Intervista al regista Radu Mihaileanu

Come "Prova d'orchestra" di Fellini
(ma al contrario)


di Luca Pellegrini

Il suono del violino addormenta una Russia ingrigita e sveglia una Parigi assopita. Sono le pennellate musicali vivacissime e ironiche che il regista rumeno Radu Mihaileanu, già acclamato per il suo onirico Train de vie, stempera verso un commovente finale fondendo insieme le note di Cajkovskij, le aspirazioni dell'arte, il desiderio di infinito, una riconciliazione sperata. Il film Il concerto ha un prologo comunista:  ai tempi di Breznev, l'orchestra del Bolshoi viene depurata dagli elementi di origine ebraica, mandando così tutti allo sbando. Il direttore Andreï Filipov è cacciato in malo modo proprio in una serata a teatro esaurito nel corso della quale il suo concerto, che finalmente raggiunge l'"armonia suprema", è drammaticamente interrotto, facendo calare il sipario anche sulle aspirazioni di tutta una vita e di una comunità d'artisti.
Trent'anni più tardi, questi musicisti un po' sbandati e pittoreschi li ritroviamo a Mosca a vivere di espedienti. Ma il destino offre a tutti loro una riparazione inaspettata e così, in un travolgente secondo capitolo parigino, l'orchestra e suoi professori hanno la possibilità di realizzare un sogno del passato e dare spazio alle lacrime del presente, proprio quando, finalmente, trionfa la bontà, la vita, il perdono, l'amore. Come i tempi della musica, il film trova una sua alchimia di ritmo, l'equilibrio tra sorriso e tristezza, umorismo e dramma, ironia e verità.
È un dono di natura, chiediamo al regista, o il frutto di uno studio caparbio? "Credo sia un dono naturale, nel senso che nella vita io sono abbastanza simile ai miei film. Non ho una ricetta precisa con la quale amalgamare tutti i temi ai quali sono legato. È importante saper calibrare il ritmo, saper stringere o diluire certe situazioni, aumentare o alleggerire la tensione. Nel film ho posto due domande fondamentali che sostengono la curiosità dello spettatore:  riusciranno i nostri ad arrivare a Parigi e suonare finalmente il loro concerto? Andreï, il direttore dell'orchestra, è o no il padre della violinista Anne-Marie?".

Giustizia, compassione, bontà, sogno. Un clima presente anche sul treno dei deportati ebrei, che appunto si chiamava Train de vie. Tra i tanti commenti entusiastici che accompagnarono nel 1998 la sua uscita, quale lo colpì maggiormente?

Mi è rimasta impressa la domanda di un giornalista:  che ne è stato di Shlomo, il protagonista, all'indomani del film che si chiudeva con l'immagine del suo volto dietro al filo spinato? Gli ho risposto:  è diventato ciò che lei, come spettatore, ha deciso. Se si è dimenticato di lui, significa che è morto, altrimenti, se ancora lo ricorda, vuol dire che è rimasto in vita e non è stato ucciso nel campo di concentramento. E ho pensato a questa risposta nel momento in cui ho concepito la storia del mio film successivo Vai e vivrai:  lì lo spirito di Shlomo tornava a vivere in un ragazzino etiope che affrontava una vicenda non meno triste.

Sorridere dell'orrore:  è soltanto l'architrave di una fabula o una terapia moderna?

È un modo di vivere e sopravvivere, di sconfiggere il grande caos in cui ci troviamo e la fatalità della morte. L'umorismo è l'arma più forte che abbiamo per cercare di sconfiggere l'inevitabilità della fine.

I soggetti dei suoi film nascono in un sogno, nell'affiorare di un ricordo o da un'esperienza di vita più attuale?

Credo sia un insieme di queste tre cose, credo nascano da una storia che riecheggia in me, che forse ho realmente vissuto e depositato in qualche angolo della mia anima. A volte sono delle onde impercettibili e non capisco se siano frutto della mia immaginazione o, di fatto, un evento che emerge dalla vita passata. In verità faccio molta fatica a tracciare una barriera netta tra realtà e immaginazione, tutto si confonde. Spesso la realtà può anche essere ciò che abbiamo nella mente e nel cuore, ciò che desideriamo e amiamo. È il motivo per cui sto scrivendo un film che sarà girato in lingua araba e affronterà la condizione della donna nella società araba.

Lei dice di essere un cavallo selvaggio:  che cosa le piace della vie sauvage?

Poter galoppare senza frontiere, attraversando i recinti e le barriere. Era ciò che mi mancava in Romania sotto il comunismo:  mi sentivo sempre limitato, costretto, circondato da steccati. Aspiravo a questa libertà. Oggi, finalmente, è questa sete di spazi sconfinati che continua ad alimentarmi.

L'orchestra del suo film:  metafora della società perfetta oppure soltanto un'utopia?

Sicuramente è una metafora, ma l'utopia è un ingrediente fondamentale della vita, perché senza utopia l'uomo sarebbe condannato alla morte. Avere un'utopia significa aspirare continuamente a qualche cosa che è difficile da ottenere, significa cercare di superare costantemente la propria mediocrità. Nel film ci rendiamo anche conto che l'utopia è bella se non raggiunge mai la perfezione permanente. Come accade per tutte le cose:  riusciamo ad apprezzarle nella loro imperfezione, nella loro tensione al bello, al buono e al vero. L'orchestra rappresenta, dunque, entrambe le cose:  è la metafora di una società abbastanza egualitaria in cui esiste l'individuo che riesce, però, a esprimersi ai livelli massimi soltanto quando il suo scopo è sostenuto dagli altri, dalla comunità, dai colleghi, dai familiari, dagli amici. Soltanto se c'è questa reciprocità è possibile per l'individuo uscire dal suo egoismo e affermarsi come persona. Aggiungerei che tutti i miei orchestrali insieme al loro direttore vivono di un sogno, quello del "folle" che tenta di raggiungere la "suprema armonia", quello con cui superiamo una vita altrimenti troppo banale e troppo vicina alla morte. Non dimentichiamo, infine, che a fianco dell'utopia e del sogno ci deve essere sempre la ragione, la sola in grado di controllare e che ci evita di precipitare nella barbarie.

In Prova d'orchestra di Fellini l'orchestra, priva di senno e di guida, si sfasciava sotto il peso e i colpi dell'anarchia. Anche lei dimostra che un'orchestra si mantiene unita attraverso il rispetto di una gerarchia e nell'osservanza di valori condivisi.

Il mio film descrive esattamente il contrario di ciò che accadeva in quello di Fellini, ossia prova come l'armonia, scaturendo dal caos, sia sempre raggiungibile. All'inizio i miei personaggi sono nel caos totale:  mentono, bevono, vivono di espedienti, dicono di andare a Parigi per suonare mentre le loro motivazioni sono del tutto diverse e assai meno nobili, però a un certo punto subentra qualcosa che riesce a fare appello alle loro emozioni e ai loro sentimenti e così facendo tornano all'ordine, tornano a suonare guidati da un direttore che li motiva. Suonando insieme, in uno sforzo comune, in nome del riscatto di un passato che li aveva offesi, avviliti e violentati nella loro umanità e nelle loro aspirazioni, riescono nuovamente a indirizzare tutta l'energia accumulata nel caos verso un fine comune, raggiungere l'"armonia suprema", consapevoli anche del fatto che potrà durare soltanto pochi istanti rispetto a tutta una vita. Durerà il tempo di un concerto.

Questa "armonia suprema" è qualche cosa di immanente o trascendente?

L'essere umano, per la sua stessa condizione, è posto sempre dinanzi alla metafisica, è forte in lui questo slancio, questo anelito, proprio perché spesso si sente prigioniero del suo corpo che lo pone in una condizione minimale rispetto all'universo. Sento quanto siamo piccoli nella vastità dell'universo e come abbiamo costantemente bisogno di relazionarci con l'Assoluto, di affrontarlo, di misurarci con Lui. Questo si può manifestare nella fede di una persona religiosa oppure nello slancio dell'artista che sente di essere sempre sottoposto a questa tensione quasi folle, provando il bisogno di toccare Dio per sfuggire alle costrizioni di una vita circoscritta in un lasso di tempo breve, infinitesimale.

Perché Tarkovskij è il regista che più ama?

Perché è uno dei più grandi registi nella storia del cinema e uno dei più grandi artisti nella storia dell'umanità. Mi ha elevato spiritualmente, ha toccato la grazia assoluta e me l'ha fatta toccare.



(©L'Osservatore Romano 14 febbraio 2010)
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