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SYNODUS EPISCOPORUM
BOLLETTINO

della Commissione per l'informazione della
X ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA
DEL SINODO DEI VESCOVI
30 settembre-27 ottobre 2001

"Il Vescovo: Servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo"


Il Bollettino del Sinodo dei Vescovi è soltanto uno strumento di lavoro ad uso giornalistico e le traduzioni non hanno carattere ufficiale.


Edizione italiana

11 - 05.10.2001

SOMMARIO

 

OTTAVA CONGREGAZIONE GENERALE (VENERDÌ, 5 OTTOBRE 2001 - ANTEMERIDIANO)

Alle ore 09.00 di oggi venerdì 5 ottobre 2001, alla presenza del Santo Padre, con il canto dell’Hora Tertia, ha avuto inizio la Ottava Congregazione Generale, per la continuazione degli interventi dei Padri Sinodali in Aula sul tema sinodale Il Vescovo: Servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo Presidente Delegato di turno Em.mus D.nus Card. Bernard AGRE, S.Em.R. Card. Bernard AGRÉ, Arcivescovo di Abidjan.

A questa Congregazione Generale che si è conclusa alle ore 12.30 con la preghiera dell’Angelus Domini erano presenti 247 Padri.

INTERVENTI IN AULA (CONTINUAZIONE)

Sono intervenuti i seguenti Padri:

Diamo qui di seguito i riassunti degli interventi:

S.Em.R. Card. Ricardo María CARLES GORDÓ, Arcivescovo di Barcelona (Spagna)

N. 20: "Avanza una cultura", dice l’Instrumentum laboris, "immanentistica non aperta al soprannaturale; anche fra i cristiani vi è una crescente indifferenza rispetto al futuro escatologico e soprannaturale della vita".

Una cultura immanentistica emargina qualsiasi speranza autentica. E se vi è indifferenza fra i cristiani rispetto a un futuro escatologico, l’oggetto della fede non è atteso né desiderato, cosicché la mancanza

di speranza fa sì che la fede sia fortemente colpita, addirittura morta, per mancanza di contenuti valorizzati dal credente.

Molte volte questo mi induce a pensare che i fedeli - così chiamati perché sono portatori di fede - dovrebbero essere definiti anche "speranzosi", perché devono essere anche portatori di speranza, in quanto desiderano e anelano veramente a quello che è l’oggetto della loro fede: vedere Dio.

Perciò mi sembra opportuno che l’Instrumentum laboris abbia avuto la speranza come filo conduttore del suo pensiero.

Importa, e molto, che nella predicazione e in ogni contatto con il popolo di Dio, noi lo aiutiamo a passare dalla semplice attesa dell’immediato domani al desiderio di raggiungere il futuro escatologico: un’attesa che non sia solamente una mera consolazione per la perdita di questa vita - che è l’unica che non vorrebbe mai perdere - a causa della morte, sebbene in realtà non sia perdita ma trasformazione; bensì conduca all’attesa del fine per cui siamo stati creati: la contemplazione di Dio, al di là della morte. Attesa mantenuta qui come desiderio o nostalgia dell’unione definitiva con Dio.

Non possiamo dimenticare che l’affievolirsi della speranza in Qualcuno o in qualcosa affievolisce anche l’amore.

Oserei dire che la speranza è il fermo sostegno della fede in tempi di crescente incredulità o indifferenza davanti alla fede. E anche motivazione efficace della carità.

N. 13: "Capacità di sognare il futuro e di segnare tracce durevoli".

Nessuna persona umana, meno che mai un cristiano, può rassegnarsi a vivere passivamente o a subire la storia che la coinvolge, anzi deve sentirsi responsabile e chiamata a migliorare la cultura in cui vive. Deve cioè lavorare per innalzare il livello dei valori, degli atteggiamenti, delle motivazioni, delle linee politiche, della cultura del suo paese. Deve essere spinta a tutto ciò da una forte speranza.

Per questo, dobbiamo spiegare al popolo di Dio, per quanto riguarda il suo comportamento, non soltanto quali peccati deve evitare, cioè come deve difendersi dal male, ma soprattutto come deve realizzare il bene. Poiché spesso i cattolici hanno più chiaro quel che non devono fare - hanno il senso del peccato, sebbene non tutti e non in tutte le sfere - ma non hanno tanto chiaro che cosa ci si aspetta che facciano. E qui entra in gioco ciò che la società richiede loro, la chiamata alla santità personale, ciò che Dio si aspetta dalla loro vita. In questo senso, occorre tenere presente che coloro che si ricordano del passare del tempo e segnano una traccia per il futuro sono i santi. Sono loro che continuano a esercitare il loro influsso sull’agire delle persone di oggi e sulla formazione delle loro coscienze.

N. 34: "Senza la speranza tutta l’azione pastorale del vescovo sarebbe sterile".

Concludo confessando che, quando molto spesso nella preghiera contemplo - con sguardo di fede - la realtà diocesana, nient’affatto facile per l’attecchimento del Vangelo, chiedo al Signore che non applichi ai possibili risultati pastorali la misura della mia fede e la mia risposta alla medesima. Mi conforta sapere che il risultato dipende più da Dio e dal suo disegno salvifico che da me, ma non per questo si può coltivare meno la speranza davanti a tutto. Mi riferisco a parole di Gesù ripetute tante volte come queste: "Credete voi che io possa fare questo?", "Uomo di poca fede, perché hai dubitato?". E soprattutto alla frase di Gesù che dice: "Sia fatto secondo la tua fede".

Infine, chiedo al Signore che nell’evangelizzazione e nella santificazione del popolo, Egli vada molto al di là di quello che io, nel profondo della mia anima, vedo come possibile, anche se non mi considero pessimista. Che il Signore non mi dica: "Sia fatto secondo la tua fede", perché molte volte il suo popolo non ne sarebbe favorito.

Per questo, ringrazio il Santo Padre e quanti con lui hanno collaborato per aver insistito che noi vescovi siamo "servitori del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo".

[00123-01.04] [in098] [Testo originale: spagnolo]

S.Em.R. Card. Jean HONORÉ, Arcivescovo emerito di Tours (Francia)

Nel n. 58 dell’Instrumentum laboris, si dice che l’orizzonte dei nostri lavori deve essere illuminato dall’esempio dei santi vescovi che ci hanno preceduto. Mi limiterò ad accennare al profilo dei vescovi nell’esercizio del loro compito a servizio della loro Chiesa particolare.

Come hanno vissuto il ministero episcopale?

Quali sono le caratteristiche principali di questo ministero?

Quelli la cui conoscenza mi è più familiare, in Francia e in Italia, nel corso di due epoche critiche della storia, quella della Controriforma e quella del XIX secolo seguito alla Rivoluzione Francese, permettono di estrapolare quattro dimensioni apostoliche che fanno riconoscere i "buoni Pastori".

- La vicinanza al popolo di Dio affidato a loro;

- l’attenzione privilegiata nei riguardi dei sacerdoti;

- l’accoglienza di nuove forme di istituti di sacerdoti e di vita consacrata;

- la predilezione per i poveri.

Il vescovo di oggi si inscrive in questa tradizione. Egli è l’anello che tiene unita la catena. Se i tempi sono cambiati, i grandi sforzi apostolici nella vita e nell’azione pastorale non sono sempre attuali? I vescovi del passato sono stati gli operatori della speranza per gli uomini del loro tempo. Prendiamo le vie che hanno seguito per aprire il nostro mondo alla speranza che è nel Cristo.

[00125-01.04] [in100] [Testo originale: francese]

S.E.R. Mons. Olivier DE BERRANGER, Vescovo di Saint-Denis (Francia)

"Nella Chiesa nessuno è straniero" (§ 84). Questa affermazione dell’Instrumentum laboris, come non farla mia, nella diocesi di Saint-Denis, che conta oltre 170 etnie? La Chiesa cattolica appare qui come un "piccolo gregge". Ma essa è quel luogo unico dove chiunque, da dovunque provenga, deve potersi sentire accolto "come un fratello, una sorella, una madre". Fra noi abbiamo ebrei, musulmani e appartenenti a correnti religiose più difficili da definire.

I battezzati, mescolati a questa popolazione sradicata, si rendono conto, a poco a poco, di essere chiamati insieme ad amare, "in atti e in verità", un prossimo che non hanno scelto. Abbiamo appena fatto esperienza di un sinodo diocesano. Contrassegnato da una ripresa di fervore e di gioia, questo avvenimento ha richiamato, per noi, la dinamica del Giubileo. Nelle parrocchie, nei servizi diocesani e nei movimenti dei laici, si è voluto fare posto ai cristiani venuti da altri luoghi. In seguito a questo sinodo, comprendo quanto i diversi "consigli" incoraggiati dal decreto Christus Dominus e ben definiti sul piano canonico dal Codice del 1983, aiutano a vivere il ministero episcopale in uno spirito di fiducia nei confronti dei sacerdoti, dei diaconi, dei laici e dei consacrati. Il magistero del vescovo non è diluito, anzi risveglia il "senso della fede" (LG, 12) e di esso si nutre.

Grazie alla Lettera apostolica Novo millennio ineunte, osiamo affrontare questioni che non avevamo mai avuto il coraggio di trattare, come quella dei ministeri, "istituiti o semplicemente riconosciuti". La priorità data alle vocazioni al ministero sacerdotale dà i suoi primi frutti. Il Sinodo dei vescovi troverà la sua ragion d’essere nella misura in cui oserà farsi carico delle sfide attuali e di quelli che l’Instrumentum laboris definisce "segni di vitalità e di speranza del nostro tempo" (25).

[00126-01.04] [in101] [Testo originale: francese]

S.E.R. Mons. Joseph Serge MIOT, Coadiutore e Amministratore Apostolico "sede plena" di Port-au-Prince (Haiti)

Quale sfida per noi vescovi del Terzo Mondo essere testimoni della speranza in questo nostro mondo smarritoPer meglio definire la nostra identità di vescovi, siamo stati costituiti apostoli (cfr. Mc 3, 10-15), consacrati e mandati come Gesù (cfr. Gv 10, 30), segnati come economi e amministratori della grazia (cfr. 1 Cor 16, 21-23).

Testimoni della speranza, i vescovi predicano in ogni occasione opportuna e non opportuna (2 Tm 4, 2). Haiti, il nostro amato paese è talmente scosso. Papa Giovanni Paolo avrebbe ragione di dire ancora oggi: "qualche cosa deve cambiare" per poter ristabilire l’equilibrio sociale.

Il popolo di Haiti vive una storia complessa e movimentata. Si tratta di una storia di lotta per la liberazione degli oppressi. È forse l’eredità di una classe di persone massacrate, di altre strappate dal loro paese e gettate nella schiavitù con tutti i suoi orrori. Alla fuga dalla schiavitù su vasta scala ha fatto seguito l’Indipendenza del 1804, conquistata eroicamente con i pochi mezzi a disposizione contro Spagnoli, Inglesi e Francesi nettamente indeboliti da varie cause.

Questa fuga dalla schiavitù non è finita come indicano le numerose crisi politiche e si è fatta ancora più presente con la globalizzazione e la mondializzazione.

I vescovi di Haiti sono chiamati a scegliere la santità, a predicare il Vangelo della speranza in un mondo di contraddizioni.

È molto evidente che noi vescovi di Haiti siamo chiamati ad un particolare discernimento nel contesto peculiare dell’attuale vita socio-politica. Ma tutto ciò nell’intimità con il Cristo che ci chiama amici (cfr. Gv 15, 15).

La nostra missione, quindi, sulla via dell’uomo di Haiti, è di essere luce sul cammino, costruire il Corpo di Cristo, promuovere gli uomini laddove rinascono speranze deluse.

Per questo "Ecclesia in America" e "Novo millennio ineunte" ci interpellano nella carità. Siamo solidali nell’aiuto reciproco, senza alcuna discriminazione sotto l’egida del Padre celeste. Il Vangelo non sarà lettera morta. Rimane Parola di vita, "Evangelium vitae".

Cari vescovi, superiamo il muro della paura. Siamo i testimoni di Cristo Risorto. Prendiamo il largo "duc in altum". Il sole della domenica di Pasqua splende su di noi.

[00127-01.04] [IN102] [Testo originale: francese]

S.Em.R. Card. Cormac MURPHY-O'CONNOR, Arcivescovo di Westminster, Presidente della Conferenza Episcopale (Inghilterra)

Il vescovo ha il triplice ministero di insegnare, santificare e guidare il popolo della sua diocesi. Sono sempre più consapevole della necessità non solo di conservare la fede, ma anche di approfondirla tra i sacerdoti e la gente.

La cultura consumistica affievolisce la fede e rende più difficile l’impegno sia ad insegnarla che a praticarla. Un modo in cui il vescovo può contrastare questa cultura del consumismo consiste nell’avviare un piano che tenda al rinnovamento spirituale e pastorale del suo popolo. Propongo che il Sinodo rifletta su un tale programma, che dovrebbe comprendere quattro elementi fondamentali:

1. Preghiera e liturgia, in particolare l’Eucaristia, e uno studio rinnovato delle Scritture.

2. Comunità, soprattutto piccole comunità - gruppi di persone che si incontrano per pregare, riflettere sulla Parola di Dio e collegarla alla loro vita quotidiana: essi possono trasformare la parrocchia.

3. Formazione: una catechesi efficace su ciò in cui crediamo (il Credo), su ciò che celebriamo (i sacramenti) e sul modo in cui dovremmo vivere (i comandamenti e le beatitudini).

4. Operare per la giustizia e la pace, essere la voce di chi non ha voce e dedicarsi ai bisognosi.

Per realizzare un piano del genere, il vescovo è determinante. Soltanto lui può avviare e animare una simile impresa; per cui la formazione dei vescovi, a livello sia internazionale che locale, è un elemento integrante.

Il ruolo del vescovo diocesano è quello di creare un’atmosfera in cui i cuori e le menti siano aperti all’ispirazione dello Spirito Santo.

Non perdiamoci d’animo: il Signore Gesù Cristo è con noi.

[00128-01.04] [in103] [Testo originale: inglese]

S.E.R. Mons. Pierre MORISSETTE, Vescovo di Baie-Comeau (Canada)

Una consultazione pre-sinodale condotta tra i fedeli del Canada, ha messo in evidenza alcuni tratti della figura del vescovo che possono renderlo testimone di speranza nel mondo attuale. Egli deve essere prima di tutto un uomo di fede, fede nella presenza di Dio nel mondo, fede in Dio che ha vinto la morte. Ci si aspetta inoltre che il vescovo sia un uomo lungimirante, che sappia leggere i "segni dei tempi", discernendo i segni della vita nella società attuale e annunciando il Vangelo in tutta la sua forza, con linguaggi nuovi, di modo che possa essere compreso dai nostri contemporanei. Inoltre, il vescovo deve essere un uomo di comunione che sappia valorizzare i talenti di tutti i membri del popolo di Dio, favorendo le diversità legittime e conservando nella pace e nell’armonia le diverse tendenze che si esprimono nel popolo di Dio. Così, i conflitti, lungi dal dividere la comunità, potranno divenire occasioni di crescita. Promotore della dignità umana, il vescovo deve permettere agli uomini e alle donne di stare in piedi, unendo le azioni alle parole, portando il Vangelo al cuore stesso delle maggiori questioni sociali e delle diverse fratture che affliggono l’umanità. Infine, uomo di compassione, il vescovo è testimone della speranza poiché riflette la bontà di Cristo verso tutti coloro che soffrono.

La stessa consultazione ha rivelato anche che il vescovo viene spesso visto come un amministratore o come qualcuno che rappresenta idee che provengono da lontano. Questo ci porta dunque ad interrogarci, sia a livello che universale, sulle nostre strutture, il nostro modo di operare e il nostro modo d’essere, ereditati dal passato, che dovrebbero essere rinnovati per poter meglio annunciare il Vangelo oggi. In breve, si tratta di "rivedere" la figura del vescovo, di modo che traspaia più chiaramente in lui l’immagine del buon Pastore e servitore che lava i piedi ai suoi discepoli.

[00129-01.04] [in104] [Testo originale: francese]

S.E.R. Mons. Claude DAGENS, Vescovo di Angoulême (Francia)

Mi sembra necessario sottolineare il carattere apostolico del ministero episcopale più di quanto faccia l’Instrumentum laboris.

Questo carattere apostolico non è evidente in società che considerano la missione della Chiesa e quella dei vescovi secondo criteri politici e sociali. Mentre fino a ieri i vescovi venivano identificati con monarchi o principi, oggi essi sono spesso identificati con amministratori o arbitri.

Anche se la storia della Chiesa fra i popoli può spiegare il ricorso a questi modelli politici, spetta a noi manifestare la nostra identità apostolica.

Sul piano teologico, occorre fare appello alla sacramentalità e alla collegialità dell’episcopato, ma senza separarle dalla cristologia. È il Cristo che, mediante il suo Spirito Santo, ci costituisce come suoi testimoni e rappresentanti, sulle orme degli apostoli.

Sul piano spirituale, ciascuno di noi può dire come si unisce alla Croce di Cristo attraverso il Suo Corpo che è la Chiesa. Ci accade anche di soffrire per la Chiesa, quando essa è paralizzata dalle sue stesse tensioni o quando lo slancio della fede e della carità è ostacolato da strutture troppo pesanti, troppo rigide o troppo burocratiche.

Sul piano pastorale, lavoriamo perché le nostre Chiese particolari siano fedeli alla loro identità apostolica, imparando a vivere del Cristo per annunciarLo al mondo. A tal fine, noi, in Francia, vegliamo perché la collaborazione fra sacerdoti e laici obbedisca a una logica sacramentale che permetta di dispiegare i doni ricevuti da Dio, e non a una logica funzionale dove si tenderebbe soltanto a dividersi dei poteri.

Questa attuazione del carattere apostolico del nostro ministero ha anche una valenza politica. Essa ci rende liberi, di fronte a qualsiasi potere politico, di dar voce a questioni che condizionano l’avvenire umano delle nostre società. In nome di che cosa, affermare la dignità di ogni figlio di Dio? In nome di che cosa, rifiutare la violenza e perseguire la riconciliazione?

Siamo dunque dei maestri e dei servitori della fede ricevuta da Dio, ma anche dei maestri e dei servitori della carità di Cristo, al servizio di tutti e in primo luogo degli umiliati e dei dimenticati delle nostre società. Auspico che questo sinodo ci incoraggi a servire quest’alleanza fra la fede e la carità.

[00130-01.04] [in105] [Testo originale: francese]

S.E.R. Mons. David PICÃO, Vescovo emerito di Santos (Brasilia)

Il nostro Instrumentum laboris dedica al tema dei Vescovi Emeriti il numero 76.

Dispensati dal loro incarico di amministrare una Diocesi, continuano gli stessi ad essere membri del Collegio Episcopale (cfr. Can. 336).

Nonostante si riconosca la convenienza dell'Emeritato per il bene delle Chiese Particolari, dobbiamo nello stesso tempo fare alcune osservazioni:

l. Sappiamo che molti emeriti, a 75 anni, ancora hanno abbastanza buona salute e mente lucida. A vendo in vista l'aumento della qualità di vita, il fissare l'età per la "rinuncia" (Can. 401, §l) dovrebbe essere prorogata, per ora, ai 78 anni (l).

2. I Vescovi Emeriti continuano membri dei Collegio Episcopale, perché non ammetterli come membri delle Conferenze Episcopali?

3. Se gli Emeriti hanno voce e voto deliberativo nel Concilio Ecumenico e nei Concili Particolari, perché non è dato loro voto nelle Assemblee delle Conferenze Episcopali?

4. Se il Vescovo Emerito continua ad essere vincolato alla stessa diocesi, dovrebbe meritare che il suo nome fosse dichiarato nel Canone della S. Messa subito dopo il nome del Vescovo Diocesano, fatto che manifesterebbe ben pio il suo vincolo con la diocesi.

5. Dovrebbero anche gli stessi Vescovi Emeriti avere la facoltà ordinaria per assistere ai matrimoni, nei limiti della Diocesi.

6. Riguardo alla residenza, il Diritto concede agli Emeriti conservare la loro residenza nella Diocesi che hanno governato. Salvaguardate alcune provvidenze della Santa Sede o criteri personali, penso che il Vescovo Emerito normalmente deve rimanere in diocesi, testimoniando la vita d'unità col nuovo Vescovo diocesano, nella disponibilità a collaborare con lui in quanto egli sollecita. L'esperienza però dimostra che l'Emerito deva saper agire con sapienza e discernimento per non entrare nei problemi del governo diocesano. Sarebbe da mettere in rilievo che l'Emerito deve avere la prudenza di non fare commenti sfavorevoli alla persona e agli atteggiamenti del Vescovo diocesano. Missione primordiale del Vescovo Emerito è pregare per il nuovo pastore della Diocesi e per la sua comunità diocesana.

7. Quanto alla precedenza onorifica nel territorio della Diocesi (parlo con semplicità), il Vescovo Emerito dovrebbe essere il primo dopo il Vescovo diocesano.

(l) - Studi fatti dall'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), avvisano che nell'anno 2050 ci saranno nel mondo 2.200.000 "centenari" (Apud Consiglio Pontificio per i laici - La Dignità dell'Anziano e la sua missione nella Chiesa e nel Mondo, del 1.10.1998 - Introduzione).

[00131-01.04] [in106] [Testo originale: italiano]

S.E.R. Mons. Joseph POWATHIL, Arcivescovo di Changanacherry dei Siro-Malabaresi, (India)

I. Eucaristia e difesa della fede

Le Chiese orientali considerano il vescovo una persona eucaristica. Come insegnante egli deve assicurare che la conoscenza e la proclamazione della fede della comunità si accordino con la sua celebrazione eucaristica. Il vescovo proclama la Parola per raccogliere un popolo cristiano attorno all’Eucaristia, dove viene celebrata e proclamata la fede dei nostri padri. Con vari pretesti, la Chiesa è sempre stata tentata di diluire la tradizione apostolica al fine di adattarla alla comodità della gente. Mentre gli insegnanti e i predicatori dei moderni mezzi di comunicazione confondono i normali credenti, il vescovo ha il compito di far sentire la propria voce per la Chiesa di Cristo. Egli deve controllare e coordinare l’esercizio dei carismi alla luce della tradizione apostolica. Questo fa sì che si rinunci alla propria vita per difendere la fede autentica.

II. Ministero collegiale

Il vescovo deve insegnare e agire in comunione con il collegio episcopale sotto la guida del vescovo di Roma. In Oriente, ciò è detto "sinodalità", un muoversi insieme dell’intera Chiesa con i vescovi uniti strettamente tra loro secondo il modello del Dio Uno e Trino. Nel processo sinodale, i vescovi verificavano insieme la loro fede. Il ministero petrino nella Chiesa consiste nell’aiutare le singole Chiese ad essere fedeli alle proprie tradizioni. L’ufficio petrino dovrà incoraggiare le iniziative locali valide e rafforzare le necessarie strutture locali. Questi due non devono necessariamente essere contrapposti.

III. Impegno ecumenico

Il vescovo ha l’obbligo di promuovere l’ecumenismo attraverso la preghiera, la collaborazione, la fedeltà alla tradizione e il dialogo teologico. Le Chiese Cattoliche Orientali svolgono un ruolo importante nel promuovere l’ecumenismo. Lo svolgono rimanendo fedeli alle proprie tradizioni liturgiche, teologiche e spirituali. Dovrebbero avere il coraggio di riconoscere l’intero retaggio orientale e conformarvi la loro vita. La Chiesa occidentale dovrebbe riconoscere pienamente questo ruolo delle Chiese Orientali e il loro diritto di offrire le cure pastorali ai propri migranti.

[00132-01.04] [in107] [Testo originale: inglese]

S.Em.R. Card. Mario Francesco POMPEDDA, Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica

La scelta di impostare l'Assemblea sinodale, già nella titolazione dell'argomento, ma ancor più nel tessuto della proposta, sulla speranza, su Cristo, speranza del mondo, non può che essere condivisa. La speranza non solo apre operativamente all'azione, ma molto più proietta la Chiesa al fuori di sé. E in questa apertura scopre la speranza escatologica di cui è portatrice, proprio perché gli uomini necessitano, hanno sete di questa Speranza, dopo e fra tante proposte di ideologie utopistiche o riduzioni materialistiche. Non si può, inoltre, non notare come, nell'ormai quarantennale esperienza del Sinodo dei Vescovi non tutte le sue potenzialità, anche istituzionali, si siano finora esplicate, mentre la struttura del Sinodo, appariva perfezionabile, non ha subito mutamenti.

L'autorità. e la responsabilità del Vescovo nei confronti della Chiesa particolare si esplicano su tutti i fedeli, non esclusi coloro che aderiscono ai nuovi movimenti ecclesiali, che sono un dono dello Spirito per la Chiesa. Ciò però è ben lungi dal significare un soffocamento della vitalità che essi manifestano. Il giudizio sulla loro genuinità e il loro esercizio ordinato appartiene a coloro che presiedono nella Chiesa, ai quali spetta specialmente, non di estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono. Il ministero di comunione, che è proprio del vescovo, non può portare ad una contrapposizione, né tollerarla, tra movimenti e Chiesa particolare con le sue articolazioni. I principi di questo rapporto, che vede il vescovo come primo responsabile, sono stati enucleati m maniera compiuta dal Sommo Pontefice, anche in occasioni recenti. Si vorrebbe piuttosto qui attirare l’attenzione sull'inopportunità dell'identificazione, a volte addirittura strutturata e pubblicizzata, di alcuni vescovi con l'uno o l'altro dei nuovi movimenti. Non si intende negare che un vescovo possa provenire da un’esperienza di partecipazione interna ad un movimento. Si tratta piuttosto dell'impatto negativo che oggettivamente porta in sé per il ministero dei vescovo, per la Chiesa particolare e, a ben vedere, per lo stesso movimento, la confusione o l'equivoco fra il ministero di unità del vescovo e l'esperienza sua personale carismatica.

[00170-01.04] [in068] [Testo originale: italiano]

S.E.R. Mons. Henry Sebastian D'SOUZA, Arcivescovo di Calcutta (India)

Nella Lettera apostolica Novo millennio ineunte, sono riportate le parole di Gesù all’apostolo Simone: "Duc in altum", "prendete il largo". Anche l’effetto viene sottolineato. "Presero una quantità enorme di pesci" (Lc 5, 6). Avendo presente questo insegnamento, vorrei fare le seguenti riflessioni riguardo all’inculturazione e al rinnovamento liturgico.

Papa Giovanni Paolo II, in una lettera al Cardinale Segretario di Stato (20 maggio 1982), ha scritto: "Una fede che non è stata inculturata è una fede che non è stata pienamente accolta, che non è stata completamente meditata, che non è stata fedelmente vissuta". Il messaggero predica il Vangelo dall’interno del proprio contesto culturale. Poiché il Vangelo è stato sempre incarnato nella cultura, non possiamo parlare del suo accostarsi a una nuova cultura allo stato puro. D’altro canto, le persone che lo accolgono, lo accettano nel contesto della propria cultura, compresa la lingua, le tradizioni sociali e il retaggio religioso.

Le traduzioni da una lingua morta (latino), che fanno parte di una cultura straniera morta (romana), anche se viste come veicolo di ortodossia, non rispondono in modo soddisfacente al carattere e allo stile di vita indiano e ai linguaggi tribali. Gli indiani e le popolazioni tribali si esprimono con linguaggi che sono molto pittoreschi, simbolici, poetici ed emotivi. Di conseguenza abbiamo bisogno di una versione libera e in idioma vernacolare dei libri originali di rito latino, sia del Messale che del Rituale. Non v’è dubbio che occorre fare attenzione perché sia preservata la purezza della dottrina e mantenuta l’atmosfera del sacro.

Per questo motivo il Sacrosanctum Concilium ha consentito, nella revisione dei libri liturgici, legittime variazioni e adattamenti a gruppi, regioni e popolazioni diverse, specialmente in terra di missione. Ad gentes ha preconizzato che "le nuove chiese particolari, arricchite delle loro tradizioni, avranno il proprio posto nella comunione ecclesiale, intatto restando il primato della cattedra di Pietro, che presiede all’assemblea universale della carità" (n. 22).

Il Rito Romano è diretto, conciso e compatto, caratteristiche queste che sono esattamente l’opposto delle culture e delle lingue in India. Il Sacrosanctum Concilium auspicava soltanto il mantenimento dell’unità sostanziale del rito romano. Deve esserci spazio per le differenze culturali dei vari popoli e razze e per la creatività dinamica all’interno delle nuove Chiese. Mentre rispondiamo all’appello di "prendere il largo", noi vescovi, servitori del Vangelo, vogliamo essere segni di speranza per la nostra gente.

[00124-01.03] [in099] [Testo originale: inglese]

S.E.R. Mons. Víctor Alejandro CORRAL MANTILLA, Vescovo di Riobamba (Ecuador)

Il vescovo, i poveri e le culture autoctone

1. Quelli che hanno riposto le loro speranze nella Chiesa e pertanto nei vescovi sono i poveri; e non si creda che queste speranze siano meramente materiali.

I poveri sono grati alla Chiesa perché con il Vangelo sono stati aiutati a scoprire la loro dignità di persone, di figli di Dio; perché sono accompagnati nella loro ricerca di vita, dignità e giustizia; e perché si rispettano e si valorizzano le loro capacità personali e comunitarie.

I poveri aumentano ogni giorno di più, e tuttavia nell’economia globalizzata del nostro tempo non contano, sono esclusi. Noi vescovi dobbiamo proclamare ancora una volta che i poveri (e i popoli e le culture, per piccoli e insignificanti che siano) sono persone umane e come tali costituiscono il nucleo centrale della Buona Novella di Gesù e della Dottrina Sociale della Chiesa.

2. Riguardo a cultura e inculturazione, il n. 110, che tratta questi temi, andrebbe riformulato. Occorre sottolineare il compito evangelizzatore del vescovo di fronte alla cultura moderna e postmoderna, senza dimenticare le culture autoctone e i nuovi movimenti culturali: dei poveri, delle donne, dei giovani, ecc.

"La povertà evangelica non solo predicata, ma anche vissuta e testimoniata dai vescovi, è uno dei requisiti indispensabili perché l’annuncio del Vangelo sia ascoltato e accolto dall’uomo di oggi".

[00133-01.04] [in108] [Testo originale: spagnolo]

S.E.R. Mons. Berhaneyesus Demerew SOURAPHIEL, C.M., Arcivescovo Metropolita di Addis Abeba (Etiopia)

Tra i momenti difficili in cui il vescovo vede messo alla prova il suo ruolo di guida, vi sono i tempi di conflitto. Spesso i conflitti nascono in modo improvviso e i vescovi vi si trovano dentro. Molte persone, nonché i mezzi di comunicazione, si rivolgono al vescovo per ricevere una pronta risposta, aiuto, comprensione, conforto, ecc. Che cosa può fare il vescovo?

I vescovi dell’Etiopia e dell’Eritrea recentemente hanno dovuto affrontare una simile situazione. Tra i due paesi è sorto un conflitto di confine che ha portato alla guerra. È sorto tra due popoli che condividono la stessa storia, religione e cultura. Quando c’è guerra tra fratelli e sorelle, le conseguenze sono terribili. Sono morte migliaia di persone e la guerra è terminata. Ora le Nazioni Unite partecipano al mantenimento della pace.

Le guerre non solo distruggono e uccidono, ma dividono e separano. Tuttavia, per grazia di Dio, prima, durante e dopo la guerra, i vescovi dell’Etiopia e dell’Eritrea sono rimasti uniti in un’unica Conferenza episcopale. Non è stato facile restare uniti, soprattutto quando tutti gli altri si separavano. Il fatto che la Conferenza sia rimasta unita è diventato un segno di speranza per i popoli dell’Etiopia e dell’Eritrea. In mezzo al conflitto e alla guerra, essa è diventata la voce della ragione, appello per la pace e compassione.

Ritengo che, per grazia di Dio, la Conferenza abbia agito bene durante il conflitto. Non si è schierata. Attualmente gode di una grande credibilità e viene invitata a essere uno strumento di riabilitazione, di riconciliazione e di edificazione della pace.

[00134-01.04] [in109] [Testo originale: inglese]

S.E.R. Mons. Gaudencio B. ROSALES, Arcivescovo di Lipa (Filippine)

Per Gesù evangelizzare significava innanzitutto proclamare il Regno di Dio (cfr. Mc 1, 15). E al centro del Vangelo vi era il Regno, che veniva presentato come "prima cosa indispensabile" (cfr. Lc 12, 31). Il Regno di Dio, il cui più centrale e sommo valore è l’amore, è assoluto. Ogni altra cosa è relativa ad esso (cfr. EN, 8).

Ma l’amore quale sommo valore veniva presentato come grande dono di salvezza di Dio all’uomo (cfr. Gv 3, 16). E questo amore veniva offerto come qualcosa che rendeva liberi, salvando gli uomini da ignoranza, malattia, fame, ingiustizia, egoismo, odio e violenza. Soprattutto, Gesù perdonava i peccati, poiché erano alla radice di ogni miseria umana e schiavitù. La salvezza, che prima qualcuno considerava esclusivamente una liberazione dal peccato, ebbe un’immagine integrale nella redenzione ottenuta da Gesù, poiché egli ha liberato gli uomini da ogni tipo di oppressione o di controllo da parte del maligno.

Anche se i principi generali della dottrina sociale della Chiesa possono offrire una guida nella soluzione dei problemi, occorre dire che la Chiesa e i suoi vescovi possono rappresentare lo spirito o la spiritualità del Pastore in grado di ispirare una possibile soluzione dei problemi umani.

La spiritualità del vescovo è la communio che gli permette di conoscere e amare il Dio Uno e Trino - Padre, Figlio e Spirito Santo -, fonte di unità e di communio. Essere chiamati a questa Communio Eterna, significa imparare a conoscere la preghiera, la riflessione, il silenzio, la solitudine e la contemplazione.

Ma l’amore di Dio è stato offerto all’uomo quando "il Verbo si fece carne" (Gv 1, 14). In Cristo l’amore divino venne espresso in modo umano e l’uomo conobbe un’altra dimensione della communio tra gli uomini. Il vescovo, quindi, viene in contatto con quella spiritualità che lo ispira ad una maggiore sensibilità verso i sofferenti, a una maggiore compassione, a donarsi, a essere più indulgente, a infondere coraggio, ad avere speranza e audacia!

[00135-01.04] [in110] [Testo originale: inglese]

S.Em.R. Card. Bernardin GANTIN, Decano del Collegio Cardinalizio (Città del Vaticano)

1) Tutte le giovani Chiesa d’Africa, che hanno recentemente celebrato il loro primo Centenario di Evangelizzazione, hanno espresso due grandi sentimenti: la gratitudine verso Dio e verso la Chiesa e la speranza per il futuro. Facendo miei questi due modi di onorare la Storia dell’Evangelizzazione nel continente con la sua bella epopea missionaria, desidero unirmi al tema di riflessione del nostro Sinodo.

2) Ringraziare, infatti, è fare memoria. Ma è anche ripromettersi di valorizzare il dono ricevuto. Rendere grazie è anche rendere omaggio e aprire la porta alla speranza. Laddove la grazia di Dio ha assecondato lo sforzo dell’uomo, talvolta fino all’eroismo, c’è motivo di meravigliarsi.

3) Qui dobbiamo ricordare l’instancabile incoraggiamento e l’accompagnamento profetico dei grandi Papi del secolo scorso e, più vicini a noi, di Paolo VI e di Giovanni Paolo II.

Già nel 1994, il Sinodo continentale per l’Africa aveva messo l’accento sulla Speranza, una speranza pasquale basata sulla Risurrezione di Gesù Cristo. La Chiesa, in tutte le sue componenti, doveva guardare al futuro e impegnarsi. Il ruolo del Vescovo è qualcosa a parte. "Lo Spirito del Signore è su di me. Mi ha inviato a portare la Buona Novella ai poveri".

4) I poveri sono una legione in Africa, vale a dire uomini e donne che mancano di cibo, salute, istruzione, lavoro, sicurezza e persino patria. In Africa siamo detentori, a causa delle nostre interminabili guerre, del triste primato dei rifugiati e di quanti non hanno né terra né libertà. I poveri sono anche i giovani. Siamo colpiti dalla loro vitalità prorompente. Essi costituiscono la maggioranza assoluta. Ma povere sono anche, e da sempre, le donne. La loro condizione è difficile e precaria, ma la loro capacità di amare e di servire viene sempre più apprezzata. Evangelizzarle secondo l’impegno della Chiesa significa aprire una grande fonte di speranza...

5) Il Beato Papa Giovanni XXIII voleva una Chiesa povera e al servizio. Chi più del Vescovo può offrirne l’immagine e la testimonianza al mondo?

In Africa, abbiamo optato per una Chiesa-famiglia: non si tratta forse del luogo della solidarietà, della comunione e della condivisione? Se possiamo donare qualcosa della nostra povertà per la condivisione missionaria, come è stato auspicato innumerevoli volte dai nostri fratelli latinoamericani, non sarebbe questa una garanzia della nostra speranza e della nostra sopravvivenza?

6) Abbiamo fiducia totale in Dio, poiché crediamo alla fecondità della Croce, che fino a questi ultimi tempi ha tragicamente caratterizzato la nostra storia: penso, tra gli altri, all’assassinio di Mons. Plumey in Camerun, di Mons. Claverie e dei sette monaci trappisti in Algeria... Penso a Mons. Christophe Munzihirwa in Congo e a Mons. Kataliko, il suo successore, morto qui a Roma, stremato dalla fatica, durante un grande incontro di Vescovi africani.

A Timoteo, giovane vescovo al servizio delle prime comunità cristiane, San Paolo si rivolgeva ancora domenica scorsa, giorno di apertura del nostro Sinodo da parte del Papa con la Messa e la sua omelia...

Accogliere questo messaggio in un’anima piena di speranza equivale a impegnarci a diventare come i buoni pastori di ieri e di oggi: vescovi e sacerdoti "poveri, servitori, profeti, intrepidi e santi". Ad spem per Crucem. È attraverso la fedeltà al mistero di Cristo morto e risorto che arriveremo alla Speranza.

[00163-01.04] [in112] [Testo originale: francese]

S.E.R. Mons. Anastase MUTABAZI, Vescovo di Kabgayi (Rwanda)

Interveniamo a nome della Conferenza Episcopale del Ruanda, ma le sfide che evochiamo e gli sforzi che siamo chiamati a compiere rivelano condizioni di vita che condividiamo con i nostri vicini della Regione dei Grandi Laghi, e forse anche oltre.

Alcune sfide

In Ruanda, il Vescovo è chiamato a testimoniare la Speranza, nel nome del Vangelo, in un paese straziato, in una regione in cui imperversano la guerra e la violenza sotto varie forme, il cui parossismo è stato il genocidio e i massacri del 1994.

Assistiamo ad un’espansione senza precedenti della nostra società, che si manifesta attraverso le guerre etniche, i movimenti incessanti di rifugiati, un gran numero di orfani e di vedove, una popolazione carceraria il cui aumento mette a dura prova le possibilità di una sana gestione. Tutto questo si va ad aggiungere alle devastazioni della pandemia dell’AIDS, ad una povertà crescente che ipoteca gravemente l’educazione e il benessere della popolazione.

Impegno per affrontare tali sfide

Gli incontri organizzati tra le Conferenze del Burundi, del Congo e del Ruanda hanno permesso una concertazione tra le Chiese dei tre paesi sulla situazione dei nostri popoli. Sono stati inviati messaggi per esortare alla ricerca della pace, tra l’altro quello del novembre 1999: "Siete tutti fratelli (Mt 23, 8): fermate le guerre!"

Nella Conferenza del Ruanda, la pastorale delle celebrazioni giubilari ha rappresentato un’occasione propizia per un esame di coscienza a tutti i livelli dell’organizzazione ecclesiale, per ricominciare con uno spirito nuovo e ricostruire una società riconciliata.

Questi sforzi di rinnovamento sono stati canalizzati dall’organizzazione di un Sinodo straordinario sulla questione etnica in tutte le diocesi del Ruanda. I dibattiti durante gli incontri sinodali hanno aperto la strada verso una migliore coscienza di un passato che occorre far proprio per purificarne i germi dell’esclusione e dell’odio e affrontare più risolutamente le sfide attuali.

Viene organizzato un programma pastorale di riconciliazione a tutti i livelli della vita della Chiesa.

La Chiesa si impegna altresì in un programma nazionale di tutela della vita e della salute, in particolare nella lotta contro la pandemia dell’AIDS, nonché nella pastorale dei carcerati, delle vedove, degli orfani e delle altre persone rese vulnerabili dagli effetti della guerra e del genocidio.

Appello della Chiesa Universale

Nell’affrontare questa sfida, il Vescovo ha bisogno di vivere una comunione effettiva con gli altri Vescovi e con la Chiesa universale. Auspichiamo che il Collegio dei Vescovi manifesti soprattutto la sua solidarietà a favore di coloro che compiono la loro missione in paesi in situazioni conflittuali.

Questa solidarietà può assumere molteplici forme:

Il solo fatto di dar credito all’opinione del Vescovo, implicato quotidianamente negli affari del suo popolo, anziché giudicare più affidabile un’altra fonte d’informazione sulle questioni che si pongono sul suo terreno d’apostolato, costituisce già un grande sostegno.

Richiamiamo altresì la vostra attenzione sulla salute dei Vescovi in generale e sull’accompagnamento dei Vescovi emeriti in particolare.

Il nutrimento spirituale dei Vescovi deve anch’esso occupare un posto importante nella loro vita e nella loro azione, affinché possano essere testimoni della Speranza in mezzo al loro popolo.

Auspichiamo una maggiore sensibilità e solidarietà verso le Chiese in difficoltà a causa dei mezzi materiali limitati.

Conclusione

L’annuncio del Vangelo ci spinge ad essere messaggeri della Speranza in un mondo che si trova ad affrontare conflitti spesso inestricabili. Ma la fiducia nello Spirito del Signore risorto non ci deluderà, Lui che promette di essere al nostro fianco fino alla fine del mondo.

[00138-01.03] [in113] [Testo originale: francese]

S.E.R. Mons. Jorge FERREIRA DA COSTA ORTIGA, Arcivescovo di Braga (Portogallo)

Il mio intervento si riferisce al numero 58 dell'Instrumentum laboris, dove si raccomanda la comunione spirituale con i Santi pastori come motivo di speranza e sorgente di impegno apostolico. Ho provato quest'effetto nella figura di uno dei miei predecessori sulla sede vescovile di Braga (Portogallo), Fra' Bartolomeo dos Martires, la cui beatificazione è prevista per il prossimo 4 novembre. Questo Servo di Dio ha scritto un libro, dal titolo Stimulus Pastorum, nel quale sintetizza l'ideale di pastore che lui ha vissuto e proposto ai suoi sacerdoti.

Ecco alcuni dei suoi spunti di riflessione: Il vescovo deve costantemente confrontare la sua vita con l'ideale da lui assunto, perché attira più la vita dei discorsi; soltanto la fraternità vissuta con i suoi presbiteri potrà impedire al vescovo di vivere "solo" in mezzo alle moltitudini. e ai problemi; una vita pastorale che voglia rispondere alle vere inquietudini di oggi, dovrà conciliare la contemplazione con l'incarnazione nel mondo; quest'ultima suppone l'umiltà che porta il pastore ad accogliere la verità pervenuta sia dall'interno della Chiesa che dall'esterno - una accoglienza da tratti materni per manifestare «il volto materno di Dio». Nella propria residenza, Fra' Bartolomeo dos Martires vuole una degna sobrietà; e come divisa chiede al pastore di indossare la gioia: una gioia a prova di qualsiasi insuccesso e che è frutto di una accurata scelta e preparazione dei sacerdoti. Ogni vescovo deve rimanere fedele al carisma personale ricevuto, senza dimenticare però che è l'animatore della comunione dei carismi e dei ministeri degli altri fedeli in Cristo.

Nel concludere, ringrazio Iddio per l'esempio lasciato da Fra' Bartolomeo dos Martires e mi auguro che tanti altri vescovi che «hanno brillato» lungo la storia della Chiesa come modello pastorale e dottrinale vengano dichiarati degni di imitazione tramite un processo più agevolato e innovativo. Nel caso di Fra' Bartolomeo dos Martires, sono stati necessari quattro secoli per essere dichiarato Beato. Il popolo ne aveva fatto la canonizzazione subito dopo la sua morte, conferendogli il titolo di «Arcivescovo Santo». Penso che una vita evangelica al servizio della speranza, riconosciuta e confermata dall'adesione popolare in seno alla comunità locale, va messa al più presto sul lucerniere della Chiesa di Dio. E arriverà per le mani del Vescovo locale, il cui impegno e disponibilità sono decisivi per la riuscita del suddetto processo.

[00140-01.03] [in115] [Testo originale: italiano]

S.B.Em. Card. Ignace Pierre VIII ABDEL-AHAD, Patriarca di Antiochia dei Siri (Libano)

La Chiesa di Antiochia ha sempre dato ascolto al suo primo Patriarca, nostro venerato predecessore Sant’Ignazio, che ci insegna: "Laddove si trova il vescovo lì c’è la Chiesa presieduta dalla Chiesa di Roma nella carità". La nostra comunità ecclesiale considera il vescovo come un autentico Pastore e lo accoglie durante la sua entrata solenne acclamando: "Vieni in pace o vero pastore". Essa gli attribuisce i seguenti carismi: "Fondamento della Chiesa come Pietro, immagine di Paolo, fervore di Elia, e purezza di Giovanni...". Per la comunità il Vescovo è il Cristo. Lo stesso rispetto che si deve a Cristo, lo si deve al vescovo. Il vescovo è il padre che si incensa nove volte così come si incensa l’Icona del Cristo. È l’uomo-Dio che si tocca con venerazione e a cui si bacia la mano per ricevere il perdono e la benedizione.

Da parte sua, questo Pastore, consapevole delle sue debolezze, si rivolge al suo popolo e confessa ad alta voce che egli è solo un servitore debole e peccatore, e chiede alla Comunità di pregare per lui. È in questo spirito che tutta la comunità vive la sua fede. Il vescovo è il buon Pastore che conosce le sue pecorelle e le chiama tutte per nome e le pecorelle lo riconoscono. Lo riconoscono come uomo di Dio e come una fragile persona umana che porta in sé il Cristo Luce e si dona totalmente alla sua comunità. Questa è la sua Sposa per la quale egli spende tutte le sue energie e la difende contro il vento e contro la marea. È il primo ad andare al martirio quando le persecuzioni si abbattono sulla Chiesa. Il vescovo Maloyan che sarà beatificato domenica prossima, sarà seguito, a Dio piacendo, da un altro vescovo della Chiesa di Antiochia, Mar Falvien Malki che come lui, nel 1915, ha subito il martirio e non ha abbandonato il suo gregge diretto al macello.

La Chiesa di Antiochia, grazie ai suoi vescovi e patriarchi, era piena di zelo missionario. Questi vescovi missionari hanno preso la strada dell’Oriente, così come Pietro ha preso la strada dell’Occidente. Essi hanno portato la Buona Novella fino in Cina passando per la Persia e le Indie, senza denaro e senza essere sostenuti dalla Missione e da altre opere missionarie. Erano poveri ma pieni d’amore e di fede nel Cristo risorto.

Attualmente, la Chiesa di Antiochia, sin dalla conquista dell’Islam, si è ripiegata su sé stessa. Il vescovo cerca di salvare ciò che può di quel poco che rimane ancora in questa parte del Medio Oriente. In seno alla Chiesa, egli è diventato non solo il buon pastore, ma anche il protettore della Comunità davanti all’autorità civile. Tocca a lui difendere i suoi diritti civili e, in certi paesi, è visto quasi come un Leader politico, che malgrado le sofferenze che questo gli causa, denuncia tutto ciò che soffoca la democrazia, la libertà e l’indipendenza del suo paese.

Ciò che noi speriamo, alla fine, è che il vescovo, in risposta alle promesse di Gesù abbia il coraggio di condurre il suo piccolo gregge con forza e perseveranza, vivendo con lui, pregando con lui, e morendo con lui. Certo, il vescovo deve essere un buon amministratore, un buon predicatore, ma prima di tutto egli deve essere un buon cristiano che condivide la vita in comune con una piccola comunità parrocchiale percorrendo con essa un cammino di conversione così come viene fatto da alcuni pastori in certe comunità neo-catecumenali.

[00141-01.03] [in116] [Testo originale: francese]

Rev. P. Merino Aquilino BOCOS, C.M.F. , Superiore Generale della Congregazione dei Missionari Figli del Cuore Immacolato di Maria

L’Unione dei Superiori Generali ha dedicato la sua recente Assemblea allo studio dell’Instrumentum laboris, con il lemma: "Condividiamo le responsabilità percorrendo insieme cammini di speranza". Apprezziamo che nell’IL si evidenzi la ricchezza carismatica, teologica e provvidenziale del ministero episcopale nell’ottica della speranza. L’orizzonte della speranza rappresenta la migliore cornice per rigenerare e far fruttificare le relazioni tra le forme di vita cristiana e il ministero episcopale nella Chiesa. Quando la virtù della speranza, che è un dono di Dio, prende possesso dei nostri Pastori, tutta la Chiesa apre più facilmente le sue porte alla presenza della Trinità e, da essa, rinnova la sua comunione interna e promuove la sua missione evangelizzatrice. Come membri di Istituti di vita consacrata ci chiediamo: cosa dobbiamo accogliere e cosa possiamo condividere per contribuire alla comunione nella speranza? Cosa possiamo fare perché i nostri Pastori possano essere condottieri della Speranza della Chiesa come suoi testimoni, profeti e servitori nel mondo di oggi? La migliore risposta è la nostra stessa vita piena di speranza, che, nella condivisione, è fonte di comunione e stimolo per il nostro cammino comune.

Affinché la speranza condivisa sia fonte di comunione, occorre celebrarla e incoraggiarla. Occorre fare una memoria celebrativa di coloro che hanno ispirato il nostro cammino e di quanti ci hanno sostenuto con la testimonianza di una speranza viva. Noi consacrati stiamo adoperandoci per prolungare la vigorosa speranza dei Fondatori. Tra noi ci sono persone che guardano serenamente al futuro, che irradiano la gioia di sapersi chiamati da Dio, che non hanno difficoltà a rischiare la propria vita, anche fino al martirio. Ma, allo stesso tempo, noi consacrati avvertiamo la minaccia di perdere la dimensione profetica, per cui la nostra speranza ha bisogno di essere stimolata. Sono per noi una grazia inestimabile quei Vescovi che amano la nostra forma di vita, hanno fiducia in essa, la accolgono con ospitalità nella loro Chiesa particolare, rendono grazie a Dio e la animano nelle sue difficoltà.

Oggi non è sufficiente pronunciare parole di speranza. È necessario percorrere insieme cammini di speranza. Con i nostri Pastori abbiamo già ripercorso i sentieri del dialogo e della partecipazione. Però se vogliamo fare qualcosa di più per annunciare il Vangelo della speranza, dobbiamo lavorare per una Chiesa riconciliata, entusiasta e missionaria. Quando tutti viviamo nell’attesa e nella speranza, lo Spirito soffia, il Regno si manifesta, la Risurrezione di Gesù comincia ad essere Buona Novella per tutti. Occorre dilatare gli spazi della comunione, costruire ponti, abitare tra i diversi. Tra i cammini che possiamo percorrere insieme, segnalo:

1) La contemplazione e la compassione. La vita consacrata dispone di carismi particolarmente adeguati per incrementare la contemplazione e il discernimento, per individuare l’impronta di Dio nella storia e segnalare i valori del Regno futuro. Noi consacrati ci sentiamo chiamati ad essere messaggeri di speranza rafforzando la nostra opzione per i poveri e gli esclusi, specialmente oggi, quando si incoraggia il guadagno di pochi gettando nella miseria una moltitudine di esseri umani. Non possiamo permetterci di defraudare la speranza dei poveri e degli afflitti (cfr. Sal 9, 18).

2) Condividere la spiritualità e la missione con i laici. L’Instrumentum laboris ci fornisce i giusti suggerimenti per reimpostare i rapporti tra vescovi, presbiteri, consacrati e laici. Sperimentiamo la necessità di andare al di là delle Mutuae relationes tra vescovi e religiosi per condividere con i laici la spiritualità e la missione. È il modo migliore di superare protagonismi e confronti inutili.

3) La cooperazione nella preparazione di evangelizzatori per i "nuovi aeropaghi": l’educazione, la cultura e i mezzi di comunicazione rappresentano percorsi privilegiati per consolidare la speranza. Sarà forse necessario cominciare ricuperando la fiducia nell’intelligenza per rispondere adeguatamente ai nuovi problemi della vita e incoraggiare di più lo studio e la ricerca.

[00142-01.02] [in117] [Testo originale: spagnolo]

AVVISI

BRIEFING PER I GRUPPI LINGUISTICI

Il quinto briefing per i gruppi linguistici avrà luogo domani sabato 6 ottobre 2001 alle ore 13.10 (nei luoghi di briefing e con gli Addetti Stampa indicati nel Bollettino N. 2).

Si ricorda che i Signori operatori audiovisivi (cameramen e tecnici) sono pregati di rivolgersi al Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali per il permesso di accesso (molto ristretto).

POOL PER L’AULA DEL SINODO

Il quinto "pool" per l’Aula del Sinodo sarà formato per la preghiera di apertura della Decima Congregazione Generale di sabato mattina 6 ottobre 2001.

Nell’Ufficio Informazioni e Accreditamenti della Sala Stampa della Santa Sede (all’ingresso, a destra) sono a disposizione dei redattori le liste d’iscrizione al pool.

Si ricorda che i Signori operatori audiovisivi (cameramen e tecnici) e fotoreporters sono pregati di rivolgersi al Pontificio Consiglio per le Comunicazione Sociali per la partecipazione al pool per l’Aula del Sinodo.

Si ricorda che i partecipanti al pool sono pregati di trovarsi alle ore 08.30 nel Settore Stampa, allestito all’esterno di fronte all’ingresso dell’Aula Paolo VI, da dove saranno chiamati per accedere all’Aula del Sinodo, sempre accompagnati da un ufficiale della Sala Stampa della Santa Sede, rispettivamente dal Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali.

BOLLETTINO

Il prossimo Bollettino N. 12, riguardante i lavori della Nona Congregazione Generale dell’Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi di questo pomeriggio, sarà a disposizione dei Signori giornalisti accreditati, domani sabato 6 ottobre 2001, all’apertura della Sala Stampa della Santa Sede.

[b11-01.02]

 

 
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