Intervista all'arcivescovo di Kerkûk dei Caldei Louis Sako

Occorre agire per consentire
ai cristiani di vivere in Iraq


di Francesco Ricupero

"Ben vengano le espressioni di solidarietà da parte dell'Unione europea e di altri Paesi che si sono detti disponibili a ospitare i rifugiati iracheni, ma a noi interessa che i cristiani rimangano qui in Iraq. Non possiamo permetterci di svuotare il Paese di tutte le minoranze etniche. I cristiani fanno parte della storia dell'Iraq e dobbiamo fare di tutto per permettere a queste persone di vivere  in  pace e in serenità". Sono le  parole dell'arcivescovo di Kerkûk dei Caldei, monsignor Louis Sako, intervistato da "L'Osservatore Romano" sulla vicenda dei cristiani iracheni.

Arcivescovo Sako, lei è soddisfatto che l'Ue abbia deciso di accogliere i diecimila rifugiati iracheni ritenuti particolarmente vulnerabili?

Da un lato siamo contenti poiché migliaia di persone, tra cui molte donne e bambini, potranno usufruire di cure mediche e assistenza offerte dai Paesi europei, dall'altro, invece, l'Iraq si svuota e si indebolisce di una presenza millenaria, come quella cristiana. Qui non rimarrà più nessuno. Non mi sembra una buona idea incoraggiare e accogliere i cristiani fuori dall'Iraq. Occorre, invece, cambiare metodo e strategia politica. È qui, in Iraq, che bisogna creare il clima giusto per consentire a migliaia di persone di continuare a vivere in pace come avveniva qualche anno fa. L'Iraq è un mosaico di culture, di religioni e di etnie differenti. Queste diversità devono continuare a convivere. Il perdono, la pace, la convivenza e l'accoglienza sono punti cardine della storia di questo Paese.

Il segretario della Comece ha lanciato un appello all'Ue e ai suoi Paesi membri a sollevare, nei loro contatti con il Governo iracheno, il tema cruciale della protezione dei cristiani. Pensa che l'Europa e la comunità internazionale possano aiutare l'Iraq?

Senza dubbio. Solo con l'interessamento degli altri Paesi e con il loro coinvolgimento l'Iraq potrà uscire da questa fase critica. Il mondo intero non ci deve abbandonare. È opportuno che le delegazioni straniere vengano in Iraq a parlare con i nostri politici, altrimenti la gente si sente abbandonata a se stessa. Le visite, i convegni, i summit:  tutto serve alla causa irachena. Anche la Chiesa potrà giocare un ruolo determinante per raggiungere un equilibrio nel Paese.

Cosa pensa del ritiro delle truppe Usa dall'Iraq?

Nel patto siglato con gli Stati Uniti qualche settimana fa vi sono aspetti positivi e altri che potrebbero creare qualche problema, ma comunque è stato fatto un passo avanti. Se gli Stati Uniti se ne vanno adesso l'Iraq rischia di sprofondare nel baratro. Potrebbe esplodere una guerra civile difficile da arginare. Il Paese è ancora profondamente diviso al suo interno. Non si può parlare di unità nazionale e anche il Governo ne è cosciente. Ciascuno cerca di conquistare maggiore influenza nel proprio territorio e anche Baghdad, che dovrebbe rappresentare il simbolo dell'unità, è in realtà suddivisa in settori in cui predomina una fazione ben precisa. Occorre, invece, dialogare e progettare in maniera civile il futuro del Paese. La violenza non risolve il problema, ma lo complica sempre di più. Noi cristiani siamo accusati di essere assimilati agli Stati Uniti, ma questo non è vero. Cerchiamo, invece, di aiutare il Governo e il parlamento iracheno a riprogettare il Paese aiutando la popolazione a dimenticare il passato. Per semplificare il dialogo e accompagnare i responsabili politici a preparare l'avvenire occorre l'aiuto e il coinvolgimento di tutta la comunità internazionale.

Com'è in questi giorni la situazione a Mossul e a Kirkuk? Come si prepara al Natale la comunità cristiana?

Al momento, la situazione è abbastanza buona e questo può consentire ai rifugiati di fare ritorno nelle loro case. Ci sono centinaia di abitazioni vuote e abbandonate, così come i negozi che aspettano il ritorno dei cristiani. Siamo ormai prossimi al Natale e quale miglior momento se non riunirci e stare tutti insieme ad aspettare la nascita di nostro Signore Gesù? Anche i nostri fratelli musulmani attendono il ritorno della comunità cristiana. Quando i musulmani si trovano in situazioni di bisogno vengono a chiederci aiuto e noi non esitiamo. Le garantisco che in Iraq c'è sempre stato un grande spirito di convivenza e di reciproco rispetto. Nei giorni tragici che hanno segnato la nostra comunità - l'uccisione di monsignor Rahho, gli atti di violenza e le devastazioni ai danni dei cristiani - abbiamo sempre ricevuto la solidarietà e l'incoraggiamento dei musulmani. Verso la metà di dicembre, nella sede dell'arcivescovado di Kirkuk, si svolgerà una giornata di preghiera e di riflessione che vedrà la presenza non solo di noi cristiani, ma anche dei capi di altre religioni. Sarà una giornata di preghiera nel corso della quale saranno letti inni e salmi e chiederemo a Gesù di aiutarci a vivere insieme, a dialogare e a preservare Kirkuk e l'Iraq dalla violenza. Questo dimostrerà ancora una volta lo spirito di convivenza e di pace che si respira in Iraq. Certamente, non possiamo sottovalutare le frange terroristiche il cui obiettivo è quello di incutere paura ai cristiani e di rompere il buon legame che ci unisce alle altre religioni presenti nel Paese. Ma con la preghiera comune possiamo attenuare la loro pericolosità.

Come sarà l'Iraq dei prossimi anni?

Non sono pessimista, ma c'è ancora molto da fare. Per raggiungere la stabilità e la pace in Iraq, tutti dobbiamo rimboccarci le maniche e contribuire alla causa. La Chiesa deve essere protagonista, dovremo continuare la nostra missione senza tentennamenti. Dialogo e pace sono le uniche armi in nostro possesso. È vero, vi sono profonde divisioni che segnano ancora oggi l'Iraq e il pericolo di una guerra civile, se il Paese sarà abbandonato a se stesso, potrebbe essere serio, ma confidiamo nel Signore e nel buon senso della gente.



(©L'Osservatore Romano 03 dicembre 2008)
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