A colloquio con il cardinale Roberto Tucci, una miniera di ricordi degli ultimi decenni vissuti da protagonista

Un testimone della Chiesa contemporanea


di Mario Ponzi

Prete, compagno di Gesù a ogni costo. Al punto da fuggire di casa, ancora giovanissimo, per seguire la sua vocazione. Tenacia coronata da una vita sacerdotale esemplare e da una vivacità intellettuale internazionalmente riconosciuta, da un servizio alla Chiesa reso con fedeltà e umiltà, sino alla porpora romana. Il cardinale Roberto Tucci accetta di parlare con il nostro giornale, "anche se - premette con la naturale schiettezza ereditata dalle sue origini partenopee - non capisco perché volete intervistarmi. Non sono un personaggio importante al punto da finire sulle pagine de L'"Osservatore Romano"". E non è falsa modestia:  come sa chi conosce "padre Tucci" - in molti continuano a chiamarlo così - che, tra l'altro, non ha mai concesso interviste ad alcun giornale. E parlando scorrono ricordi degli ultimi anni di storia della Chiesa, molti dei quali vissuti da protagonista, "non per mio volere - dice - ma in obbedienza al Papa e ai superiori". Lo incontriamo nel suo studio, alla Radio Vaticana, alle 8.30. È già lì che aspetta e ci viene incontro senza quel bastone divenuto il suo compagno di vita da quando soffre per un disturbo al ginocchio, "regalo di gioventù" ci scherza su. Un caffè, da buon ospite napoletano, e poi comincia il viaggio nella memoria.

Gesuita, perché?

Se dovessi darle una risposta ragionata non saprei cosa dirle. Come capita un po' a tutti, è stato il primo contatto con una figura o con una comunità religiosa a determinare la scelta. Io l'ho avuto con la Compagnia di Gesù e dunque, quando finalmente sono riuscito a coronare il mio desiderio, sono andato tra i gesuiti di Vico Equense.

Perché dice "quando finalmente"?

Perché la mia è stata una vocazione molto contrastata da mia madre. Era inglese e anglicana, ma soprattutto mi riteneva troppo giovane perché potessi prendere una decisione così importante. E poi ero figlio unico e per lei era molto difficile accettare l'idea che io lasciassi casa così presto.

E lei cosa ha fatto?

Sono scappato da casa. Due volte. Ho sofferto persino la fame. Mi ricordo che andavo da alcuni amici per trovare qualcosa da mangiare. Raggiungevo Vico Equense, dove c'erano i gesuiti. E mio padre veniva a riprendermi con i carabinieri del posto e mi riportava a casa nonostante le mie proteste. Ero minorenne, e non potevo decidere da solo.

E poi che cosa è successo?

Piano piano le cose cominciarono ad andare per il verso giusto. Mi accostai ai gesuiti perché avevo una grande stima di padre Alberto Giampieri, che allora dirigeva una congregazione mariana a Posillipo, dove c'era il teologato. Mi vergognavo un po' perché non ero ancora battezzato nella Chiesa cattolica. Ero stato battezzato in una chiesa anglicana e pensavo di non essere in regola. Devo dire che alla mia richiesta di diventare cattolico, la mamma aderì subito e con un certo entusiasmo. Ma non per motivi teologici; molto più semplicemente riteneva che, essendo italiano, era molto meglio se fossi stato cattolico. Me lo disse chiaramente mentre mi portava da un anziano prete cattolico che mi preparò al battesimo. Fui battezzato sub condicione, perché si riteneva che fosse valido già il primo battesimo. Effettivamente era così. Quando poi fui creato cardinale, andai a Napoli in quella chiesetta anglicana dove ero stato battezzato. Ricordo il parroco che mi accolse con tanta gentilezza. Pregammo anche insieme. Aveva preparato già il libro dei battesimi, aperto alla pagina che mi riguardava. Tra l'altro scoprii allora che avevo un doppio nome:  fui battezzato come Robert Francis.

Ricorda qualcosa del periodo vissuto da anglicano?

Ricordo che andavo sempre con mia madre alle funzioni in questa chiesa di Napoli. Lo ricordo perché era tutto molto ordinato. Ci davano un messalino appena entrati e poi dovevamo restituirlo prima di uscire; c'erano addirittura dei cuscini per inginocchiarsi. Ricordo che erano tutte famiglie inglesi o alcune miste, come la mia. Poi ho incontrato questo sacerdote veramente grande, che mi ha cambiato da dentro e mi ha dato tanta determinazione. Anzi mia madre si è dovuta arrendere proprio davanti alla mia "capa tosta" - come diciamo a Napoli - e mi ha dato il suo consenso. Ma la pace vera l'abbiamo fatta qualche anno più tardi, quando venne la prima volta a trovarmi in noviziato. Fu una cosa buffa. Tra le tante regole che ci imponevano c'era quella della modestia. Ci raccomandavano, per esempio, di tenere lo sguardo basso, di non guardare i superiori negli occhi, ma leggermente al di sotto. E dunque davanti a mia madre - che era venuta a trovarmi, tra l'altro, per tentare ancora di convincermi a desistere - io rimasi in silenzio e con la testa bassa in segno di rispetto. Lei interpretò male questo atteggiamento. Mi prese per il colletto della tonaca che indossavo e mi disse, quasi gridando, in inglese:  "Guardami dritto negli occhi e non fare il gesuita!". Poi a poco a poco si è convinta. Ha fatto amicizia con diverse coppie di genitori di miei amici, in particolare con una signora italiana e il marito giapponese che si era convertito al cattolicesimo. Non sono rimasto sorpreso quando lei mi ha chiesto di diventare cattolica. Ed è diventata molto più fedele di tanti cattolici di nascita.

Da studioso a docente e poi giornalista. Quali sono stati i diversi passaggi?

Una volta ordinato sacerdote - era il 24 agosto 1950 - dovevo capire cosa fare. Ero a Napoli, appena laureato in teologia dogmatica. Mi venne offerta la cattedra alla facoltà teologica San Luigi e accettai di buon grado. In questi anni mi sono avvicinato al mondo giornalistico. Con alcuni colleghi fondammo una rivista e mai avrei pensato che quest'avventura sarebbe sfociata nella direzione de "La Civiltà Cattolica" nel 1959. Erano anni difficili. Un periodo di aspre polemiche nel mondo cattolico. Giovanni XXIII volle un aggiornamento della rivista e dovetti incaricarmene io.

Fu allora che iniziò la sua amicizia con Roncalli?

Diciamo che spesso il Papa mi chiamava per questioni diverse. Ho avuto con  lui  nove  lunghe  udienze  private e poi ogni  quindici  giorni incontravo il segretario  di  Stato. A volte Giovanni XXIII mi vedeva scoraggiato e mi confortava, altre volte titubante e mi incoraggiava. Quando poi convocò il concilio Vaticano ii, venni nominato membro della commissione preparatoria per l'apostolato dei laici. Il Papa mi volle come perito conciliare. Ho lavorato molto alla redazione della Lumen gentium e della Apostolicam actuositatem. Se dovessi dire cosa mi è rimasto più impresso nel cuore di quel periodo, direi sicuramente il lavoro fatto per l'elaborazione di quello "schema tredici" divenuto poi la Gaudium et spes. Ricordo anche con piacere gli incontri quotidiani con i giornalisti di lingua italiana per informarli sui lavori in aula. Mi divertiva molto e lo facevo con piacere. Stavo bene con i giornalisti.

E della sua esperienza alla direzione de "La Civiltà Cattolica" cosa ricorda più volentieri?

Direi tutto. Ma se proprio devo indicare qualcosa, c'è un episodio che mi lasciò dapprima l'amaro in bocca, anche se poi intervenne il Papa e allora capii che dovevo esserne fiero. Capitò quando l'arcivescovo di Canterbury si recò in visita da Giovanni XXIII. Era il primo incontro tra un Pontefice e un rappresentante della Comunione anglicana. Il cardinale Tardini, allora segretario di Stato, mi chiamò e mi disse che bisognava fare un articolo per attenuare un po' l'importanza - a suo giudizio eccessiva - che stava assumendo per la stampa questa visita. Così dovetti scrivere per dimostrare che si trattava di una visita come molte altre che i rappresentanti di diverse confessioni religiose facevano al Papa. Nulla di più, tanto meno di "storico". E lo stesso cardinale Tardini scelse un titolo freddo:  "La visita di cortesia del dr. Fisher a Sua Santità". L'arcivescovo di Canterbury si offese per questo articolo e lo manifestò non appena giunto a Roma. Rimasi molto turbato e appena il Papa mi ricevette in udienza - alla vigilia di Natale del 1960 - gli dissi il mio dispiacere. Giovanni XXIII non mi fece neppure finire di parlare. Mi disse che sapeva tutto, anche che avevo seguito le direttive di Tardini. Mi spiegò che il segretario di Stato, a sua volta, era stato oggetto di pressioni da parte della gerarchia cattolica, timorosa che la visita fosse in qualche modo interpretata come uno schiaffo all'affermarsi della Chiesa cattolica in Inghilterra. Mi disse anche che il mio era un ottimo pezzo e che avevo fatto bene a seguire le indicazioni di Tardini.

Negli anni seguenti lei ha avuto comunque un ruolo importante proprio nell'ambito ecumenico. È stato il primo sacerdote cattolico invitato a tenere un discorso in un'assemblea generale del Consiglio ecumenico delle Chiese.

Fui chiamato a Upsala, in Svezia, dove - era il luglio del 1968 - si teneva l'assemblea generale. Mi chiesero di intervenire sul tema "Movimento ecumenico, Consiglio ecumenico delle Chiese e Chiesa cattolica". La mia relazione ebbe larga risonanza e venne pubblicata su diverse riviste, sia cattoliche che protestanti. Altre riviste mi chiesero poi articoli sulla questione ecumenica. Anche nel 1975 fui invitato, questa volta in qualità di ospite, a un'altra assemblea generale del Consiglio ecumenico delle Chiese. Era la quinta e si svolgeva a Nairobi, in Kenya.

I tempi della sua direzione a "La Civiltà Cattolica" coincisero con un momento storico molto importante per l'Italia:  era in discussione la questione dell'apertura a sinistra suggerita da Aldo Moro. Quale fu il ruolo della rivista dei gesuiti?

Furono anni per me pieni di imbarazzo. I nostri erano lettori molto attenti. Una delle tre sezioni della rivista - accanto a "Santa Sede" e "Esteri" - era proprio "Italia". Il cardinale Tardini, ancora segretario di Stato, era abbastanza contrario a questa apertura, così come lo era, del resto, all'ipotesi di un partito cattolico conservatore. "Per carità - mi disse una volta - questo lo vuole semmai il cardinale Ottaviani. Non io, perché sono convinto che se si costituiscono due partiti cattolici, si batteranno tra loro più che per difendere gli interessi dei cattolici". E ricordo anche che ogni nostra cronaca relativa all'Italia, tornava dalla visione in Segreteria di Stato tartassata di osservazioni e correzioni dei collaboratori di Tardini.

E Giovanni XXIII come vedeva la questione?

Le racconterò un aneddoto significativo. Mi ricevette in udienza alla vigilia del famoso congresso della Democrazia cristiana nel 1962 a Napoli, nel corso del quale Aldo Moro tenne il discorso ribattezzato da Andreotti "l'enciclica Cauti connubi". Durante l'incontro il Pontefice mi ripeté una cosa che mi aveva già confidato durante il primo dei nostri incontri, cioè che non desiderava occuparsi delle cose dell'Italia e avrebbe voluto che la Segreteria di Stato fosse molto cauta nelle questioni italiane. Mi disse che non si intendeva di politica e, in ogni caso, pensava che il Papa, appartenendo alla Chiesa universale, non dovesse essere coinvolto in questioni particolari riguardanti l'Italia. A proposito delle divisioni interne alla Democrazia cristiana, aggiunse - credo riferendosi alla sinistra - che andavano comunque rispettati anche quelli che non erano, per così dire, sulle posizioni più accettabili, perché si trattava comunque di persone che difendevano le loro idee in buona fede:  "Io non me ne intendo ma francamente non capisco perché non si possa accettare la collaborazione di altri che hanno un'ideologia diversa per fare cose in sé buone, purché non vi siano cedimenti dottrinali". Capii così che Moro avrebbe avuto via libera. Penso anzi che allo statista venne comunicata questa posizione del Papa perché, conoscendo la sua fede, non credo che avrebbe proceduto altrimenti su quella strada.

E veniamo agli anni della sua avventura alla direzione della Radio Vaticana.

Era il 1973, e fu Paolo VI che mi chiamò a sostituire il mio confratello padre Giacomo Martegani; aveva rinunciato per gravi motivi di salute. Lasciai con nostalgia la direzione de "La Civiltà Cattolica". Però mi gettai anima e corpo nel progetto di sviluppo dell'emittente del Papa. Avevo accanto a me un bel gruppo di collaboratori e dunque non fu difficile. Sono stati anni meravigliosi e pieni di soddisfazione. Ma soprattutto sono stati anni fondamentali per la mia esperienza personale, sia umana che sacerdotale, perché proprio nella mia veste di direttore generale della Radio Vaticana sono potuto entrare in contatto con il sacerdote che ha impresso una svolta decisiva alla  mia  vita spirituale:  Giovanni Paolo II. Per la verità avevo già conosciuto Karol Wojtyla ai tempi del concilio Vaticano ii. Ma non avevo certo fatto esperienza diretta di lui.

In che modo Giovanni Paolo II ha impresso una svolta alla sua vita?

Il tema è estremamente vasto. Lo spazio di questo nostro colloquio non può certo contenere il bilancio di una vita o la sintesi di un pontificato lungo, ricco, vario, né può rappresentare il pensiero o l'azione pastorale di un uomo che, come i profeti, è andato e si è fatto avanti per parlare all'umanità intera in nome di Dio, testimone lui stesso del Dio con noi e per noi, del Dio come futuro dell'uomo. E io ho avuto la fortuna di seguire i suoi passi sin dall'inizio - prima come direttore della Radio Vaticana, poi come organizzatore dei suoi viaggi - ed è stata l'esperienza che ha segnato la mia vita. Tra l'altro volle elevarmi alla dignità cardinalizia. Era il 21 febbraio del 2001.

A quando risale il suo primo incontro con lui dopo l'elezione?

Il momento più importante, quello che ha poi dato inizio al mio rapporto speciale con lui, è stato quando mi chiese di presentare ai giornalisti la sua prima enciclica, la Redemptor hominis. Andai prima da lui e gli dissi come avevo intenzione di presentarla. Avevo capito bene l'enciclica ma avevo capito poco del suo estensore. Compresi allora tutte le sue preoccupazioni per la Chiesa, per certe tendenze postconciliari caratterizzate da poca attenzione al mistero della Chiesa. Ma compresi anche tutto il suo amore per l'umanità, che voleva libera, affinché potesse meglio comprendere e seguire il messaggio del Vangelo. Con passione cercai di trasmettere questa sua ansia pastorale anche ai giornalisti. E portai la Radio Vaticana ad aprire sempre di più le vie al Papa e rendere così più fruttuoso il suo ministero apostolico in tutto il mondo. Non so se ci sono riuscito. Io ho dedicato tutto me stesso a questo compito.

Come è avvenuto il passaggio al nuovo incarico, cioè a organizzatore dei viaggi papali all'estero?

Fu quasi naturale. Li avevo seguiti tutti dall'inizio del pontificato e avevo accumulato una grande esperienza. Ne parlavo spesso con Giovanni Paolo II e condividevamo tante osservazioni. Così nel 1982 mi affidò l'incarico di occuparmi di tutto quanto necessario per il loro svolgersi. In questi anni ho dovuto trattare con vescovi, preti, laici, con Governi, con monarchi. Mi sono dovuto occupare di protocollo, trasporti, sicurezza, alloggi. Pensi che una volta, alla fine di una delle tante riunioni che si facevano con il Papa per preparare un viaggio, dopo aver ascoltato le mie peripezie, mi prese sotto braccio e mi disse testualmente:  "Povero padre Tucci, come è caduto in basso dalla sommità della teologia!". Mi aveva conosciuto, infatti, come teologo al Vaticano II.

Cosa ricorda di quei viaggi?

Ci vorrebbe un libro intero per raccogliere tutto. I ricordi sono tanti, tantissimi, e varrebbe la pena non dimenticare nulla. Mi piace iniziare ricordando il coraggio che mostrava Papa Wojtyla nell'affrontare situazioni difficili, a volte anche scabrose o pericolose. Era testardo. Come dimenticare la sua determinazione nel voler pregare a tutti i costi sulla tomba dell'arcivescovo Oscar Arnulfo Romero a San Salvador. Ignorare quella tomba era stata una delle condizioni poste dal Governo per acconsentire alla visita. I vescovi sconsigliarono il Papa di andare. Non ci fu nulla da fare:  Giovanni Paolo II voleva farlo perché si trattava di un vescovo ucciso mentre celebrava l'Eucaristia. Quando arrivammo sul posto, trovammo la cattedrale sprangata. Il Pontefice si impuntò e disse che non si sarebbe mosso di lì fino a che non gli fosse stato consentito di pregare su quella tomba. Restammo a lungo sulla piazza deserta. La polizia aveva fatto allontanare tutti, non c'era nessuno. Ma poi la chiave arrivò e il Papa poté sostare a lungo su quella tomba. Ci fu poi la contestazione organizzata dal Governo durante la messa a Managua, in Nicaragua, nel 1983. Ricordo che lo stesso Giovanni Paolo II a un certo punto prese in mano il microfono e gridò:   "State zitti!". E ottenne silenzio. Come dimenticare poi il volto di Wojtyla quando si accorse del tiro che gli giocò Pinochet durante il viaggio in Cile nel 1987? Lo fece affacciare con lui al balcone del palazzo presidenziale, contro la sua volontà. Ci prese tutti in giro. Noi del seguito fummo fatti accomodare in un salottino in attesa del colloquio privato. Secondo i patti - che avevo concordato su precisa disposizione del Papa - Giovanni Paolo II e il presidente non si sarebbero affacciati per salutare la folla. Wojtyla era molto critico nei confronti del dittatore cileno e non voleva apparire accanto a lui. Io tenevo sempre d'occhio l'unica porta che collegava il salottino, dove eravamo noi del seguito, alla stanza nella quale erano il Papa e Pinochet. Ma con una mossa studiata li fecero uscire da un'altra porta. Passarono davanti a una grande tenda nera chiusa - ci raccontò poi il Papa furioso - e Pinochet fece fermare lì Giovanni Paolo II, come se dovesse mostrargli qualcosa. La tenda fu aperta di colpo e il Pontefice si ritrovò davanti il balcone aperto sulla piazza gremita di gente. Non poté ritrarsi, ma ricordo che quando si congedò da Pinochet lo gelò con lo sguardo. Alfonsín, in Argentina, fu più rispettoso, e non pretese assolutamente di comparire al suo fianco. In Africa invece re, dittatori e governanti corrotti lo tiravano da tutte le parti per sfruttarne l'immagine. Lui lo sapeva, ma era uno scotto da pagare per incontrare la gente. Ne era addolorato, ma sopportava. Con noi poi si sfogava. E quando parlava non risparmiava le denunce.

C'è un qualcosa che ricorda in particolare del periodo preparatorio dei viaggi?

Tante cose, certo. Le trattative nei Paesi comunisti, per esempio, perché le autorità tendevano a isolare il più possibile il Papa dalla folla. Oppure la necessità di studiare nei minimi dettagli possibili scenari di attentati per evitare pericoli:  negli Stati Uniti è stata una vera e propria ossessione, ma ho imparato diverse tecniche dei servizi segreti! Forse una cosa mi è rimasta in mente più di altre:  la preparazione della visita a Cuba. Ricordo anzitutto la grande disponibilità da parte delle autorità a lasciare il Papa libero di fare quanto desiderava. Ma l'aspetto più interessante è che, prese le decisioni, dovevo parlarne con Fidel Castro in persona. Il fatto è che lui cominciava a lavorare alle nove di sera e dunque a volte mi riceveva addirittura intorno a mezzanotte.

C'è stato qualche viaggio programmato ma mai realizzato?

Più di uno, per la verità. È noto l'ultimo, quello che il Papa voleva compiere a Sarajevo durante la guerra, nel 1994. Quando compii il sopralluogo con Alberto Gasbarri - attuale direttore amministrativo della Radio Vaticana e organizzatore dei viaggi papali fuori d'Italia - ci costrinsero a indossare il giubbotto antiproiettile. Era troppo pericoloso e quasi impossibile garantire l'assoluta sicurezza. Dunque, con molto rammarico per il Papa, non se ne fece nulla. Ricordo con dispiacere invece il fallimento della visita ad Hong Kong. Il cardinale John Baptist Wu Cheng-chung, vescovo dal 1975, mi manifestò le sue perplessità. Hong Kong aveva ancora la sua autonomia, ma la presenza del Papa poteva essere interpretata come un atto scortese nei confronti di Taiwan:  eravamo nel 1994, alla vigilia del passaggio di Hong Kong alla Cina, avvenuta nel 1997. Altra delusione fu il fallimento del viaggio che il Papa voleva fare in Iraq dopo la guerra del Golfo. Ricordo che raggiungemmo una base militare in aereo in piena notte. Poi sei ore di macchina sino a Baghdad. Siamo stati tre giorni a discutere con due vice-ministri degli Esteri, i quali sostenevano che il Papa non aveva capito niente, perché Abramo era musulmano. Alla fine ci dissero che il Papa nella terra di Abramo, cioè nel sud dell'Iraq, ai confini con l'Iran, avrebbe rappresentato un rischio molto serio per possibili attentati, dei quali avrebbero poi incolpato gli iracheni. Dunque bisognava riflettere molto prima di prendere una decisione. Allora sconsigliai il viaggio. In tema di fallimenti non posso non ricordare gli incontri mai avvenuti con Alessio ii. La prima volta quando il Papa doveva recarsi in Austria. Per volontà della Santa Sede organizzai un incontro con il Patriarca di Mosca Alessio ii, perché padre Pierre Duprey, allora segretario dell'attuale Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani, aveva sondato il terreno e sembrava che i tempi fossero maturi. C'erano state trattative e avevano deciso che a Vienna avrebbero potuto incontrarsi. Preparai tutto nei minimi dettagli. Avevamo scelto il monastero cistercense della Santa Croce. Ma pochi giorni prima il Patriarcato di Mosca ci fece sapere che l'incontro non ci sarebbe stato. Il motivo, ci dissero, era il cattivo trattamento riservato in Ucraina dai cattolici agli ortodossi per il recupero delle loro chiese, un pretesto. La stessa cosa accadde in occasione della visita a Pannonhalma, in Ungheria, nel 1996. Anche quella volta era tutto pronto, ma poi vennero poste ulteriori condizioni e saltò tutto.

L'ultimo pensiero è per due amici.

Il primo che sento ancora molto vicino al mio cuore è padre Pasquale Borgomeo. Un fratello per me, prima che un confratello. Mi ha aiutato tantissimo nella mia avventura alla Radio Vaticana. Ricordo che il giorno delle esequie dissi che se c'era qualcuno che poteva dire al Signore veramente "grazie per avercelo dato", quel qualcuno ero io. Nel periodo della mia direzione ho diretto la radio insieme con lui. Eravamo legatissimi e lui, in quanto a radio, ne sapeva più di me:  sento che ho perso tanto, se non tutto. E poi Alberto Gasbarri, un amico vero, sincero, devoto. Anche lui per me è stato insostituibile. Al punto che quando ho festeggiato con tutti i miei amici, conoscenti, colleghi e parenti la mia porpora cardinalizia, nel discorso che ho fatto, ho detto senza mezzi termini che se questo riconoscimento del Papa era per il servizio reso al suo pontificato itinerante, allora il cardinalato lo avrebbe meritato più di me il laico Gasbarri.



(©L'Osservatore Romano 23 dicembre 2009)
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