A colloquio con il regista Walter Salles che il 4 settembre riceve il Premio Bresson a Venezia

Contro il destino
con più domande che risposte


di Luca Pellegrini

Il cinema come movimento interiore. L'immagine, attribuita a Robert Bresson, ben si adatta ai personaggi di Walter Salles:  il giovane Paco di Terra straniera, Josué e Dora nel commovente Central do Brasil, Tonio in Disperato aprile, Ernesto Che Guevara e Alberto Granado ne I diari della motocicletta, o i quattro giovani di Linha de passe, errabondi nella caotica e immensa San Paolo. Il cinquantatreenne regista brasiliano, per questa sua anima nella quale si incontrano e intrecciano la fisicità del movimento e l'interiorità della ricerca, dimensioni per lui inseparabili, riceverà il 4 settembre il Premio Bresson, istituito dalla Fondazione Ente dello spettacolo assieme ai Pontifici Consigli delle Comunicazioni Sociali e della Cultura, consegnato dall'arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente di quest'ultimo, nell'ambito della Mostra del cinema di Venezia. Anche per questa sua decima edizione - forse non è un caso - il riconoscimento ha fatto capolino nel continente sudamericano e, dopo l'argentino Daniel Burman lo scorso anno, ha individuato un personaggio del cinema, come recita la motivazione, "che ha dato una testimonianza importante, per sincerità e intensità, del difficile cammino alla ricerca del significato spirituale della vita".
Salles - nato a Rio de Janeiro, il padre banchiere e diplomatico - è vissuto nell'ambito di una famiglia che ha accolto l'incontro tra culture come una disciplina, come uno strumento di formazione. "Ho avuto un'infanzia nomade - ci dice - e questo spostamento costante ha prodotto da un lato un interesse per ciò che è sconosciuto e dall'altro una continua sensazione di perdita. Mi è mancata soprattutto quella "cultura di strada" tipica del Brasile. Il cinema è stato un'ancora di salvezza, ha reso più sopportabile questo esilio. Avevo dodici anni. Le vite che vedevo sullo schermo erano molto più interessanti della mia".

Ha studiato economia alla Pontificia Universidade Católica do Rio de Janeiro:  quale formazione ha ricevuto durante quel periodo?

C'erano poche possibilità di studiare cinema nell'epoca in cui arrivai in Brasile per l'università, la scelta dell'economia fu una delle possibili soluzioni. I cineasti del cosiddetto Cinema novo brasiliano avevano studiato architettura o diritto. Alcuni si erano spostati a Roma, al Centro sperimentale di cinematografia, come Luís Sérgio Person, uno dei registi brasiliani che più ammiro, o il maestro cubano Tomás Gutiérrez Alea, realizzatore dello straordinario Memorias del subdesarrollo. Devo confessare che sono stato un pessimo studente di economia. Passavo tutto il mio tempo al cinema. La mia formazione come regista è praticamente da autodidatta, il risultato di questa esperienza diretta come cinefilo.

Successivamente, per ben dieci anni, lavora alla realizzazione di documentari:  per quali ragioni?

L'interesse per il documentario nasce dal desiderio di scoprire il Brasile dopo aver trascorso molti anni fuori. Ritorno a questa forma narrativa ogni volta che posso, tra una pellicola di finzione e l'altra. Il documentario è ciò che ci permette di capire come la vita trascorre veramente là fuori e come il più delle volte sia imprevedibile. Central do Brasil e I diari della motocicletta non sarebbero stati possibili se non fossi passato attraverso questa esperienza.

Il viaggio, personale o collettivo, fisico e dell'anima, è sempre stato una costante del suo cinema. Per conoscere la realtà che ci circonda e che diventa storia, per conoscere l'identità personale, il chi si è, il dove si vive. Ma oltre al viaggio, quali sono le esperienze necessarie in una vita?

I film che mi interessano sono quelli in cui il processo di trasformazione dei personaggi rappresenta, in un certo senso, una trasformazione più ampia, quella della società. In Central do Brasil la ricerca del padre è allo stesso tempo la ricerca di un Paese in crisi di identità. La questione dell'identità, sia personale che collettiva, mi ha sempre affascinato nel cinema. Non per nulla è stato proprio Professione:  reporter di Antonioni che mi ha fatto decidere di fare il regista. Per questo il road movie mi pare una forma narrativa attraente:  i personaggi devono lasciare le loro sicurezze per confrontarsi con ciò che ancora non conoscono. Nella vita non è molto diverso.

I protagonisti dei suoi film, oltre a viaggiare, dimostrano che ciò che conta è lo spessore di una persona. Quali sono, per lei, le qualità irrinunciabili?

Ciò che caratterizza i personaggi dei miei film è il fatto che tendono a non accettare ciò che il destino riserva loro. Per questo lottano, per riscrivere la loro storia, qui e ora. Nella maggior parte dei casi, i miei sono personaggi che si pongono domande anziché ottenere risposte.

Neorealismo italiano, Abbas Kiarostami e Ken Loach:  tre riferimenti imprescindibili per il suo cinema.

Spostando la cinepresa dallo studio in strada e avvicinandola ai volti delle persone per tentare di reinventare un Paese all'indomani della guerra, i neorealisti italiani hanno portato nel cinema non solamente una rivoluzione estetica, ma etica. Non ci sarebbe il Cinema novo brasiliano, non ci sarebbe il nuovo cinema iraniano rappresentato da Kiarostami, non ci sarebbero Loach e Trapero senza Rossellini, Pasolini, Visconti o Fellini.

Nel suo cinema nascono drammi e passioni, ideali e delusioni personali che ci aiutano a scoprire qualche cosa di più vero e profondo dell'America Latina.

Diversi miei film sono un tentativo di avvicinare l'identità brasiliana. I diari della motocicletta è stato un tentativo di ampliare questa ricerca allargandola all'intera America Latina. La traiettoria dei giovani Ernesto Che Guevara e Alberto Granado mi ha permesso di tuffarmi in un continente che negli anni Cinquanta era parzialmente sconosciuto e lo rimane ancora. Il fatto è che i problemi strutturali di quegli anni sono ancora, per molti aspetti, identici a quelli di oggi.

Lei ha grande stima per due suoi colleghi messicani, Iñárritu e Cuarón; del cinema argentino di Trapero e Martel ne parla benissimo e con gratitudine, mentre Claudia Llosa ha vinto quest'anno per il Perú l'Orso d'oro a Berlino. Come spiega questo periodo particolarmente felice per il cinema latino-americano?

Prima di tutto è necessario capire che la mia generazione è stata la prima a poter realizzare film con quella libertà che era stata negata nel corso degli oltre venti anni di dittatura militare, non solo in Brasile, ma anche in Argentina, Cile, Messico e altri in Paesi del continente. Poter tornare a fare cinema libero è stato come poter tornare a parlare una lingua che era stata proibita per molto tempo. Quando abbiamo recuperato la possibilità di esercitare il nostro lavoro, lo abbiamo fatto con un entusiasmo incontenibile, come se tutto fosse possibile. Dalla metà degli anni Novanta è iniziata la cosiddetta retomada, la ripresa. Che ci sia poi stata una ripresa anche in Perú e che sorprese siano arrivate anche dall'Uruguay, col film Gigante di Adrián Biniez, sono tutti segnali di vitalità del cinema latino-americano.

Nel 1998 a Berlino Central do Brasil vince il Premio Signis della Giuria ecumenica e nel 2004 a Cannes la medesima giuria premia I diari della motocicletta. Se è facile capire le motivazioni del primo, è più originale la scelta del secondo. Perché, secondo lei, una giuria che soprattutto deve porre attenzione ai contenuti religiosi e spirituali di una pellicola ha deciso di premiare questa storia che racconta le prime esperienze umane e sociali del giovanissimo Che Guevara e dell'amico Granado mentre attraversano il sud dell'America?

Forse per lo stesso motivo che mi ha profondamente segnato leggendo il resoconto del giovane Ernesto e che ho cercato di trasferire sullo schermo. C'è, ne I diari, un chiaro desiderio di capire chi siamo e da dove veniamo, così come si avverte la sua determinazione ad andare oltre la classe sociale di appartenenza. Esiste, in questo tragitto dei due viaggiatori protagonisti, una scommessa sull'uomo:  sentono che le persone che si incontrano sul proprio cammino non sono una minaccia, ma un valore. Ebbene, pensiamo a tutto questo calandolo negli anni Cinquanta, segnati dall'espandersi della paura suscitata dal Maccartismo. Gli "altri", gli sconosciuti, erano visti come potenzialmente pericolosi. Questo non vale per Ernesto e Alberto. Alla fine, il loro racconto è segnato dalla necessità dell'indignazione e dall'urgenza di dover fare scelte radicali. Per me I diari è un film su due giovani che scoprono un continente e si appassionano per la sua gente e, alla fine del loro cammino, decidono da che parte del fiume rimarranno per il resto delle loro vite.

Le paure sociali e familiari diventano paure urbane in Dark Water, un film diversissimo dai suoi precedenti. Perché nel 2005 ha scelto questa storia in bilico tra horror e paranormale?

Prima di tutto perché I diari è stato così profondamente toccante che prima di tornare ad avere uno sguardo sul mio Paese e sull'America Latina avevo bisogno di calpestare, per lo spazio di un solo film, un territorio nel quale non mi ero mai addentrato prima. Come cinefilo, la mia formazione è stata eterogenea:  ho avuto contatti con la Nouvelle vague, il Neorealismo, il Cinema novo brasiliano e il cinema indipendente nordamericano degli anni Sessanta e dell'inizio dei Settanta. Così come mi sono appassionato dei film noir, quelli che trasmettevano il clima tipico della guerra fredda degli anni Cinquanta. E poi ci sono stati Repulsion di Polanski e Shining di Kubrick. In altre parole, ero interessato a una forma narrativa che mi aveva affascinato in gioventù. Paradossalmente, ciò che mi attirava della storia di questa madre e della sua bambina non erano immagini legate ai film horror o a elementi del paranormale, ma la perdita di riferimento, il caos psicologico in cui tutti possiamo precipitare. Ma non è stata un'esperienza facile:  ho capito in quell'occasione che sono troppo "anarchico" per sottomettermi alla logica dei grandi studi cinematografici.

Con Linha de passe è ritornato, a dieci anni esatti di distanza da Central do Brasil, a una storia tutta brasiliana. È cambiato il suo sguardo, la sua emozione, il suo coinvolgimento nel raccontare il suo Paese?

Penso che la forza di un autore sia intimamente legata alla profondità delle sue radici e per questo ritorno costantemente a questa mia Itaca personale, il Brasile. Esiste anche il desiderio di non lasciarsi imprigionare in un cinema che potremmo catalogare come internazionale, il desiderio di realizzare pellicole minori fatte, come dire, in famiglia. Linha de passe è nato da questo desiderio e dalla volontà di parlare della periferia brasiliana in modo diverso da come veniva solitamente presentata.

Il Premio Bresson è un premio cattolico attribuito da due dicasteri vaticani e intitolato a uno dei più grandi registi europei del Novecento:  le due cose quali pensieri le suscitano?

Bresson è stato un regista fondamentale nella mia formazione artistica:  Pickpocket, Un condamné à mort s'est échappé, Au hasard Balthazar e L'argent sono opere che mi hanno insegnato a considerare e rispettare il valore del silenzio, la durata del progetto, la possibilità di lavorare con attori non professionisti e l'attenzione a ciò che deve rimanere hors-champ, fuori campo. Significa:  il cinema come l'invisibile che deve completare il visibile. Quando penso a Bresson, il mio pensiero mi porta a Dreyer e Tarkovsky, ma anche a Kieslowski e mi accorgo di quale vuoto assoluto lui abbia lasciato. Sono tra quelli che credono che il suo Decalogo sia uno dei più grandi capolavori degli anni Ottanta, un'opera di un umanesimo "asciutto", senza un grammo di sentimentalismo. Penso anche a Pasolini e al dibattito affascinante che affrontò nei Sopralluoghi in Palestina, il documentario realizzato nel 1963 in preparazione al Vangelo secondo Matteo. Parlo di questi autori come registi che hanno affrontato il cinema con il medesimo rigore etico e morale. Da parte mia, credo di essere nel mezzo di un cammino particolare. Ritengo il Premio Bresson non soltanto uno sguardo generoso ai lavori che ho realizzato fino a oggi, ma assai più un incoraggiamento a scrivere e dirigere i prossimi film.

Davanti a lei ora si apre una strada nuova, inizia un nuovo viaggio.

Tenuto conto che le sceneggiature dei film che realizzo impiegano un bel po' di tempo per maturare, almeno tre anni, tendo sempre a sviluppare due o tre progetti in parallelo. Sto terminando in questo momento un documentario su On the road e la generazione formata da Ginsberg, Kerouac, Burroughs, Gregory Corso, Diane di Prima, Neal Cassady, Lawrence Ferlinghetti. È una generazione di figli di emigranti, alcuni figli o nipoti di anarchici italiani, che si scontrarono con una America poco permeabile alle idee non convenzionali. È una generazione che mi interessa anche perché molte delle micro-rivoluzioni che scoppiarono negli anni Sessanta e Settanta, quelli della mia formazione, non avrebbero potuto schiudersi se non ci fossero stati i cambiamenti messi in moto dalla beat generation. Il documentario è una preparazione a una possibile trasposizione cinematografica. Gli altri progetti ai quali sto lavorando sono adattamenti di libri o storie originali, come è il caso di El entenado ("l'arcano"), il più celebre e intenso romanzo di Juan José Saer, una riflessione affascinante sui poteri della memoria, un cammino che ancora dobbiamo percorrere fino in fondo, scaturito da quel periodo della storia che gli spagnoli chiamarono conquista e gli indigeni invasione.



(©L'Osservatore Romano 3 settembre 2009)
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