A colloquio con il regista Alexander Zeldin

Shakespeare e la generazione Mtv


di Silvia Guidi

I poeti estinti (quelli della Dead Poets Society del film di Peter Weir) del 2010 sono vivi e vegeti, vivono in tournée, compongono album o curano la regia di opere liriche o evergreen teatrali come Alexander Zeldin, 25 anni, ancora in Italia dopo le date del suo Romeo e Giulietta al Napoli Teatro Festival Italia. Sono un gruppo di ragazzi molto giovani, molto amici tra di loro, determinati a non smettere di vivere l'intensità e la bellezza contenuta nelle pagine della grande arte trasformandola in un lavoro a tempo pieno, sia che si tratti di progettare una scenografia, curare la regia di Gianni Schicchi o incidere un disco di musica leggera. Total life forever è il titolo di uno degli ultimi album dei Foals; il cantante, Yannis Philippakis, si è formato nello stesso "circolo di Oxford" che ha permesso a Zeldin di scoprire la sua passione per il teatro. L'anagrafe li classificherebbe sbrigativamente come "generazione Mtv", ma basta dare una scorsa ai loro curricula per far saltare luoghi comuni e categorie sociologiche consolidate. Incontriamo Zeldin in una pausa delle prove, prima che la Verona delle faide tra clan ricreata dall'italiano Enzo Curcurù (Romeo) e dalla franco-tunisina Anissa Daoud (Giulietta) torni a essere una normale palestra di judo affollata di mamme e bambini, mentre gli attori chiacchierano con lo scenografo (George Tsypin) e l'autore delle musiche originali (Keiron Maguire) sorridenti e stanchissimi, intrecciando inglese, francese e italiano in una stessa frase.

"Meticoloso nel montaggio delle scene e nella pulizia degli effetti - scrivono di lei - con quel filo di spacconeria necessario per imbarcarsi in allestimenti che con un eufemismo potremmo definire impegnativi". Si riconosce in queste parole?

Più o meno. Ho avuto il privilegio di lavorare insieme a un maestro come Valery Gergiev alla regia delle opere del Ring di Wagner. Sempre al Mariinsky Theatre, Powder her face di Thomas Adès ha fatto scandalo per una scena piuttosto forte, ma non ci interessava lo scandalo fine a se stesso, volevamo comunicare la tristezza ultima del lusso esibito, la solitudine e il vuoto di un albergo a cinque stelle. Il principe costante, invece, è stato anche un'utopia:  durante la tournée mangiavamo insieme, vivevamo insieme, avevamo un fondo comune per le spese, ci sentivamo liberi e al sicuro dal mondo esterno perché comunque avevamo il teatro.

Nessun lato negativo in questo lavoro?

Non sopporto il cinismo "necessario", inevitabile delle istituzioni; nei limiti del possibile cerco di essere onesto, di non barare. Il teatro è un'alchimia fragile; a volte l'attore più bravo durante il provino è il peggiore in scena perché non accetta di lavorare insieme agli altri.

Come è stato lavorare con la Compagnia teatrale europea del Festival di Napoli?

Sono abituato a lavorare con attori di culture diverse, è una grande opportunità. È un lavoro appassionante ma complicato, si tratta di tirar fuori dal vissuto di ognuno gesti, ricordi, situazioni che poi devono prendere una forma; la sfida è creare qualcosa che non sia una costruzione intellettuale ma viva di vita propria.

Quello che potremmo chiamare il "metodo Peter Stein"?

Lo ammiro moltissimo. Ma io sono consapevole di avere quarant'anni di esperienza in meno di lui!

Perché Romeo e Giulietta?

Perché Shakespeare è contemporaneo, tanto dramma borghese no, tanti autori del Novecento sono già vecchi senza essere antichi. Bob Dylan non è datato, molti suoi colleghi sono già pezzi di modernariato. In Shakespeare poesia altissima e doppi sensi, registro basso e alto convivono nella stessa pagina; la volgarità in un certo senso è necessaria perché permette una grande inventiva linguistica. Per fortuna in questo spettacolo ho un Mercuzio eccezionale, Alessandro Sampaoli.

Per i due protagonisti invece ha scelto un finale asimmetrico.

Più che l'amore mi interessa descrivere l'odio, l'esasperazione dei sentimenti in un contesto difficile, pieno di recriminazioni, incomprensioni e pregiudizi. In scena c'è una carcassa di automobile bruciata; anche la nostra vita è scandita dalle perquisizioni, dalla paura permanente di un attentato terroristico. Un altro tema interessante è la lotta per capire che cosa significa essere se stessi. I giovani, nel dramma cercano di capire cosa vogliono davvero, e sono disposti a rischiare per questo, non hanno il tempo di pensare alle conseguenze. Nella nostra lettura Capuleti e Montecchi sono due famiglie di possidenti terrieri libici impoveriti che vivono in Veneto, Romeo e i coetanei sono immigrati di seconda generazione che entrano in collisione con la mentalità dei loro genitori.



(©L'Osservatore Romano 11 giugno 2010)
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