Intervista a Francis Ford Coppola a Torino per il "Film festival"

Non riuscirei più a girare "Apocalypse now"


Famiglie, padri e madri, figli e figlie, a scuola, al lavoro, sulla strada:  la società scricchiola e il cinema, con le sue lunghe antenne, al Torino Film Festival affronta un tema centrale e sicuramente non procrastinabile nelle sue diverse declinazioni:  l'immigrazione, l'accoglienza, l'integrazione, la legalità. L'Italia è in prima linea, raccogliendo la sfida di portare nelle sale temi che difficilmente si discutono e affrontano altrove. Al festival è intervenuto anche il regista americano Francis Ford Coppola che ha ricevuto - per la sua casa di produzione, American Zoetrope - il Gran Premio Torino e ha presentato il suo ultimo film "Tetro. Segreti di famiglia".

di Luca Pellegrini

Una vita discretamente spettacolare, quella di Francis Ford Coppola. Era caduto in un silenzio piuttosto preoccupante, una specie di afasia creativa, dopo l'ultimo capitolo del Padrino, nel 1990, dopo gli Oscar e le Palme d'oro, dopo il visionario Dracula del 1992. Jack e L'uomo della pioggia non erano stati i successi che aveva sperato. Forse i vigneti e il vino lo stavano interessando assai più che i set e la pellicola. L'industria cinematografica lo scoraggiava del tutto.
È tuttora assai critico:  "Il cinema è un essere vivo, selvaggio, imprevedibile. Bisogna saper rischiare. È l'unica arte che permette un'illimitata varietà di generi e di emozioni. Ma è vincolata e sottoposta ai capitali dell'industria, che cerca sempre di limitare proprio la libertà espressiva di un artista. Si fanno soprattutto film d'azione, di super-eroi e commedie piuttosto volgari, perché il cinema segue soltanto le leggi del profitto". Quella stessa industria che lui accusa di cecità, però, oggi gli permette, come imprenditore scaltro e fortunato, di finanziare e produrre i film che più vuole e ama.
È stato così con Un'altra giovinezza, nel 2007, dopo dieci anni di inattività, tratto da un romanzo di Mircea Eliade, film complesso e molto personale; accade di nuovo per Tetro - Segreti di famiglia, che ha scritto di suo pugno e girato tutto a Buenos Aires, nei famosi quartieri di La Boca e San Telmo. Nel primo arrivavano gli immigrati italiani:  "Mi sento profondamente italiano, gli immigrati sono un bene prezioso, gli Stati Uniti sono una nazione fatta da immigrati, nella quale hanno avuto la possibilità di esprimere tutto il loro talento".
Nel nuovo film, sugli schermi italiani dal 20 novembre, due fratelli cercano la loro identità, il loro futuro. Lo troveranno soltanto quando il vecchio padre, rancoroso ed egocentrico, chiuderà gli occhi, portando con sé vecchi e dolorosi segreti. Film rigorosamente in bianco e nero "perché - afferma Coppola - è il linguaggio che più si addice a questo tipo di storia, ricca di contenuti emotivi, un realismo poetico fatto di chiari e scuri, come è la vita".

Segreti. Ne vuole rivelare uno così da farci capire meglio la sua persona e il suo cinema?

Se si riferisce al titolo del mio ultimo film, segreti davvero non ce ne sono:  era uno slogan trovato su una cartolina e per l'Italia andava bene così. In realtà ogni famiglia ha la sua cultura e le sue radici e spesso nasconde segreti che solo i suoi membri conoscono e custodiscono. Veramente io segreti non ne ho, sono quello che sono con le mie attitudini, il mio modo di fare, il mio cinema. Vengo da una famiglia piena d'amore, ma anche, come tutte le famiglie, piena di competizione tra i vecchi e i giovani. È naturale.

L'effetto speciale nel suo cinema non è quello generato da un computer, ma dal cuore e dall'anima. In questo suo scoprire e descrivere il volto dell'uomo, le piacerebbe essere definito come un regista "umanista"?

Mi piace raccontare la sensibilità umana, mi piacciono le persone che sono piene d'amore. Sì, sono un vero umanista, penso che la mia vita parli da se stessa.

Della sua grande famiglia di artisti il collante, il valore condiviso, non credo sia soltanto il cinema. Che cosa, secondo lei, tiene unite, nella famiglia, le generazioni?

C'è una cosa che si chiama parenting:  l'essere genitori. Una buona famiglia dipende da buoni genitori, sono loro che insegnano l'unità, di generazione in generazione. Insegnare ai figli a guardare avanti, a essere amici della gente, a essere buoni, a saper perdonare. Buoni genitori sono quelli che riescono a creare un'atmosfera tra i figli dove le inevitabili competizioni si stemperano, perché l'amore è più grande. Magari, come nella mia, le cose si complicano perché i figli fanno lo stesso lavoro. Ma io ho insegnato loro il dovere di continuare ad amarsi e rispettarsi.

I "padrini" di tutto il mondo, lo sappiamo bene, sono abituati a fare degli affetti e della fede due strumenti di potere. Nella sua trilogia del Padrino voleva anche denunciare questa strumentalizzazione e insegnare a cercare, nella vita, la sincerità, l'autenticità dei rapporti tra gli uomini e con Dio?

Non c'è dubbio che spesso nella storia la religione e la fede siano state utilizzate come strumenti di potere. Ma va tenuto separato il piano della storia da quello dello spirito. Se mi chiedono:  "Credi in Dio?", rispondo:  come posso non crederci? Lo vedo dovunque:  in un bambino, nella natura, nel cielo, in ciò che l'uomo è capace di creare.

Vietnam ieri, Iraq e Afghanistan oggi:  sente dentro di lei la necessità, o avrebbe ancora una volta il coraggio, di scrivere e girare una Apocalypse again?

Non amo più i film di guerra. Ogni film che è pieno di violenza, battaglie, omicidi, potere, morte, glorifica l'idea del valore e di eroismo in modo distorto. Se dovessi oggi girare di nuovo un film di guerra, sarebbe pacifico, senza morte, molto semplice, senza erosimi, senza violenza. Insomma, non riuscirei più a girare Apocalypse now.

Un'altra giovinezza è un film da lei voluto, realizzato e molto amato. È un film "faustiano", perché racconta il mito dell'eterna giovinezza. Lei ha paura di invecchiare e della morte?

Non ho paura di invecchiare. Se dovessi pensare ora alla morte, mi guarderei indietro, alla vita che ho fatto, alla moglie magnifica con la quale sono sposato da quarantasette anni, ai bambini che ho avuto, ai film che ho fatto - perché ho voluto essere un regista e ci sono riuscito - e di come ho guadagnato tanto denaro e di come l'ho perduto per amore del cinema e di come mi sono messo poi a produrre vino:  pensare alla morte ora è avere la possibilità di pensare anche a tutte queste bellissime cose che la vita mi ha concesso.

E quando, speriamo tutti il più lontano possibile, la dovessimo ricordare, per che cosa vorrebbe lo facessimo? Soltanto per il suo cinema?

Assolutamente no. Vorrei essere ricordato prima di tutto per l'amore che ho dimostrato nei confronti dei bambini, di come sono stato sempre gentile con i più piccoli e di come sono stato un buon padre per i miei figli.



(©L'Osservatore Romano 21 novembre 2009)
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