Le auspica l'arcivescovo Monsengwo Pasinya in vista del sinodo per l'Africa

Soluzioni condivise
dei conflitti armati ed economici


di Giampaolo Mattei

Il 2009 è l'anno dell'Africa. Con l'ormai prossimo viaggio e il sinodo di ottobre il Papa intende porre all'attenzione del mondo speranze e contraddizioni del continente, mettendo sotto le luci dei riflettori i massacri e le gravissime situazioni di povertà.
Dunque pace, giustizia e riconciliazione per l'Africa. Ma subito. E che le soluzioni condivise dei conflitti armati e delle lotte per lo sfruttamento delle risorse minerarie non siano fuochi di paglia ma si fondino sul diritto internazionale. Il secondo sinodo africano - in Vaticano dal 4 al 25 ottobre - ha proprio il compito di dare una risposta a queste urgenti attese ecclesiali e politiche. Non nasconde di puntare alto l'arcivescovo congolese Laurent Monsengwo Pasinya, conosciuto in Africa come un uomo sempre in prima linea laddove pace e giustizia sembrano solo sogni. Fedele al significato del suo nome (Monsengwo vuol dire "nipote di un capo tribù") nel 1992 ha persino assunto pro tempore la responsabilità di presiedere la conferenza nazionale chiamata a guidare la Repubblica Democratica del Congo nel complicato passaggio politico. Arcivescovo di Kinshasa, è stato il primo africano a essere segretario speciale di un sinodo, quello recente sulla Parola di Dio.
Nell'intervista a "L'Osservatore Romano" l'arcivescovo affronta i temi cruciali dell'attualità africana, nell'analisi del primo sinodo del 1994 e nella prospettiva della prossima assemblea.

Perché un secondo sinodo africano?

Il primo sinodo ne esigeva un secondo per approfondire la questione della giustizia e della pace, già al centro dell'assemblea del 1994 come quarto punto fondamentale del programma di evangelizzazione. Lo si legge anche nell'esortazione apostolica Ecclesia in Africa:  giustizia e pace nelle relazioni interne di ogni Paese, tra le nazioni e nell'ambito della comunità internazionale. Nel quadro generale dell'Africa, purtroppo, ci sono tanti conflitti. Non solo armati ma anche di natura economica. Come abbiamo affermato nel primo sinodo, il conflitto comincia sempre laddove un diritto viene violato, dove non c'è giustizia. Ecco la questione scottante da affrontare nel secondo sinodo africano:  individuare insieme le strade che portano alla pace, alla giustizia, alla riconciliazione.

Com'era la situazione nel 1994 e cosa è cambiato in questi anni?

Proprio alla vigilia di quel primo sinodo ci trovammo di fronte al genocidio in Rwanda che ha provocato, a catena, una serie di situazioni sconvolgenti nella regione dei Grandi Laghi. Nel 1994 i Paesi africani in guerra erano tredici. Non tutto, però, era nero:  proprio mentre si scatenava il genocidio in Rwanda una luce si accendeva in Sud Africa. Una nazione stava rinascendo con una nuova democrazia. Ma quanto bisogno di riconciliazione autentica in Congo, Rwanda, Burundi, Uganda e nello stesso Sud Africa con la commissione per la giustizia e la riconciliazione appositamente istituita da Pretoria in quegli anni! Davanti a conflitti che sembrano non finire mai c'è oggi ancor più bisogno di riconciliazione, di giustizia nel rispetto del diritto internazionale e nazionale.

Quale immagine di Africa è uscita dal primo sinodo?

La finalità dell'evangelizzazione e della missione in Africa è costruire la Chiesa-famiglia di Dio. Che significa? Far divenire le famiglie chiese domestiche e le società vere famiglie. Quest'obiettivo dell'evangelizzazione vuole un'Africa pacificata a tutti i livelli. È su questo punto che il Papa ci chiede ora una riflessione approfondita.

A che punto è questo progetto della Chiesa in Africa come famiglia di Dio?

Il sinodo è il posto giusto per una valutazione e per apportare correzioni. Puntiamo a una realtà di comunione dove tutti si sentano fratelli; dove non ci siano nemici e tutti si sentano riconciliati come Cristo ci chiede di fare. Il progetto di Chiesa-famiglia di Dio e quanto emerso nel primo sinodo ci hanno portato automaticamente all'urgenza di una seconda assemblea.

Qual è il quadro del secondo sinodo?

È un quadro complesso. C'è la minaccia di ripresa della cosiddetta "prima guerra mondiale africana", con tutto ciò che significa una tragedia di tale portata, come abbiamo visto in Rwanda. È un conflitto teoricamente terminato, ma che di fatto continua con evidenti strascichi. Ci sono le crisi in Darfur, in Uganda, in Ciad, nella Repubblica Centroafricana. Rispetto al 1994 le condizioni generali di guerra sono cambiate, ma non sono scomparse. E dove c'è guerra c'è urgente bisogno di riconciliazione, di pace, di giustizia. Non si tratta solo di mettere il silenziatore alle armi. Serve una pace della mente e del cuore.

Il sinodo cosa può fare in concreto?

Il sinodo viene a proposito perché ora è il momento giusto per affrontare di petto la questione della riconciliazione. Nel 1994 abbiamo dato vita a un'assemblea di speranza, di risurrezione per l'Africa. Sì, volevamo proprio dare speranza ai nostri popoli perché si rialzassero in piedi con la forza del Vangelo. Le guerre e le massicce violazioni dei diritti della persona esigono riconciliazione e perdono, nella giustizia e nella verità, per creare una pace duratura.

E se diamo uno sguardo al suo paese cosa vediamo?

La Chiesa cattolica nella Repubblica Democratica del Congo ha sempre affermato che bisogna affrontare i problemi di fondo. In genere si trattano solo i fenomeni più eclatanti, non si va mai alla radice. Ora, data la ricorrenza degli stessi problemi, oggi come ieri, c'è l'evidenza che o sono impostati male o non sono affrontati in modo da poterne cogliere e comprendere completamente le cause. Così la soluzione si allontana.

Il sinodo può aiutare a trovare soluzioni?

Sì, può mettere a fuoco le situazioni particolari chiamando le cose con il loro nome. La guerra nel mio paese è iniziata con un conflitto che ha trasferito da noi i problemi di due nazioni vicine, venute a combattersi in territorio congolese e giunte persino a mettere al potere qualcuno di loro gradimento. L'integrità territoriale, la sovranità della Repubblica Democratica del Congo sono state violate, calpestate. Ingiustizie simili finiscono per scatenare guerre. Ciò che sta avvenendo è conseguenza del mancato rispetto del diritto delle nazioni, delle frontiere internazionalmente riconosciute. Si è voluto usare il linguaggio della guerra, imbracciare le armi invece di ricorrere, come dovrebbe essere, al dialogo e ai canali della giustizia e del diritto. Con le armi in pugno si è creato un insieme di situazioni così complesse che, temo, continueranno a risvegliare un odio atavico fra le parti in causa, innescando violenze senza fine.

Qual è il ruolo della Chiesa?

La Chiesa, come famiglia di Dio, ha il dovere di intervenire a voce alta per dire alle parti che la carità cristiana è condizione irrinunciabile per intraprendere il cammino della riconciliazione. Non ci sono alternative, serve una riconciliazione vera, che avvenga nel rispetto della giustizia e del diritto e garantisca una pace duratura. Il sinodo, poi, potrà anche approfondire problemi di cui si parla poco.

Quali sono questi problemi?

Ci sono grandi questioni economiche. Le risorse naturali del mio paese potrebbero dar da mangiare al mondo intero! Ma se non si fa attenzione queste stesse risorse possono divenire un inferno per l'umanità. Nella Repubblica Democratica del Congo abbiamo vasti giacimenti di uranio e con l'uranio si può fare anche la bomba atomica. Se le ricchezze non vengono gestite saggiamente, con discernimento, si potrebbe giungere a una proliferazione delle bombe atomiche nel mondo. Potrebbero innescarsi guerre all'infinito. È decisivo che lo sfruttamento delle risorse naturali del paese avvenga secondo il diritto internazionale, le regole del commercio internazionale. E che nessuno venga più nel mio paese a scatenare guerre per procura. Solo il disordine consente di sfruttare le risorse senza regole e senza scrupoli.

Come si deve reagire?

Faccio un esempio di ciò che sta accadendo ora nel mio paese. È stato da poco trovato il petrolio nella zona di frontiera con l'Uganda. C'era già il business dell'oro, ora è stato trovato anche il coltan (la colombite-tantalite, minerale strategico per fare razzi e telefoni cellulari, richiestissimo dall'industria tecnologica) in una quantità enorme. Gli interessi economici in gioco spingono alcune persone a sfruttare queste risorse così ambite in modo sfrenato. Per loro il sistema più redditizio è mettere in piedi il traffico di armi e scatenare guerre che non sono tribali, come si usa dire, ma scaturiscono da interessi economici. Un fiume di denaro con scambio di armi per il coltan. Questo circolo vizioso prevede che ci sia violenza e impedisce una crescita equa, una giusta distribuzione delle ricchezze con un'attività conforme alle leggi dell'organizzazione mondiale del commercio.

La Repubblica Democratica del Congo conosce da troppo tempo giorni difficili.

Nel mio paese ci sono quattrocento tribù. Solo sette sono in guerra. Lo scontro è nella parte orientale. L'equilibrio per questo motivo è instabile, il governo è coinvolto nei problemi dell'est e dunque non ha la possibilità di occuparsi come dovrebbe di quanto avviene a ovest. Eppure tutto il paese viene descritto in fiamme.

Colpa dei mass media?

I mass media diffondono l'idea che Africa vuol dire tragedia. Non è così! I media hanno la grande responsabilità di informare in modo equilibrato, ma soprattutto rispettando la verità così che ci si possa rendere conto di quello che accade. Prerogativa dei media dovrebbe essere la presentazione obiettiva della realtà, per evitare di stravolgere completamente la verità sull'Africa.

Ma oggi l'Africa è conosciuta solo per le sue tragedie. Il sinodo può contribuire a cambiare questa mentalità?

L'Africa non è solo disordine! Ci sono conflitti, è vero, ma tante aree vivono in pace. Prendiamo l'Africa occidentale:  a parte il caso, un po' difficile ma che fa ben sperare, della Costa d'Avorio, è un'area in pace come tutta l'Africa nera. I problemi non mancano. Ma c'è una fondata speranza e il sinodo la alimenterà.
Si tratta, allora, di entrare nelle cronache non solo per le sue tragedie, ma anche in positivo. È un continente dimenticato dai mass media, dalla politica, dal potere economico. Non suscita più l'interesse di un tempo. Nel periodo coloniale interessava per le materie prime, poi è arrivato il tempo delle strategie con la guerra fredda e la decolonizzazione. Ora la crisi economica finisce per marginalizzare e indebolire ancor di più l'Africa.

Quali sono i rapporti con la religione tradizionale africana e con l'islam?

I valori della religione tradizionale non sono da rigettare a cuor leggero perché costituiscono l'identità del mondo religioso africano. Vanno, piuttosto, osservati alla luce del Vangelo, per esaminare cosa respingere e cosa invece mantenere, in un discorso di inculturazione non ancora giunto a compimento. È vero, ci sono persone che al mattino vanno a messa e la sera dallo stregone. Ma qualcosa del genere avviene anche in occidente, con la diffusione di pratiche e credenze nient'affatto cristiane. Riguardo l'islam, i rapporti sono più complessi, non sempre felici e rassicuranti.



(©L'Osservatore Romano 4 marzo 2009)
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