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CONGREGAZIONE PER L'EVANGELIZZAZIONE DEI POPOLI

OMELIA DEL CARDINALE IVAN DIAS
IN OCCASIONE DELL'INAUGURAZIONE
DELL'ANNO ACCADEMICO 2006-2007
DELLA PONTIFICIA UNIVERSITÀ URBANIANA

Cappella del Pontificio Collegio Urbano
Giovedì, 12 ottobre 2006

 

Cari fratelli, sono davvero lieto di celebrare con voi per la prima volta come Gran Cancelliere dell'Università Urbaniana questa solenne liturgia eucaristica, per invocare lo Spirito Santo all'inizio del nuovo anno accademico. Sento nella vostra presenza vibrare la Chiesa universale che con le sue diverse lingue si rivolge nella lode e nel rendimento di grazie al Padre per mezzo di Gesù Cristo.

Sento la gioia di essere parte della famiglia urbaniana, che nella più grande famiglia di Propaganda Fide allarga le sue braccia sul mondo intero perché l'annuncio di Cristo morto e risorto giunga fino agli estremi confini della terra. Qui in mezzo a voi, docenti e studenti, passa questo spirito universale, che fa di noi un'unica famiglia nella Chiesa di Cristo, fondata sulla predicazione apostolica e sulla roccia di Pietro, che tutti unisce.

Il Vangelo che abbiamo ascoltato, questo passo bellissimo di Giovanni, ci indica con estrema chiarezza il cuore del mistero di amore di Gesù Cristo e dell'intera vita cristiana. Egli, il Figlio di Dio, "sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine". Un amore strano, sorprendente quello del Signore, un amore fino alla fine, cioè estremo. Lo stupore e il rifiuto di Pietro che non si vuole lasciar lavare i piedi ci spiega questa straordinarietà in maniera trasparente.

Di fronte alla forza del male e della morte, che non risparmia neppure il Figlio di Dio, Gesù vuole indicarci che l'unica vittoria sul male e sulla morte è l'amore. Anche in quest'ora Gesù non si è piegato a vivere per sé, non è fuggito davanti al male, non ha accettato la legittima difesa dei suoi compagni, non si è difeso. Ma come è possibile?, noi ci chiediamo. Ci stupisce quanto egli si appresta a compiere. E come non potrebbe stupire uomini e donne spesso misurati, calcolatori nell'amore? La generosità non è sempre la caratteristica della vita di ogni giorno. Ci si risparmia per paura di perdere la prosperità e il benessere. Sembra che amare fino all'estremo privi di qualcosa di essenziale. Si ha timore di distaccarsi da se stessi, di rinunciare a qualcosa di proprio, fossero le cose, il tempo, le abitudini, i sentimenti e i pensieri, le convinzioni. Gesù si avvicina alla nostra paura di perderci e di dare. Come Pietro rispondiamo difesi, con arroganza e profonda incomprensione: "Signore, tu lavi i piedi a me?". Non vuole essere aiutato a vivere e a capire. Quell'amore così semplice ed estremo lo mette in discussione. La reazione di Pietro infatti non esprime rispetto. Essa manifesta al contrario la paura di un uomo abituato a cercare un'altra grandezza rispetto a quella di chi si abbassa fino ai piedi di un altro. Nella vita di oggi si cerca spesso un'altra grandezza, fosse quella del ruolo, del possesso, del potere sugli altri, dell'importanza, dei riconoscimenti.

L'apostolo non capisce che proprio in quell'abbassamento si nasconde una forza di amore, che sarà vittoriosa nell'ora delle tenebre. Avrebbe preferito che Gesù mostrasse la sua forza in ben altro modo, magari con la spada, come fece egli stesso al Getsemani, dove andò armato di spada con la quale colpì il servo del sommo sacerdote. E l'evangelista Giovanni è l'unico che nomina esplicitamente Pietro in questo episodio, quasi per mostrare ciò che l'apostolo si aspettava dal Maestro nell'ora della sofferenza.

Quello di Gesù sembra un amore senza forza, impotente. Sì, vivere quell'amore non è facile, non è immediato, non è un sentimento. Lo ha spiegato così bene il Santo Padre nella sua enciclica Deus caritas est. È la scelta di un uomo, figlio di Dio, che non ha voluto salvare se stesso e ha dato la sua vita vivendo per gli altri. Questo è stato il senso della sua vita e della sua morte, seme di resurrezione. In un tempo in cui si fa fatica a guardare al male e al dolore, Gesù sofferente, povero, si china su di noi per purificarci dall'arroganza dell'amore per noi stessi. Saremo mondi, cioè puri, uomini e donne liberi, se ci lasceremo lavare i piedi da quel povero e dal quel sofferente. Oggi in Gesù povero vediamo i tanti poveri del mondo, i disprezzati, i miseri, i condannati; vediamo anche i poveri che incontriamo, quelli dei paesi da cui veniamo. Quante volte siamo stati avari con loro, ci siamo impauriti e siamo fuggiti davanti al loro dolore, non ci siamo abbassati per sollevarli dalla loro sofferenza e aiutarli nel bisogno, per consolarli nel dolore, o abbiamo pensato di essere noi i poveri.

I piedi dei discepoli erano certamente sporchi. Anche i piedi dei poveri e il loro corpo sono talvolta sporchi, quando vivono per la strada o nessuno si prende cura di loro. Il Signore ci insegna a fermarci, a chinarci, a lavarli, a profumarli, come fece la donna a Betania con il corpo di Gesù.

Infatti è Gesù il povero che ci fa ricchi. Di lui ci dobbiamo prendere cura, lui dobbiamo seguire e ascoltare. Ma il paradosso è proprio questo: è lui che si prende cura di noi, ci purifica e ci guarisce e ci insegna e servire. Il servizio è una grande libertà per amare.

Come vivere questo amore? Siamo deboli, impauriti, basta poco perché ci chiudiamo in noi stessi, evitiamo il dolore degli altri, diventiamo talvolta duri e litigiosi, senza compassione, pronti a intraprendere non una lotta contro le potenze del male, ma contro gli altri, preferiamo essere serviti invece di servire. Gesù rispose a Pietro: "Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo". Chi non ascolta, non comprende. Forse talvolta anche chi come noi è chiamato a seguire Gesù in modo particolare, rischia di non ascoltare Dio che parla, perché si innalza, si crede maestro, e smette di essere discepolo. Solo nell'obbedienza e nell'ascolto della voce di Dio, da cui nasce la fede, si inizia a capire. Non abbiamo altra beatitudine, altra felicità che questa. Il Signore lo spiega bene dopo la lavanda: "Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi. In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, sarete beati, se le metterete in pratica". La nostra grandezza è essere come lui e con lui. Questa è anche la nostra felicità: una vita vissuta nell'amore, come l'apostolo ci ha spiegato in quel bellissimo inno alla carità. Non seguiamo le facili illusioni di un mondo che continua a dirci "salva te stesso". Mettiamo in pratica questo Vangelo di amore, di benevolenza, di compassione, per continuare la nostra lotta contro le potenze del male facendo il bene, perché dalla nostra vita, qui all'Università e ovunque siamo e saremo, possano sgorgare energie di amore e di bene per noi e per il mondo intero. Che nessuno di noi insegua la gloria effimera di questo mondo, ma nell'abbassamento, che non è quell'umilismo o quel servilismo facili da praticare, possiamo indicare a tutti il segreto della vita cristiana, che non basta studiare sui libri o nelle aule di scuola, ma che bisogna vivere alla scuola dell'unico maestro, il Signore Gesù Cristo. E la Vergine Maria, madre di Dio e prima discepola, ci aiuti a vivere nell'ascolto e nel servizio! Amen.

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