Pier'Alli e la regia del "Moïse et Pharaon" di Rossini che ha aperto la stagione del Teatro dell'Opera di Roma

Piramidi di specchi


di Luca Pellegrini

La figura di Moïse è sempre circondata dal popolo e dal deserto, s'impone sull'acqua e l'oppressore. Pharaon non scardina la sua fede, non piega il suo coraggio:  i falsi dei sono simboli corrotti, il prodotto di un oscurantismo culturale. Alla fine, è il Mar Rosso a lavare via il peccato e la schiavitù. È l'Esodo rivisitato nei versi del vercellese Luigi Balocchi e del francese - di Versailles esattamente - Étienne de Jouy per il penultimo capolavoro di Rossini, segnato, come entrambi i librettisti scrivono in un avertissement, d'un caractère austère et religieux. Parte da questa immagine "oratoriale" e fastosa l'allestimento scenico di Pier'Alli (Pierluigi Pieralli), autore anche di regia e costumi dello spettacolo che ha appena aperto la stagione del Teatro dell'Opera di Roma. Spaventato e rinfrancato dalla Bibbia.
"Il dettato biblico - ci dice - è talmente conosciuto, talmente sacro, da non potere essere toccato. Mi sono lasciato sorprendere e ispirare soltanto dagli elementi semplici e elementari offerti dal libretto, che sembrano compressi in una staticità tutta apparente, mentre accadono cose grandiose che segnano la vita e il futuro di due popoli. Ho cercato di reinterpretare i fatti narrati non raccontandoli in modo letterale, ma come se fossero un viaggio nella memoria compiuto attraverso la rilettura del Libro. L'opera inizia proprio in una scenografia che è una partitura quasi bianca, un grande contenitore astratto, un mausoleo del ricordo e della storia, scandito da un ritmo della composizione della scena originato da tante fessure in cui sono depositati i libri, lentamente estratti, come in una cerimonia ebraica, da figure che richiamano i rabbini. Aprono quelle pagine e leggono per ricordare. Tutto il resto diventa quasi un flashback. Che non è un concetto impoverito, perché questi fatti così lontani nel tempo non sono, nell'animo e nella cultura ebraici, letti come un mito, come un racconto, ma rivissuti ogni giorno come memoria".

Visione e memoria come stili di un racconto musicale.

Si è trattato, in effetti, di lavorare sulla parte visionaria per farle acquisire una valenza moderna e attuale, ossia evitando di riprodurre il racconto in maniera banale. Certamente alcune cose fondamentali sono state di stimolo alla scenografia. A esempio, la consegna delle Tavole della Legge nel primo atto:  è un tema fondamentale che non poteva essere raccontato soltanto dal gesto di Mosè che le impugna e le porta al suo popolo sulla scena, perché così sarebbe caduto nel ridicolo rispetto al senso grandioso del soggetto. In quel momento fondamentale la luce di Dio che promana dal Libro illumina tutti, il popolo sulla scena e il popolo in teatro. La Legge di Dio scritta per noi:  tutto l'allestimento parte dal concetto di tavola scritta, dall'importanza della scrittura, che nel mondo ebraico è sempre presente. La scena in cui si svolge l'opera è come se fosse un amplificarsi della scrittura che si innesta poi nelle tematiche fondamentali:  la sabbia, il deserto, il mare, il viaggio.

Scrivere e leggere, quasi fosse un momento sacro e celebrativo.

Permea tutto lo spettacolo. Diventa momento contemplativo. Con frammenti, però, anche di forte drammaticità:  dopo il preludio musicale, il senso sacro della scrittura ritorna, ad esempio, nel terzo atto, durante le danze nel tempio di Isis, nel corso delle quali la scrittura viene bruciata, creando il massimo di contrasto tra le due culture, una brutalizzazione e una violenza che il popolo egiziano infligge all'ebraico. Alla fine dell'opera, il Mar Rosso diventa acqua che scorre su una scrittura che racconta l'esodo. Il passaggio diventa una sorta di allegoria permanente.

Nel Moïse si alternano momenti spettacolari, di pura invenzione teatrale a episodi, famosissimi, che emergono dalle pagine della Bibbia. Come è riuscito a conciliarli?

Ci sono molti momenti spettacolari, cari al pubblico francese dell'epoca. Per non tradire il senso di austerità del mio allestimento, ho cercato di concettualizzarli. A esempio, il passaggio dall'oscurità alla luce nel secondo atto - l'unica delle nove "piaghe" presente nel libretto - parte da un concetto in cui il buio rappresenta la presenza di una religione popolata da elementi visionari, da animali elevati al culto e alla divinità. È un'oscurità che sovrasta questo popolo, disteso a terra:  nella proiezione che si muove sul fondale bianco, si intuiscono delle forme strane, cioè l'uomo falco, il cobra, la testa del faraone, qualche cosa di magico e sotterraneo della cultura egiziana, di misterico e tenebroso, che fa parte dell'inconscio. Ancora una volta, quando la luce di Dio si sprigiona dal centro della scena, diventa un getto potente e accecante che la invade tutta, scacciando i mostri, le finte divinità.

In Wagner - lei ha realizzato un Ring indimenticabile per il Teatro Comunale di Bologna - il senso della visione era legato a una drammaturgia monumentale. Per Rossini, invece?

Qui ho cercato di essere geometrico, nel senso rossiniano della musica, ossia di trovare una struttura rigorosa all'interno della quale avvengono queste aperture visionarie. Insomma una scena come partitura.

Nell'opera si scatenano forti dissidi interiori:  amore e passione, senso del dovere e forza del potere, fede nell'unico Dio e idolatria. Luce e tenebre. Come è riuscito a esplicitare questi dissidi intimi e collettivi, che mettono popoli e personaggi uno di fronte all'altro, uno contro l'altro?

Il primo scontro, il più forte, è con il potere degli egiziani, che nella mia scena si dilata. Si contrappone alla massa degli ebrei, anch'essa un elemento estremamente invasivo di tutta l'opera, che crea un senso di gruppo e di totalità ed esprime una fede intransigente e forte capace di durare millenni. L'Egitto, da parte sua, con la sua fragilità, non è un Egitto canonico, ma surreale, una megalopoli moderna e arcaica insieme, in cui i faraoni e la sfinge sono iscritti in un clima, in un paesaggio di grattacieli, e la piramide non è di pietra, ma fatta di specchi che riflettono una città virtuale, ossia un'allusione, il sottofondo culturale in cui vivono gli egiziani. È un riflesso nella contemporaneità immaginato senza forzature e trasgressioni, con molto rispetto della musica e del libretto, al di fuori cioè di certe correnti veramente eversive che esistono oggi nell'ambito del teatro musicale. Il dissidio tra i due popoli si esprimere nel rappresentare la potenza immobile dell'Egitto, che si riverbera nelle sue strutture, in opposizione all'ambito ebraico, un luogo asciutto, di esemplare semplicità, ma dinamico, in cui un popolo ha il coraggio della sfida, del porsi nel mezzo, di affermare sempre e comunque le proprie basi culturali, la propria fede. Solo lì può nascere una vera, intima, sfortunata storia d'amore, tra l'egiziano Aménophis e l'ebrea Anaï, due personaggi che vivono questi contrasti di culture come un conflitto molto violento. La forza di Moïse influisce sul loro destino, lui emissario diretto di Dio li sovrasta con la sua fede:  Anaï non può che rinunciare all'amore per l'uomo, che nulla può nei confronti dell'amore per Dio e della fedeltà al popolo e alle sue radici culturali. Anche se questo la costringe a scegliere, per sempre, una certa solitudine.



(©L'Osservatore Romano 5 dicembre 2010)
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