A colloquio con il segretario generale della Pontificia Opera Missionaria san Pietro Apostolo

La formazione dei formatori priorità dell'Anno sacerdotale


di Nicola Gori

Non solo la formazione dei seminaristi ma anche quella degli stessi formatori deve essere una priorità dell'Anno sacerdotale. È quanto afferma, in questa intervista rilasciata al nostro giornale, monsignor Jan Dumon, segretario generale della Pontificia Opera Missionaria di san Pietro Apostolo.

La formazione del clero autoctono è una delle priorità della Pontificia Opera Missionaria di san Pietro Apostolo. Avete promosso delle iniziative particolari in occasione dell'Anno sacerdotale?

Non abbiamo iniziative particolari, nel senso che non organizziamo direttamente degli eventi a livello mondiale. Appoggiamo semmai delle iniziative promosse localmente dai vescovi e dai responsabili dei seminari. Sono essenzialmente convinto che bisogna tradurre in termini di formazione lo scopo dell'Anno sacerdotale.

Cosa rappresenta questo anno per i seminari nei Paesi in via di sviluppo?

Prima di tutto rappresenta ciò che è per tutta la Chiesa:  una riflessione sui fondamenti del sacerdozio, un aggiornamento dell'impegno a seguire Cristo nel sacerdozio e a essere preti secondo il cuore di Dio. Le iniziative da prendere devono servire per concentrarsi su questo scopo essenziale. Penso che l'espressione "qualità integrale" sia rivelatrice di ciò che rappresenta l'Anno sacerdotale per i seminari. Non si tratta, cioè, semplicemente di preparare un piano di studi per i seminaristi, come è sempre stato; bisogna farlo con la preoccupazione di pensare non solo alla formazione intellettuale, ma anche a quella spirituale, morale e sociale. Credo che l'Anno sacerdotale sia per i vescovi una buona opportunità per concentrarsi sulla qualità della formazione.

Quali sono le principali forme di aiuto che l'Opera eroga ai Paesi di missione?

La formazione per noi è una priorità. Un docente del seminario deve possedere una disciplina e un'arte per guidare i giovani nel loro cammino spirituale e metterli in grado di scoprire ciò che Cristo chiede loro. Deve possedere la dote del discernimento per aiutare il seminarista a diventare un uomo di preghiera, che è cosa differente dal semplice seguire esercizi di pietà. Occorrono, perciò, formatori che accompagnino i giovani in questo cammino. Negli ultimi anni, si nota una maggiore presa di coscienza al riguardo e si organizzano corsi specifici. La formazione è dunque la prima cosa che l'Opera finanzia. Per noi molto importante. Formazione significa anche mettere in grado le diocesi di avere un seminario efficiente. Per questo, cerchiamo di garantire ai vescovi un aiuto costante e sostanziale per le infrastrutture esistenti e per la costruzione di nuovi seminari. Quando si parla di costruzione degli edifici si intende anche mantenimento. Considerando che nei Paesi africani la mancanza di acqua potabile è un grande problema - come lo è il reperimento dell'elettricità - una parte dei nostri finanziamenti si indirizza anche al reperimento di queste risorse. Altri soldi vengono destinati all'acquisto di libri indispensabili per le biblioteche e per l'informatizzazione. Purtroppo, ci sono ancora molti Paesi dove i seminaristi non hanno familiarità con il computer e con internet. Per parlare in termini di bilancio, possiamo dire che la forma principale del nostro intervento è quella del sussidio ordinario, che riguarda il 75 per cento del nostro budget. Riguardo ai seminari maggiori il contributo alle spese generali è di 700 dollari l'anno per ogni seminarista.

Oltre che del clero, l'Opera si occupa anche della formazione dei religiosi?

I religiosi in genere sono di competenza dell'Opera della Propagazione della Fede. C'è però un aspetto sul quale interveniamo:  eroghiamo sussidi per l'anno canonico dei novizi sotto forma di contributo ordinario. Lo inviamo direttamente alle congregazioni religiose per sostenerle nelle spese di formazione dei nuovi membri.

Ritiene necessaria una revisione dei criteri di formazione finora impiegati nei seminari d'Africa e d'Asia?

Sono stato per 17 anni formatore in un seminario maggiore in Congo. Sono convinto che dobbiamo fare ancora un grande lavoro di inculturazione e di contestualizzazione della formazione nei seminari d'Africa e d'Asia. L'inculturazione non va intesa semplicemente come possibilità di utilizzare qualche espressione esteriore nella liturgia, per esempio suonare il tamburo. Penso, invece, si tratti soprattutto di adattarsi meglio alle abitudini di vita di quei Paesi. Non basta imitare meccanicamente l'iter formativo seguito nei seminari in Europa; piuttosto, bisogna cercare ciò che aiuta ad avere preti che siano realmente al servizio del Vangelo nel contesto culturale locale.
In Europa consideriamo normale che il parroco non abbia problemi economici, sia per quanto riguarda l'alloggio, sia per quanto riguarda il necessario per vivere e svolgere la sua attività pastorale. Come si può pensare che in tanti Paesi poveri dell'Africa e dell'Asia, dove non c'è nessun intervento da parte dello Stato, la Chiesa riesca a mantenere i sacerdoti e le sue strutture? È chiaro che il problema di un equilibrio finanziario è molto grande. Non è facile dire alla Chiesa che deve cercare di autofinanziarsi. Come fa a mantenersi in un Paese dove la maggioranza della popolazione ha uno stipendio di due dollari al giorno? Penso che in Europa molti ancora si illudano di risolvere questo problema. D'altra parte, però, non è bene nemmeno avere una Chiesa dipendente in permanenza dagli aiuti internazionali. Di fronte a questa situazione, penso che dobbiamo cercare di formare i giovani a una spiritualità aperta alla disponibilità:  giovani capaci, cioè, di vivere nella dignità e nella gioia anche in situazioni di povertà, ma non di miseria.
Un altro punto su cui lavorare è la necessità di formare alla vita di preghiera, sfruttando la ricchezza della spiritualità esistente nella mentalità e nelle tradizioni africane. È un grande errore pensare che dobbiamo cominciare da zero, perché i popoli dell'Africa e dell'Asia sono in genere molto più religiosi di quelli europei. Hanno un istinto innato al trascendente molto più forte che nell'Europa secolarizzata. A questo proposito vorrei ripetere che troppo spesso la formazione è modellata sull'esperienza europea. Questo è normale, perché il seminario come tale è un'istituzione adottata dalla Chiesa europea dopo il concilio di Trento. Certamente è una cosa buona, ma bisogna aggiornarla continuamente. Penso ci sia ancora un grande lavoro da fare a livello delle Conferenze episcopali regionali, nazionali e continentali.

Crede che l'esempio di san Giovanni Maria Vianney sia applicabile ai seminaristi africani e asiatici?

Lo credo a una condizione:  che sia ben presentata la sua figura, nel suo giusto contesto e dopo aver compiuto un lavoro ermeneutico. È chiaro che non si può trapiantare l'esempio del santo, vissuto nella Francia di tutt'altra epoca, in un altro Paese lontano culturalmente e nel tempo. Se ne possono però mostrare alcuni aspetti che sono validi universalmente:  la sua disponibilità nel seguire la vocazione, la sua insistenza nel raccomandare di accostarsi spesso al sacramento della riconciliazione, la sua dedizione incondizionata ai parrocchiani. Occorre presentare questi aspetti tenendo conto del linguaggio e dei costumi dell'epoca. Sono convinto che nei Paesi di cultura diversa da quella europea si debbano presentare anche altre figure locali di testimoni del Vangelo, affiancandole all'esempio di san Giovanni Maria Vianney. Penso a quanto ha fatto la diocesi di Kinshasa, scegliendo il cardinale Madullah, prima parroco, poi vescovo e cardinale, come modello per il clero. Comunque, la figura del curato d'Ars è molto popolare e vari seminari l'hanno scelto come patrono.



(©L'Osservatore Romano 2 settembre 2009)
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