si pensava infatti alle terribili esperienze dei campi di concentramento, sterilizzazioni forzate e via dicendo. Non era stato scritto perché il paziente potesse disfarsi della propria vita.
Su questo punto, un aggiornamento che confermasse l'esplicita volontà dei padri costituenti sarebbe quanto mai auspicabile, anche se capisco che è difficile da realizzarsi.
Inoltre sarebbe opportuno che si desse sostanza nell'ordinamento italiano a quello che la Convenzione di Oviedo sulla biomedicina richiama nell'articolo 6 - che di solito non viene citato - lì dove afferma che nessun intervento medico su persona incapace può essere fatto se non in vista di un diretto beneficio del paziente. A livello giuridico, secondo me, si dovrebbe una volta per tutte dire che affrettare la morte di una persona incapace non può essere considerato un diretto beneficio.



(©L'Osservatore Romano 23 luglio 2008)
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