A colloquio con il regista Mahamat-Saleh Haroun alla presentazione del "Tertio Millennio Film Fest"

Abidjan città aperta


Nella mattinata di mercoledì 24 novembre a Roma, presso il Pontificio Consiglio della Cultura, è stata presentata la quattordicesima edizione del "Tertio Millennio Film Fest" che si svolgerà dal i ° al 12 dicembre. Abbiamo intervistato uno dei protagonisti, il regista africano Mahamat-Saleh Haroun.

di Luca Pellegrini

Con la lungimiranza che distingue il lavoro di molti artisti, nel 1999 Mahamat-Saleh Haroun iniziava la sua carriera cinematografica scegliendo un titolo particolare:  Bye Bye Africa. Interpretava se stesso, ossia un regista sconsolato e affranto che diceva addio alla sua terra, il Ciad, e al suo continente, partendo per un lungo esilio. In fondo, significava abbandonare la speranza che il cinema, laggiù, potesse risorgere e rinnovare una società stremata.

Come è nata la sua passione per il cinema?

Grazie a Roberto Rossellini, quando ho visto per la prima volta Roma città aperta e ho capito come un film non è soltanto un reportage che racconta storie, ma la mente e il cuore di un autore che si mette dietro quelle storie con il suo personale punto di vista. Così ho capito che forse anch'io sarei potuto diventare un regista, capace di raccontare, come poi ho fatto, la gente del mio Paese, con lo stesso realismo con il quale Rossellini raccontava quella del suo.

Raccontare l'Africa per ricordare o per sperare?

Entrambe le cose. Filmare è di per sé già immortalare i fatti, credo molto nell'affermazione di Godard che il cinema "crea memorie". E quasi sempre i protagonisti dei miei film sono dei giovani:  raccontare storie che li riguardano è, in qualche modo, dare speranza. In realtà, non si può che sperare nell'uomo. Anche se i miei film appaiono, a volte, un po' pessimisti, sono in realtà inscritti in una  speranza  legata  a tutte le forme  di  vita  umana presenti sulla terra.

Nel consegnarle lo scorso settembre a Venezia il Premio Bresson, il cardinale Angelo Scola ha ricordato il suo film Daratt - La stagione del perdono. Secondo lei questa stagione dei valori "che ci uniscono" è già sbocciata in Africa?

Credo di sì, anche se assai fragile. Il cammino, però, è ancora molto lungo. Ottenere il perdono e creare riconciliazione è qualcosa di formidabile. Il perdono, nel mio cinema, si staglia come un orizzonte. Il cammino di tutti noi africani deve continuare fino a raggiungere questo "orizzonte" di perdono e di riconciliazione. Quello che io racconto nei miei film è il cammino della gente, verso la luce, verso la speranza. Soltanto così io concepisco il mio lavoro di regista.

Nel film che quest'anno a Cannes ha vinto il Premio della Giuria, Un homme qui crie - e che il Tertio Millennio Film Festival presenterà in anteprima italiana il 9 dicembre - ha raccontato il pianto di un padre.

Ci sono tanti uomini che piangono in Africa. Credo che il loro pianto non sia capito, si sentono tenuti ai margini, dove nessuno si interessa ai loro problemi. È un dolore che nasce forse dall'indifferenza del mondo.

Qual è la malattia più grave che affligge oggi il continente africano?

Oggi le malattie sono dovunque nel mondo. Penso però che la prima malattia dell'Africa sia l'assenza di educazione. Soltanto attraverso l'educazione possiamo trasmettere uno spirito di tolleranza e di perdono, lo spirito del vivere insieme, che è molto importante, perché in Africa ci sono Paesi composti da decine di etnie. Ci manca uno spirito di unità. Questa è la fragilità essenziale dell'Africa.

Fragilità dell'Africa. Ma anche il mondo europeo e occidentale vive oggi di incredibili fragilità, spesso descritte nei nostri film.

Mi sembra che in Europa il cinema non riesca più a rappresentare molte categorie sociali che la compongono:  penso agli operai, alle famiglie, ai sacerdoti. Siccome anche il cinema è soggetto alla spietata legge dell'audience, quello che s'interroga sulle vostre fragilità è in netta minoranza. Ha abbandonato le domande sul reale, è diventato soltanto spettacolo. In questo senso, mi sento di dire che il cinema dei fratelli Dardenne sia assolutamente un'eccezione.

E il cinema africano oggi?

Nella vita sono di carattere piuttosto pessimista. Ma Tarkowskij ha detto che l'artista non può essere né pessimista né ottimista, ma soltanto di talento o mediocre. Come ho già detto, il solo atto di filmare il mio Paese è un gesto di speranza. Vuol dire che c'è ancora una possibilità che grazie al cinema qualche cosa cambi.

A Cannes, a Venezia, in ambienti in cui, attraverso il cinema, prende contatto con il mondo occidentale, quale ricordo conserva della sua terra, il Ciad?

Mi ricordo del mio Paese come farebbe una mamma con un figlio. Cerco di essere sempre me stesso, ricordandomi di chi sono, da dove vengo. Non mi faccio prendere dall'opulenza.

Quando a Cannes è stato presentato Un homme qui crie lei ha affermato che questo suo film lancia un grido contro il silenzio di Dio sulla violenza in Africa. In che senso?

Tutte le persone, anche quelle che praticano una religione, vivono la realtà africana in modo così disperato da rivolgersi a Dio chiedendo un segno. Piangono anche per questo. Mi sembra che questa assenza di una manifestazione diretta di Dio scoraggi i popoli africani. In Africa molti attendono un segno col quale Dio dica:  "Ecco, vi sono vicino".

Nel suo prossimo film, protagonista è ancora il continente africano.

Si intitolerà Africa fiasco:  parte da fatti di cronaca vera e racconta la storia di una nave che doveva scaricare ad Amsterdam materiale tossico letale e invece è stata portata a Abidjan, in Costa d'Avorio, dove ha causato un numero enorme di intossicati, di morti e feriti. Così vanno le cose da noi.



(©L'Osservatore Romano 25 novembre 2010)
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