Intervista al cardinale Sarr all'indomani dell'incontro promosso dal Pontificio Consiglio della Cultura a Bagamoyo

Le culture dell'Africa
tra identità e globalizzazione


di Gianluca Biccini

"In Africa i cristiani e le istituzioni legate alla Chiesa devono lavorare per gestire e non subire la globalizzazione". È quanto afferma il cardinale Théodore-Adrien Sarr, arcivescovo di Dakar, in quest'intervista rilasciata al nostro giornale all'indomani dell'incontro promosso dal Pontificio Consiglio della Cultura a Bagamoyo, in Tanzania, al quale ha partecipato come relatore. "Conosciamo molto bene - aggiunge il porporato senegalese - tutte le trasformazioni e i cambiamenti negativi che la mondializzazione può provocare nella nostra cultura. Mi riferisco soprattutto all'aggressione alle tradizioni africane, per cui occorre prestare particolare attenzione a ciò che le nostre culture erano una volta e al cambiamento prodotto in questi ultimi anni". Il cardinale rappresentava i Paesi riuniti nella Conferenza episcopale regionale dell'Africa occidentale francofona (Cerao), di cui è presidente. La sua presenza ai lavori, insieme a quella del cardinale Polycarp Pengo, arcivescovo di Dar-es-Salaam e presidente del Simposyum delle conferenze episcopali dell'Africa e del Madagascar (Secam), ha conferito all'incontro di Bagamoyo un respiro continentale, anche in vista della seconda assemblea speciale per l'Africa del Sinodo dei Vescovi, in programma il prossimo anno. Quella del cardinale Sarr è una riflessione a tutto campo sull'Africa e sul Senegal, che tocca alcuni temi fondamentali quali l'inculturazione della fede e il dialogo interreligioso. "Essere oggi cardinale di una Chiesa africana - sottolinea - significa far conoscere al mondo i bisogni, le attese, le aspirazioni delle nostre popolazioni".

I ripetuti appelli di Benedetto xvi e il recente incontro in Tanzania organizzato dal Pontificio Consiglio della Cultura sembrano evidenziare una rinnovata attenzione della Chiesa per il vostro continente.

Non c'è dubbio. A Bagamoyo per me è stata la prima partecipazione a un incontro del Pontificio Consiglio della Cultura e ciò mi ha permesso di comprendere meglio il lavoro di questo dicastero, in particolare i benefici che il suo lavoro può apportare alla pastorale delle nostre Chiese africane. È stato importante notare l'attenzione rivolta al processo di inculturazione del vangelo in Africa. Questo incontro ci ha offerto stimoli per la pastorale e per l'evangelizzazione dei nostri popoli, tenendo presenti tutti i cambiamenti che si verificano a livello mondiale. Ho potuto confrontarmi con le realtà di altri Paesi e conoscere i modi in cui le comunità cristiane affrontano i cambiamenti in atto.

Pensa che la globalizzazione abbia in Africa conseguenze peggiori che in altri continenti?

Mi sembra che l'Europa e forse alcuni giganti asiatici, quali l'India, la Cina, il Giappone, riescano a gestire meglio questo fenomeno. Occorre, pertanto, che anche le nostre nazioni riprendano coscienza delle ricchezze delle loro culture, invece di considerarle inferiori alle altre. Sono certo che anche le nostre antiche culture possono gestire la globalizzazione e mantenere tutto quello che è valido della tradizione, sebbene siano più vulnerabili perché hanno dovuto subire la tratta degli schiavi e la colonizzazione.

Cosa  può  fare  la  Chiesa  in concreto?

Dobbiamo far prendere coscienza ai popoli delle loro ricchezze culturali. La Chiesa può agire all'interno delle scuole oppure nei centri culturali. Inoltre, è importante l'attività dei differenti movimenti laicali e di quei cristiani a cui stanno a cuore i destini dei loro popoli.

Come vi state preparando al prossimo Sinodo per l'Africa?

Tutte le diocesi hanno terminato le riflessioni sui lineamenta e adesso stanno elaborando le relative sintesi. Verranno poi riunite in un unico documento, che nei prossimi giorni di agosto sarà inviato a Roma. Siamo in linea con i tempi previsti e presto verrà elaborato l'instrumentum laboris.

Quali sono le attese in vista di questo importante appuntamento?

Occorre rafforzare le conclusioni del Sinodo del 1994 e valutare nuovi orientamenti. Mi riferisco soprattutto alla cultura, magari prendendo come spunto proprio quanto elaborato nei giorni scorsi a Bagamoyo. Si dovrebbero trovare delle basi comuni per permettere alle nostre Chiese di aiutare i popoli africani a non disprezzare e a non dimenticare le proprie origini.

Con quali sentimenti ha accolto lo scorso anno la nomina cardinalizia da parte di Benedetto xvi?

Ringrazio il Papa di avermi dato fiducia chiamandomi nel collegio cardinalizio. Sono impegnato a cogliere tutte le occasioni che mi vengono offerte nel mio Paese, in Africa e nel mondo - sempre in comunione con il Successore di Pietro - per far comprendere le diverse posizioni della Chiesa su alcuni problemi e su aspetti della vita sociale e politica di varie nazioni, in particolare dei Paesi africani.

Quali sono le priorità pastorali del suo ministero?

Penso che tutta la Chiesa, non solo quella africana, in questo terzo millennio sia chiamata a confrontarsi con il grande fenomeno della mondializzazione:  anche nel nostro continente, come nei Paesi occidentali, condividiamo la preoccupazione della Chiesa universale per la secolarizzazione cui sta andando incontro la società. Nello specifico sono in ballo i grandi problemi delle popolazioni africane:  povertà, pandemie, conflitti. E noi pastori dopo il Sinodo del 1994 abbiamo capito che la Chiesa aveva davvero bisogno di una missione in particolare:  contribuire a costruire la pace in Africa secondo metodologie consone allo sviluppo dei popoli africani, e a lenire tutte le sofferenze di cui sono vittime le nostre popolazioni.
Ma se i problemi sociali sono davvero preoccupanti la Chiesa sa di avere il grande dovere di inculturare la fede cristiana, di arrivare progressivamente a contribuire al matrimonio felice di quest'ultima con le culture locali in tutti i Paesi dell'Africa.

Di quali strumenti intende avvalersi?

Un obiettivo è quello di creare università cattoliche in vari Paesi africani per contribuire alla formazione di élite locali alla luce della dottrina sociale della Chiesa, nella speranza che, una volta raggiunti i posti decisionali politici, economici e sociali, questa classe dirigente indigena sia davvero capace di edificare società equilibrate, dove la pace possa regnare grazie alla giustizia. Solo così è possibile assicurare un vero sviluppo:  evitando i conflitti e la corruzione. Grazie a dirigenti disinteressati e preoccupati solo del loro popolo noi potremo vedere le popolazioni africane in condizioni di vita migliori. Vorremmo una classe dirigente capace anche di testimoniare l'amore di Cristo per tutta l'umanità.

Come colloca la sua Chiesa locale all'interno del continente africano?

La Chiesa del Senegal e l'arcidiocesi di Dakar sono impegnate in prima linea su questo fronte. La Chiesa contribuisce all'edificazione della pace nel Paese, preoccupandosi della formazione degli uomini nelle scuole, ma anche di alleviare le sofferenze attraverso ambulatori e dispensari e il lavoro delle Caritas diocesane. Noi lottiamo anche perché in seno alle nostre comunità cristiane i laici siano meglio formati come testimoni di Gesù Cristo, perché possano impegnarsi personalmente o comunitariamente. Li incoraggiamo a non trascurare la politica e a impegnarsi nei partiti, per poter avere nel Governo e nel Parlamento del Paese ministri e deputati cattolici. Ma non basta che siano presenti, occorre anche che abbiano una solida formazione in materia di dottrina sociale della Chiesa, che permetta loro di essere testimoni di Gesù Cristo nelle istanze decisionali del Paese.

Ci sono altri ambiti d'intervento?

Lavoriamo molto sulla pastorale delle vocazioni per poter avere sempre più sacerdoti, religiosi e religiose nelle nostre Chiese e altrettanti disponibili a contribuire alla missione universale. Ci sono infatti dei senegalesi che partono verso altri Paesi per testimoniare il vangelo.
Vorrei inoltre sottolineare l'importanza del dialogo interreligioso. In Senegal i cattolici rappresentano il 5 per cento della popolazione; i musulmani sono tra il 90 e il 92 per cento. Noi dobbiamo essere sempre attenti a mantenere buone relazioni con questo mondo. Esse già esistono e grazie a questa pastorale del dialogo vogliamo rafforzarle affinché i capi musulmani e noi vescovi possiamo lavorare insieme e non soltanto comprenderci bene.
Mi è accaduto di prendere la parola con l'associazione degli imam del Senegal per invitare la popolazione ad andare a votare alle elezioni e compiere il dovere elettorale nella pace, nel rispetto reciproco. L'appello è stato ben recepito. Siccome ci sono difficoltà a livello sociale, noi proviamo a vedere con qualche capo religioso musulmano quali passi intraprendere presso i principali responsabili affinché la pace del Paese sia preservata. Per la pace e lo sviluppo puntiamo a una più intensa collaborazione con le altre religioni, in particolare con i musulmani.

Dunque è il dialogo interreligioso la bussola che orienta l'attività pastorale della Chiesa senegalese e in particolare quella di Dakar?

Quando la mia nomina è stata annunciata ho ricevuto per telefono, per lettera, e anche attraverso visite personali, migliaia e migliaia di congratulazioni. Tutti sembravano gioirne:  sia i musulmani che i cristiani. Attraverso la mia persona, infatti, non è stata solamente la Chiesa locale a essere onorata ma il Paese intero. Del resto attraverso la mia persona il Papa ha dimostrato la sua fiducia e la sua stima ai cattolici senegalesi ma anche a tutto il Paese. Dunque noi non dobbiamo deluderlo, anzi siamo chiamati a continuare a mostrare una Chiesa fedele a Cristo e pronta a testimoniare il vangelo. Da parte sua, l'intera popolazione deve testimoniare di saper vivere in pace.



(©L'Osservatore Romano 3 agosto 2008)
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