A colloquio con l'arcivescovo Bruguès, segretario della Congregazione per l'Educazione Cattolica

Sacerdoti preparati
sono un bene per la Chiesa e la società


di Nicola Gori

Un testo "breve, incisivo e molto chiaro" sulla formazione dei candidati al sacerdozio potrebbe essere pubblicato al termine dell'Anno sacerdotale. L'iniziativa è allo studio della Congregazione per l'Educazione Cattolica, che a questo scopo ha intenzione di proporre nei prossimi mesi la convocazione della Commissione interdicasteriale permanente che si occupa della formazione dei candidati agli ordini sacri. A riferirlo è l'arcivescovo Jean-Louis Bruguès, segretario del dicastero, che in questa intervista al nostro giornale sottolinea la centralità dell'opera educativa nella missione della Chiesa alla luce dell'Anno sacerdotale.

Nella Caritas in veritate Benedetto XVI invita a promuovere un sempre più ampio accesso all'educazione per tutti i popoli. In che modo la Congregazione si sente interpellata da questo richiamo?

Possiamo fare anzitutto tre osservazioni. La prima:  il Papa pone l'educazione all'interno del principio di solidarietà. Nell'enciclica Benedetto XVI ricorda i grandi principi della dottrina sociale della Chiesa:  sussidiarietà e solidarietà. L'educazione è dunque una questione di solidarietà fra i diversi settori e le diverse generazioni di una società. La seconda considerazione è che un'educazione presuppone un'istruzione, ossia un sapere da trasmettere. Il Papa torna in diverse occasioni su questo concetto del sapere. Per esempio, al numero 30, afferma:  "La carità non esclude il sapere anzi lo richiede". Senza un sapere la carità è inefficace. Essa non è solo una questione di buoni sentimenti. Bisogna anche trasformare le cose attraverso il sapere. La terza osservazione è che noi cristiani crediamo a una formazione completa della persona. Si parla di formazione integrale, la quale presuppone una visione globale dell'uomo nelle sue diverse dimensioni.
Alla luce di queste considerazioni, il nostro dicastero si trova doppiamente incoraggiato; prima di tutto, a valorizzare il sapere e la cultura. Noi stiamo sviluppando nelle diverse istituzioni che dipendono dalla Congregazione quella che chiamerei una cultura dell'eccellenza, e nell'enciclica troviamo un incoraggiamento in questo senso. In secondo luogo, noi poniamo l'enfasi sulla formazione integrale della persona, in particolare sulla dimensione spirituale, che rischia di essere dimenticata in una società secolarizzata.

Anche nel messaggio al vertice del g8 all'Aquila il Papa ha parlato dell'importanza dell'educazione, sottolineando che essa è condizione indispensabile per il funzionamento della democrazia, per la lotta contro la corruzione, per l'esercizio dei diritti politici e sociali. Quale contributo può offrire la Chiesa in questo senso?

La nostra Congregazione ha la responsabilità nei confronti di 1.200 università cattoliche presenti in tutto il mondo, di 2.700 seminari - la maggior parte di quelli esistenti - e di 250.000 scuole cattoliche. La Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli è a sua volta responsabile per l'Africa e l'Asia. Da ciò emerge che gli istituti rappresentano una possibilità per la Chiesa, sebbene non tutti ne siano sempre convinti. Essi sono ambiti naturali in cui la Chiesa partecipa all'elaborazione della cultura di un determinato Paese. Non vi è miglior modo d'inserirsi nella cultura di un Paese, se non tramite la scuola e l'università. Costituiscono dunque una possibilità per la Chiesa e anche per la società, perché questo grande sforzo pedagogico che compiamo da secoli lo mettiamo al servizio della comunità umana.

Con quali finalità?

Gli obiettivi sono due. Il primo è ricordato nella lettera di indizione dell'Anno sacerdotale:  rendere al prete il gusto del suo sacerdozio e aiutarlo a ritrovare un'identità più chiara di quanto appaia in diversi Paesi del mondo. Sembra che, in certi contesti culturali, la fisionomia del religioso e della religiosa sia più evidente di quella del sacerdote diocesano. Ecco una magnifica occasione per riscoprire la natura del sacerdote e quanto abbiamo bisogno di lui. Per questo, il secondo obiettivo è quello di riscoprire il posto del sacerdote all'interno delle comunità cristiane. Quest'anno pastorale non è dunque solo per i sacerdoti, ma per l'insieme della comunità cristiana, per l'insieme della Chiesa.
Questa duplice dimensione interpella la Congregazione, in quanto responsabile della formazione dei seminaristi. Dobbiamo far comprendere ai seminaristi questo messaggio:  siete stati scelti, è un onore, siate felici di essere sacerdoti. Vorrei che il seminario fosse una scuola della felicità dell'essere sacerdoti. Questa è la prima dimensione. E la seconda è che la formazione offerta nei seminari sia la migliore possibile. Quando riceviamo dei vescovi in visita ad limina, il nostro Prefetto ama ripetere:  "Non esitate a mettere al servizio della formazione dei seminaristi i vostri sacerdoti migliori, ne vale la pena".

L'Anno sacerdotale è occasione per rivedere e verificare la formazione dei candidati al sacerdozio nei seminari. Quali iniziative specifiche avete in programma?

Ci saranno attività particolari in occasione di questo Anno. Il nostro Prefetto, in quanto presidente della Commissione interdicasteriale permanente per l'ammissione agli ordini sacri, ha intenzione, proprio quest'anno, di convocarla. Lo scopo è di studiare la possibilità, al termine dell'Anno sacerdotale, di pubblicare un breve testo, incisivo, molto chiaro, sulla formazione dei candidati al sacerdozio.

Di recente il Papa ha invitato a superare il dualismo tra la concezione sacramentale-ontologica e la concezione funzionale-sociale del sacerdozio. Qual è la strada per conciliare queste due dimensioni?

Mi pare che nella Chiesa le situazioni possono essere molto diverse. Ci sono dei Paesi dove si sottolinea soprattutto la dimensione sociale, il ruolo sociale del sacerdote:  ho visto questo in Africa, in America Latina, in Corea. Il sacerdote svolge un ruolo non soltanto in seno alla comunità ma anche all'interno della società. Mentre si nota nelle società molto secolarizzate, una diminuzione di questo ruolo sociale del sacerdote. Con l'eccezione, forse, dell'Italia, dove trovo che, anche se la società si è secolarizzata, la Chiesa ha saputo rimanere popolare e restare molto presente nella vita sociale come nella vita politica. Dunque direi che questi due aspetti creano necessariamente una tensione, e che questa tensione è benefica. È normale che il sacerdote abbia un ruolo sociale, poiché egli è un pastore:  è a capo di una parte, di una porzione del popolo di Dio, come ha detto il concilio Vaticano II. A tale titolo, dunque, ha una visibilità sociale. Ed egli è anche mediatore tra il cielo e la terra:  manifesta Cristo, agisce in persona Christi. Dunque, ritengo sia necessario che questa tensione sia mantenuta ovunque, in quanto benefica per il sacerdozio e per il popolo cristiano. Per questo bisogna anzitutto che la comunità dei fedeli si senta responsabile del sacerdote che la guida. Quando ero vescovo di Angers e nominavo un parroco, andavo a presentarlo ai fedeli:  "Lo affido a voi". È necessario che il sacerdote sia sostenuto da una comunità di fedeli. In secondo luogo, occorre che ogni presbitero sia sostenuto dalla comunità degli altri sacerdoti. Dobbiamo insistere sulla dimensione fraterna del presbyterium. Troppi sacerdoti soffrono di solitudine e quindi rischiano di trascurare l'uno o l'altro di questi aspetti. Un sacerdote è un amico, un fratello in seno alla grande famiglia rappresentata dal presbyterium. E poi, per quanto concerne la Congregazione, c'è un terzo cammino:  il seminario. Esso è il luogo in cui si impara, teologicamente, a ordinare i due aspetti del sacerdozio.

Si avverte il bisogno di rivedere l'impostazione dell'educazione nelle case di formazione?

Una buona formazione è quella capace di adattarsi all'evolversi e ai cambiamenti della società. Ripeto quanto ho già detto in altre occasioni:  è vero che i giovani sono diversi da noi, ma bisogna accettarli e farlo con generosità. C'è bisogno di generosità nell'accogliere le nuove generazioni e anche di discernimento:  le due cose vanno insieme. Si tratta di discernere in loro ciò che dobbiamo incoraggiare e ciò che dobbiamo correggere. Ho notato che una buona parte dei giovani che si presentano nelle case di formazione in Paesi come l'Italia, la Spagna, la Francia, la Germania, e gli Stati Uniti d'America hanno una buona formazione professionale, talvolta perfino una formazione universitaria di alto livello, ma sono privi di una cultura generale e, soprattutto, manca loro una cultura cristiana. Per questo auspico che all'inizio della formazione dei seminaristi vi sia un anno propedeutico e che la formazione stessa sia adattata alla fisionomia delle nuove generazioni. È bene poi evitare la dispersione delle discipline accademiche e avere invece una visione sintetica della teologia, sottolineando anche il ruolo della filosofia, in particolare la metafisica, come prima preparazione alla teologia.

Secondo le indicazioni del documento del 2008 Orientamenti per l'utilizzo delle competenze psicologiche nell'ammissione e nella formazione dei candidati al sacerdozio, in quali casi si può ricorrere a specialisti in scienze psicologiche?

La risposta è semplice:  quando è necessario. Nel nostro documento abbiamo voluto reagire a due eccessi. Il primo consiste nel dire:  tutti devono sottoporsi a un esame da parte degli esperti di psicologia. Il secondo afferma:  bisogna diffidare della psicologia e degli psicologi. Questo documento ecclesiale, che non è il primo a parlare di psicologia, usa toni molto positivi nei suoi confronti. Talvolta alla Chiesa è stato rimproverato di mostrare una certa distanza, perfino sospetto nei confronti della psicologia. Non è vero. La prova si trova nel documento, dove si afferma che quando è necessario, occorre fare ricorso a degli specialisti. Che cosa vuol dire "quando è necessario"? Quando, come si legge nel documento, "può aiutare il candidato nel superamento di quelle ferite non ancora guarite e che provocano disturbi, sconosciuti nella loro reale portata allo stesso candidato e spesso da lui attribuiti erroneamente a cause esterne a sé, senza avere, quindi, la possibilità di affrontarli adeguatamente".



(©L'Osservatore Romano 19 agosto 2009)
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