A colloquio con il compositore e cantante israeliano Idan Raichel

L'arte che aiuta a dialogare


di Silvia Guidi

"Minee Koleh Mibehi, una canzone sui soldati che tornano a casa dalla guerra, può parlare di uomini vissuti cinquecento anni fa, ma anche dei ragazzi che sono venuti ieri a salutarmi dopo il concerto, allo stesso modo. Per questo prendo spesso spunto dalla Bibbia, perché racconta storie senza tempo, racconta il dolore, l'amore, la speranza, sono frammenti di vita che parlano del passato esattamente come del presente". Idan Raichel, 31 anni, sorriso contagioso, capelli rasta e chamsa sulla maglietta nera (la chamsa o hamsa è il ciondolo a forma di mano stilizzata, diffusissimo in Israele, che secondo la tradizione ha il potere di difendere chi lo porta dall'influsso del male) ama parlare del suo lavoro, del suo amore per la musica e per lo straordinario melting pot del suo Paese; nel suo repertorio ci sono liriche tratte dall'Ecclesiaste (Eyt Likhyot, Eyt lamut, un tempo per vivere, un tempo per morire) e dal Cantico dei Cantici (come Hinekh Yafa) ma anche testi in amarico, in swahili e in arabo. A chi gli chiede le ragioni del suo impegno e le radici profonde della sua ispirazione ripete che il Medio Oriente non è solo un nodo gordiano di conflitti, è anche un luogo di grande ricchezza umana e culturale, un crocevia di tradizioni, etnie, sensibilità e diversi modi di vedere il mondo che l'arte, più che la politica, rende capaci di dialogare fino al punto di dar vita a un progetto comune; il suo lavoro ne è la prova. Compositore, tastierista, produttore e - nel suo ultimo album - cantante, Idan Raichel è esploso sulla scena musicale nel 2002 rivitalizzando il pop israeliano con una suggestiva miscela di musica etiope tradizionale, poesia araba, canti yemeniti, cantillazione ebraica e ritmi caraibici, facendo dialogare sul pentagramma e sul palco culture lontane.
Il primo album, The Idan Raichel Project, è stato il più grande successo discografico mai registrato in Israele da un artista locale, con più di centocinquantamila copie vendute; un risultato imprevisto per un esordiente. Il secondo album, Mimaamakim (il salmo 130, in latino De Profundis) ha replicato il successo dell'esordio portando Idan e il suo gruppo di musicisti a esibirsi in giro per il mondo, dall'Europa agli Stati Uniti, dall'Australia all'India, fino al concerto del 3 settembre scorso in piazza del Campidoglio a Roma, applaudito dal pubblico e osannato dalla critica. In questi giorni Raichel è di nuovo in Italia (una settimana fa a Firenze e a Modena, il primo giugno sarà a Trento, mentre una nuova data romana è prevista per il 28 del mese prossimo) per presentare il suo ultimo lavoro, Within my walls; un disco nato on the road durante l'ultima tournée in stanze di hotel, camerini di backstage e case di amici musicisti prima di essere inciso nello studio di registrazione di Tel Aviv di Gilad Shmueli, impreziosito dal lavoro di un'orchestra di ventiquattro elementi e arrangiato da Assaf Dar con sonorità che si ispirano alla chitarra innovativa e inquieta di Nick Drake.

Quando ha deciso di dedicarsi alla musica a tempo pieno?

La vita lo ha deciso per me, amo la musica e non riesco a smettere di comporre e suonare. Ho iniziato da piccolo con l'accordeon, sono cresciuto in un ambiente dove si ascoltava musica di ogni genere, dal gipsy al tango argentino, dai valzer francesi alla musica folk israeliana; questo mi ha "aperto le orecchie" facendomi apprezzare una grande varietà di linguaggi.

Poi l'incontro con il mondo musicale etiope.

Crescendo ho continuato ad ascoltare di tutto, da Miles Davis a Oum Kalthoum, mentre al liceo studiavo jazz. Per un certo periodo sono stato il tutor di alcuni ragazzi provenienti dall'Etiopia e grazie a loro ho scoperto la musica di Mahmoud Ahmed e Aster Aweke. Come tutti in Israele, a 18 anni ho iniziato il servizio di leva; suonando nella band dell'esercito ho conosciuto molti musicisti che in seguito avrebbero lavorato con me.

Facendo nascere The Idan Raichel Project.

All'inizio del 2000 ho deciso di provare a comporre e produrre qualcosa che mi rispecchiasse pienamente. Ne è nato un lavoro a cui hanno preso parte settanta artisti, in una sintesi di diversi elementi di musica popolare mediorientale e africana.

C'è molto gioco di squadra nei suoi dischi. In studio di registrazione, ma anche dal vivo, vige la "regola del semicerchio".

È il nostro modo di presentarci al pubblico:  al centro del palco disposti a semicerchio ci sono i cantanti e i musicisti, mentre io suono dietro la mia tastiera. Ogni artista che lavora con me deve avere visibilità, ogni stella deve avere la possibilità di brillare. Durante le mie tournée ho avuto modo di conoscere e coinvolgere nel progetto musicisti eccezionali provenienti dall'India, dall'Africa, dal Brasile e da tutti i Paesi europei; ormai la mia band non è più solo israeliana.

Il  titolo  del  suo  ultimo  album,  Within  my walls, parla di mura e confini. Ogni riferimento al suo Paese è puramente casuale?

Naturalmente ho una posizione politica precisa circa la situazione nel mio Paese, ma preferisco non esprimere il mio pensiero perché per il momento rappresento tutti i musicisti e i cantanti del progetto, dentro e fuori Israele. Possiamo avere punti di vista differenti ma abbiamo comunque un'intesa a livello artistico e non voglio che le differenze di opinioni politiche si frappongano fra noi.

Come si può concretamente creare un clima di collaborazione pur parlando linguaggi culturali così diversi?

La nostra capacità di vivere in pace l'uno con l'altro dipende dalla nostra capacità di imparare ad apprezzare e rispettare le nostre differenze. La via del futuro non è cercare di cambiare il tuo vicino, ma accettarlo così com'è e accettare che tutti cercano le stesse cose nella vita:  pane, acqua, spirito, bellezza, rispetto e amore. In questo non siamo diversi.

Cosa ama di più del suo ultimo album?

Aver avuto l'opportunità di collaborare con musicisti di grande valore. Potrei fare molti esempi.

Qualche nome?

Sono felice di aver lavorato con Marta Gómez; ha scritto lei stessa le parole di Todas las palabras. Al ritorno in Israele oltre alle percussioni di Franco Pinna ho solo aggiunto i flauti, il Tar e l'Oud, per rendere il brano più vicino alle mie sonorità. Poi c'è la straordinaria voce di Mayra Andrade, che canta nella lingua creola di Capoverde. Mayra sa sempre dove sta andando, ma ha sempre presente da dove viene. Penso che anche altri giovani suoi coetanei possano fare del rap o qualsiasi altra musica, ma lei ama ancora la musica con cui è cresciuta. Le due canzoni di Mayra sono state registrate in una sala conferenze di un hotel a Parigi dove abbiamo improvvisato uno studio di registrazione. Un'altra voce eccezionale è quella di Somi, americana di origine africana.

Che ha scelto di cantare in swahili.

L'album si chiude con Maisha, una ballata interpretata da Somi che canta il bisogno dell'uomo di essere salvato; nel testo racconta la storia di una ragazza che ha perso i genitori e chiede aiuto alla luna, supplica il cielo che qualcuno arrivi a salvarla. Durante la registrazione Somi si è totalmente immedesimata nel racconto delle conseguenze della guerra e della violenza sul suo popolo; per lei non è facile cantarla senza piangere.

Nella stessa canzone, il dramma di tanti Paesi africani ma anche l'impatto della Shoah sulla famiglia Raichel.

La melodia ricorda una canzone ebraico-polacca  ed è molto influenzata dai canti che tante volte ho sentito a casa di mia nonna. I miei vengono dall'Europa dell'est e sono immigrati in Israele; tutti nella mia famiglia amavano la musica,  ma nessuno aveva un talento speciale o sapeva suonare. La linea melodica di Maisha è molto semplice, per questo arriva dritto al cuore.



(©L'Osservatore Romano 14 maggio 2009)
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