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COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE

 

TEOLOGIA – CRISTOLOGIA – ANTROPOLOGIA

(1982)

 

 

INTRODUZIONE

Sin dalla prima sessione plenaria del 1979, la Commissione teologica internazionale incentrò i propri lavori sulla cristologia, pubblicandone poi nel 1980 il rapporto conclusivo (cf. testo latino "Quaestiones selectae de christologia" in Gregorianum 61 (1980) 609-632; EV VII, 631-694; e molte versioni nelle lingue nazionali). Allo spirare del secondo quinquennio della sua attività (1974-1979), la commissione ha visto rinnovarsi parte dei suoi membri, nell'ottobre 1980. La maggioranza di essi, e in particolare i neo-eletti, decisero di proseguire lo studio della cristologia. Benché la commissione fosse pienamente libera di discutere ogni questione cristologica, tuttavia ragioni di prudenza e la preoccupazione di risparmiare tempo ed energia l'hanno indotta a non riprendere semplicemente la materia del documento già pubblicato.

Il programma della sessione plenaria del 1981 doveva comportare sviluppi e considerazioni supplementari. Quindi si esporrà, innanzitutto, la connessione della cristologia con l'insieme del discorso su Dio e con la fede cristiana nel Dio trinitario; quindi, una volta stabiliti questi punti fondamentali, si determinerà il rapporto tra cristologia e antropologia. In secondo luogo, si studieranno due questioni strettamente legate ai fondamenti della cristologia, ma che esigono una trattazione particolare: la preesistenza di Cristo e la questione oggi dibattuta della "sofferenza di Dio". Queste due tematiche offrono un esempio di come problemi attuali e risposte classiche possono reciprocamente illuminarsi in un dialogo fruttuoso. In questa prospettiva i due documenti sulla cristologia, frutto rispettivamente della prima e della seconda sessione, potrebbero certamente formare un tutt'uno, come potrà giudicare da sé il lettore benevolo.

 

I. FONDAMENTO E CONTESTO DELLA CRISTOLOGIA

La riflessione in materia cristologica va condotta tenendone bene presente il contesto, cioè il desiderio e la conoscenza che l'uomo ha di Dio, la rivelazione del Dio trinitario e l'immagine dell'uomo quale emerge sia dalle concezioni attuali in antropologia, sia dall'incarnazione stessa di Gesù Cristo. Senza un'adeguata preparazione consacrata a questi elementi fondamentali, si mette in pericolo la costruzione cristologica stessa. Inoltre si compromette la chiarezza delle conseguenze che se ne devono trarre per elaborare una dottrina sull'uomo. Per tali ragioni occorre proiettare una luce nuova sull'orizzonte complesso di ogni cristologia.

 

A. L'economia di Gesù Cristo e la rivelazione di Dio

1. Quale rapporto esiste tra la cristologia e il problema della rivelazione di Dio? Per evitare, nell'esporre tale problema, qualsiasi confusione e separazione, manterremo la complementarità delle due vie: quella che discende da Dio a Gesù e quella che da Gesù risale a Dio.

1.1. Si crea confusione tra la cristologia e la considerazione su Dio se si suppone che, al di fuori di Gesù Cristo, il nome di Dio non abbia alcun senso e che non esista altra teologia se non quella che scaturisce dalla rivelazione cristiana. Così facendo, non si rispetta il mistero dell'uomo creato, in cui sorge il desiderio naturale di Dio e nel cui animo, lungo tutta la storia, le religioni e le dottrine filosofiche fanno scoprire una certa prenozione di Dio. Si trascura altresì l'importanza delle tracce di Dio presenti nella creazione (cf. Rm 1,20). Nello stesso tempo ci si mette in disaccordo con l'economia, secondo la quale la rivelazione del Dio unico è stata rivolta a Israele, popolo eletto - economia sempre riconosciuta dalla Chiesa sin dalle origini - e con l'atteggiamento teocentrico di Gesù, che afferma che il Dio d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe è proprio suo Padre. Si crea infine una grave ambiguità nel modo d'intendere la confessione "Gesù Cristo è Figlio di Dio"; ambiguità che, alla fine, potrebbe portare a una cristologia atea.

1.2. Quanto alla separazione tra la cristologia e la considerazione del Dio rivelato, ovunque la si collochi nel corpo della teologia, essa porta spesso a supporre che la nozione di Dio elaborata dalla sapienza filosofica basti da sola per la riflessione sulla fede rivelata. Si misconoscono così l'originalità della rivelazione di cui il popolo d'Israele fu gratificato e la novità ancor più radicale che comporta la fede cristiana; si diminuisce il valore dell'evento Gesù Cristo. Paradossalmente, questa separazione può indurre a credere che la ricerca cristologica basti a se stessa e si chiuda in se stessa, senza preoccuparsi di fare un qualsiasi riferimento a Dio.

2. Possiamo - sembra - applicare qui, con i dovuti adattamenti, il criterio adottato dalla definizione di Calcedonia: tra la cristologia e il problema di Dio, occorre mantenere una distinzione, senza confusione né separazione. Parimente, ritroviamo una distinzione tra i due tempi della rivelazione, in mutua corrispondenza tra di loro: il primo è quello della manifestazione universale che Dio fa di se stesso nella primordiale creazione; l'altro è quello della rivelazione più personale che, lungo la storia della salvezza, progredisce dalla vocazione d'Abramo sino all'avvento di Gesù Cristo, Figlio di Dio.

3. Perciò, la via che tende a comprendere Gesù alla luce dell'idea di Dio e la via che, in Gesù, fa scoprire Dio s'implicano a vicenda.

3.1. Da un lato, il credente non potrebbe riconoscere in Gesù la piena manifestazione di Dio, se non alla luce della prenozione e del desiderio di Dio presenti nel cuore dell'uomo. Da molto tempo, tale luce brilla - benché non priva di errori - nelle religioni dei vari popoli e nella ricerca dei filosofi. Questa luce si manifesta già attraverso la rivelazione del Dio unico nell'antico testamento; ed è ancora presente nella coscienza contemporanea, nonostante la virulenza dell'ateismo. La ritroviamo nell'anelito verso valori assoluti come la giustizia o la solidarietà. Inoltre la si suppone necessariamente nella confessione di fede: "Gesù Cristo è il Figlio di Dio".

3.2. D'altra parte, occorre procedere oltre, benché dobbiamo dirlo con ogni umiltà, sia perché la fede e la vita dei cristiani non sono abbastanza conformi a questa rivelazione totalmente gratuita che ha trovato il suo compimento in Gesù Cristo, sia anche perché il mistero rivelato oltrepassa ogni sorta di enunciati teologici. Il mistero di Dio, qual è stato definitivamente rivelato in Gesù Cristo, racchiude "ricchezze insondabili" (cf. Ef 3,8) che superano, anzi trascendono, i pensieri e i desideri dello spirito filosofico e dello spirito religioso lasciati alle loro proprie forze. Tutto quanto essi possono contenere di vero, questo mistero lo assume, lo conferma e lo porta a compimento; alle intuizioni umane più nobili esso schiude la via verso il Dio sempre più grande. Esso corregge gli errori e le deviazioni che vi si trovano, guidando l'uomo verso le vie diritte e larghe che i suoi desideri ricercano. Così quindi il mistero della fede, sempre suscettibile di maggior approfondimento da parte dell'intelligenza, assume e integra le intuizioni e le esperienze religiose dell'umanità, in modo che il carattere cattolico della fede cristiana si realizzi sempre di più.

3.3. Gesù Cristo, infatti, nel quale culmina la rivelazione fatta lungo tutta la storia della salvezza, manifesta il mistero di Dio, la cui vita trinitaria è la sorgente d'una comunicazione tutta d'amore in se stesso e verso di noi. Questo Dio, già rivelato nell'antico testamento e annunciato a titolo definitivo da Gesù Cristo, s'è fatto simile all'uomo (cf. Dt 4,7; Clemente Alessandrino, Strom. II 5, 4). In certe religioni dell'umanità, è piuttosto l'uomo che ricerca Dio, mentre nella rivelazione è innanzitutto Dio che cerca l'uomo e l'ama dall'intimo del cuore. Tale scoperta, che supera ogni prenozione di Dio e le conferisce un compimento superiore a ogni forza umana, è immanente alla professione di fede: "Gesù Cristo è il Figlio di Dio".

 

B. Rapporto tra teocentrismo e cristocentrismo

1. Nella teologia occidentale dell'epoca recente (prescindiamo qui dalla teologia medievale), la questione sin qui trattata occupa la discussione sotto altri termini ancora, quelli di "teocentrismo" e di "cristocentrismo". Tali espressioni permettono di formulare la questione seguente: l'oggetto proprio e immediato della teologia è Dio o è Gesù Cristo? Affrontiamo questo problema, determinando formalmente e secondo l'ordine logico, il rapporto tra teocentrismo e cristocentrismo. Materialmente risponderemo alla questione con le considerazioni che precedono e con quelle che seguiranno.

1.1. In realtà la questione poggia su un fondamento falso, se nel teocentrismo contrapposto al cristocentrismo si nasconde il teismo che mette in dubbio la possibilità o il fatto della rivelazione, o che trascura un avvenimento del genere. A questo proposito bisogna dire che, da un lato, nel teismo veramente "naturale" non c'è nulla che contraddica il cristocentrismo; d'altro canto, il teocentrismo cristiano (rivelato, trinitario) e il cristocentrismo sono tutt'uno nella realtà.

1.2. Il teocentrismo cristiano consiste propriamente nell'affermazione del Dio trinitario, che ci è reso noto solo mediante la rivelazione in Gesù Cristo. Quindi, da un lato, la conoscenza di Gesù Cristo ci porta a conoscere la Trinità, raggiungendo così la sua pienezza; dall'altro, non si dà conoscenza del Dio trinitario, se non nella conoscenza stessa di Gesù Cristo. Ne consegue che non si deve operare alcuna distinzione tra teocentrismo e cristocentrismo, ma i due termini designano una identica realtà.

1.3. Mettendo da parte nozioni meno adeguate, il cristocentrismo connota propriamente la cristologia che ha per oggetto Gesù di Nazaret e che, presa nella sua intenzione più profonda, esprime la "singolarità" di Gesù. Ora tale singolarità di Gesù s'accorda propriamente con la rivelazione della Trinità, poiché essa si definisce, da un lato, mediante la relazione singolare di Gesù stesso con il Padre e con lo Spirito santo e di conseguenza, dall'altro, mediante la condizione singolare secondo cui Gesù esiste con e per gli uomini.

2. Il teismo cristiano non esclude il teismo naturale, anzi in certo senso lo suppone, avendo esso la sua sorgente in Dio, che si è rivelato in virtù di un disegno assolutamente libero della sua volontà. Ora il teismo naturale dipende intrinsecamente dalla ragione umana, come insegna il concilio Vaticano I (cf. DS 3004, 3026).

3. Il teismo naturale non va confuso col teismo/monoteismo dell'antico testamento, né coi teismi storici, cioè con le varie forme di teismo di cui i non cristiani fanno professione nelle loro religioni. Il monoteismo dell'antico testamento deve la sua origine a una rivelazione soprannaturale e si trova quindi in relazione intrinseca con la rivelazione trinitaria. I teismi storici sono nati non dalla "natura pura", ma dalla natura soggetta al peccato, oggettivamente riscattata da Gesù Cristo ed elevata a un destino soprannaturale.

 

C. Cristologia e rivelazione della Trinità

1. L'economia di Gesù Cristo rivela il Dio trinitario; ora Gesù Cristo può essere conosciuto nella sua missione, solo nella misura in cui si capisce bene il carattere singolare della presenza di Dio in lui. Perciò teocentrismo e cristocentrismo s'illuminano e s'implicano a vicenda. Ma resta la questione del rapporto della cristologia con la rivelazione del Dio trino.

 1.1. Secondo la testimonianza del Nuovo Testamento, la tradizione della Chiesa antica ha sempre ritenuto per certo che, con l'avvento di Gesù Cristo e il dono dello Spirito santo, Dio si è rivelato a noi quale egli è. Egli è in se stesso quale ci è apparso: "Filippo, chi vede me, vede il Padre" (Gv 14,9).

1.2. Di conseguenza, quali sono i tre nomi divini che intervengono nell'economia della salvezza, tali sono pure nella "teologia", cioè - secondo la concezione dei padri greci - nella scienza che noi abbiamo della vita eterna di Dio. Per noi, quest'economia della salvezza è la sorgente unica e definitiva di ogni conoscenza circa il mistero della Trinità. L'elaborazione della dottrina trinitaria ha il suo punto di partenza nell'economia della salvezza. A sua volta, la Trinità eterna e immanente è il presupposto necessario della Trinità economica. La teologia e la catechesi devono render conto di quest'affermazione della fede primitiva.

2. Dunque l'assioma fondamentale della teologia odierna s'esprime molto correttamente nella formulazione seguente: la Trinità che si manifesta nell'economia della salvezza è la Trinità immanente; è la Trinità immanente che si comunica liberamente e a titolo gratuito nell'economia della salvezza.

2.1. Di conseguenza, nella teologia e nella catechesi, si eviterà ogni separazione tra la cristologia e la dottrina trinitaria. Il mistero di Gesù Cristo si trova inserito nella struttura della Trinità. La separazione che riproviamo può assumere sia una forma neoscolastica, sia una forma moderna. Certi rappresentanti della cosiddetta neoscolastica sono giunti a isolare la considerazione della Trinità dall'insieme del mistero cristiano e a non tenerne sufficiente conto nel modo di comprendere l'incarnazione o la deificazione dell'uomo. Talora si è totalmente trascurato di rilevare l'importanza della Trinità, sia nell'insieme delle verità di fede, sia nella vita cristiana. Nella sua forma moderna, tale separazione frappone come uno schermo tra gli uomini e la Trinità eterna, come se la rivelazione cristiana non invitasse l'uomo a conoscere il Dio trinitario e a partecipare alla sua vita. Essa conduce a una specie di "agnosticismo" inaccettabile in ciò che concerne la Trinità eterna. Se Dio, infatti, è più grande di tutto ciò che possiamo sapere di lui, la rivelazione cristiana ci assicura che questo "più" è sempre trinitario.

2.2. Bisogna guardarsi ugualmente da ogni confusione immediata tra l'evento Gesù Cristo e la Trinità. Non è vero che la Trinità si sia costituita solo nella storia della salvezza, con l'incarnazione, con la croce e con la risurrezione di Gesù Cristo, quasi che Dio avesse avuto bisogno d'un processo storico per divenire trinitario. Occorre quindi mantenere la distinzione, da un lato, tra la Trinità immanente, per cui la libertà è identica alla necessità nell'essenza eterna di Dio, e, dall'altro, l'economia trinitaria della salvezza, dove Dio esercita assolutamente la sua libertà, senza subire alcuna necessità di natura.

3. La distinzione tra Trinità immanente e Trinità economica s'accorda con l'identità reale tra l'una e l'altra. Non si ricorrerà quindi a essa per giustificare nuovi generi di separazione, ma la s'intenderà secondo la triplice via d'affermazione, di negazione e d'eminenza. L'economia della salvezza manifesta che il Figlio eterno assume nella sua propria vita l'evento "kenotico" della nascita, della vita umana e della morte in croce. Tale evento, in cui Dio si rivela e si comunica in modo assoluto e definitivo, riguarda in qualche maniera l'essere proprio di Dio Padre, in quanto è il Dio che compie questi misteri e li vive come suoi in unione con il Figlio e con lo Spirito santo. Non solo, infatti, nel mistero di Gesù Cristo, Dio Padre si rivela e si comunica a noi liberamente e gratuitamente mediante il Figlio e nello Spirito santo, ma il Padre con il Figlio e lo Spirito santo conduce la vita trinitaria in una maniera profondissima e - almeno secondo il nostro modo di pensare - in qualche modo nuova, in quanto il rapporto del Padre al Figlio incarnato nella consumazione del dono dello Spirito è la stessa relazione costitutiva della Trinità. Nella vita intima del Dio trinitario esiste la condizione di possibilità di questi eventi, che dall'incomprensibile libertà di Dio ci vengono offerti nella storia della salvezza del Signore Gesù Cristo. Dunque, i grandi avvenimenti della vita di Gesù traducono chiaramente per noi e arricchiscono d'una nuova efficacia a nostro vantaggio il dialogo della generazione eterna, nel quale il Padre dice al Figlio: "Tu sei mio Figlio, oggi ti ho generato" (Sal 2,7; cf. At 13,33; Eb 1,5; 5,5 e anche Lc 3,22).

 

D. Rapporto tra cristologia e antropologia

1. Spesso la cristologia moderna si è fondata e si è strutturata non tanto sulla teologia del Dio trino, quanto invece sull'antropologia, come su un nuovo principio di comprensione; e ciò soprattutto nel campo della soteriologia. Come fine della redenzione si è considerata di preferenza l'umanizzazione dell'uomo, piuttosto che la sua divinizzazione. Con questa evoluzione, la crisi della metafisica, già in atto nella filosofia, raggiungeva il cuore stesso della teologia. Viene di qui una conseguenza grave, ben nota nella teologia moderna: un notevole scarto tra la considerazione "ontologica" e la considerazione puramente "funzionale" (più vicina alla maniera biblica di pensare, secondo l'opinione di alcuni). A questo punto, dobbiamo determinare il rapporto tra l'antropologia e la cristologia secondo la loro reciproca analogia e in una maniera nuova; inoltre, dovremo trattare a parte e nel suo aspetto proprio il problema della deificazione dell'uomo (cf. più avanti paragrafo E).

L'annuncio che ha per oggetto Gesù Cristo, Figlio di Dio, si presenta sotto il segno biblico "per voi", per cui la cristologia tutta va trattata in prospettiva soteriologica. Giustamente, quindi, in un certo senso, alcuni autori moderni hanno tentato d'elaborare una cristologia "funzionale". Viceversa, però, bisogna parimente ritenere che "l'esistenza per gli altri" di Gesù Cristo non può separarsi dalla sua relazione al Padre, né dalla sua comunione intima con lui e che, di conseguenza, deve fondarsi sulla sua filiazione eterna. La "pro-esistenza" di Gesù Cristo, mediante la quale Dio stesso si comunica agli uomini, presuppone la sua pre-esistenza. Diversamente l'annuncio di Gesù Cristo quale Salvatore diverrebbe pura finzione e illusione: non potrebbe difendersi contro l'accusa moderna d'essere un'ideologia. Chiedersi se la cristologia debba essere ontologica o funzionale, è porre un falso dilemma.

2. L'elemento antropologico della cristologia può venire considerato secondo la tipologia biblica "Adamo-Cristo" (Rm 5,12-21; 1 Cor 15,45-49), sotto un triplice aspetto:

2.1. L'uomo è dotato di libertà da Dio suo creatore. La fede suppone dunque nell'uomo la capacità di dare una risposta a Dio e di aprirsi a lui. Perciò, la cristologia esige un'antropologia. Per questo, la teologia, secondo l'insegnamento del concilio Vaticano II, deve attribuire all'uomo e al mondo un'autonomia relativa, quella d'una causa seconda. Tale autonomia si basa sulla relazione della creatura al Dio creatore: deve riconoscere alle scienze una giusta libertà (cf. GS 36; 41; 56; LG 36; AA 7) può anzi, in maniera positiva, fare sua l'accentuazione antropologica della nostra epoca. La fede cristiana deve dimostrare il carattere suo proprio, difendendo e valorizzando la trascendenza, che è caratteristica propria della persona umana (cf. GS 76).

2.2. Il vangelo di Gesù Cristo non si limita a presupporre l'esistenza e l'essenza dell'uomo, ma arreca all'uomo il suo pieno compimento. Ciò che tutti gli uomini cercano, desiderano e sperano, almeno implicitamente, è trascendente, infinito, a tal punto che si può trovare solo in Dio. La vera umanizzazione dell'uomo raggiunge il vertice nella sua divinizzazione gratuita, cioè nell'amicizia e nella comunione con Dio, che fanno dell'uomo il tempio di Dio, in possesso della presenza del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. L'adorazione e il culto di Dio, e in primo luogo il culto eucaristico, rendono l'uomo pienamente umano. Perciò in Gesù Cristo, insieme Dio e uomo, l'uomo raggiunge la propria pienezza escatologica; solo in Gesù Cristo si raggiunge la "misura della dimensione adulta e della pienezza" dell'uomo (cf. Ef 4,13). Solo in Gesù Cristo si trova concretamente l'apertura indefinita dell'uomo; in lui soprattutto ci viene interamente manifestato il mistero dell'uomo e della sua vocazione sublime (cf. GS 22). La grazia di Gesù Cristo colma abbondantemente i desideri profondi dell'uomo, persino quelli che oltrepassano i limiti delle forze umane. La storia della salvezza vissuta dal popolo d'Israele è tipo della speranza umana che Dio non delude, anche se il compimento fedele e sovrabbondante delle promesse divine segue vie nuove e talora impreviste.

2.3. La determinazione e la perfezione cristologiche dell'uomo mettono in discussione l'autonomia assoluta che il peccatore ha scelto per sé. Perciò l'annuncio del vangelo non si può separare dall'annuncio del giudizio e dall'invito alla conversione. La croce stessa, mediante la quale siamo stati salvati, esprime il giudizio di Dio su ogni peccato. Seguire la via della croce e vivere in comunione con Gesù Cristo crocifisso non distrugge l'uomo, ma può eliminare molte forme di alienazione, la quale in ultima analisi risulta dalla potenza del peccato e dalla schiavitù della legge e della morte. Significa e conferisce la libertà alla quale siamo stati chiamati da Gesù Cristo (cf. Gal 5,1.13). Per tale motivo, la pasqua del Signore, cioè la partecipazione alla croce e alla risurrezione di Gesù Cristo, mostra il vero cammino che conduce l'uomo alla sua perfezione.

3. In questi tre aspetti che la cristologia ci offre dell'uomo, il mistero di Dio e dell'uomo si manifesta al mondo come mistero di carità. Alla luce della fede cristiana, è possibile dedurne una nuova visione globale dell'universo. Sebbene tale visione sottometta a esame critico il desiderio dell'uomo d'oggi, tuttavia ne afferma l'importanza, lo purifica e lo supera. Al centro d'una tale "metafisica della carità" non si colloca più la sostanza in genere come nella filosofia antica, ma la persona, di cui la carità è l'atto più perfetto e più idoneo a condurla alla perfezione.

Inoltre, simile interpretazione profetica o cristologica della realtà acquista un'importanza fondamentale nell'applicazione dei precetti morali personali e sociali. L'annuncio della fede deve presupporre un'autonomia relativa dei comportamenti umani (cf. Rm 2,14 ss.); ma deve pure esercitare su di questi un giudizio critico, applicando la misura che è Gesù Cristo, per servire alla dignità dell'uomo nello stesso tempo che alla giustizia nella società umana. Infine, deve superare la giustizia con la carità cristiana, che è l'anima della giustizia. Così è cristianizzato l'ethos, che di per sé è suscettibile di molteplici espressioni. Perciò, dal vangelo stesso di Gesù Cristo deriva giustamente il diritto di lavorare a costruire nella storia del mondo una "civiltà della carità".

 

E. L'immagine di Dio nell'uomo 

1. "Il Verbo di Dio s'è fatto uomo perché l'uomo divenisse Dio" (Atanasio, "De inc." 54, 3). Quest'assioma della soteriologia dei padri, soprattutto dei padri greci, viene oggi negato per diverse ragioni. Alcuni sostengono che la "deificazione" è una nozione tipicamente ellenistica della salvezza, la quale porterebbe a evadere dalla condizione umana e spingerebbe alla negazione dell'uomo. Ai loro occhi, la deificazione sopprime la distanza tra Dio e l'uomo, e comporta una fusione senza distinzione. Talvolta all'espressione dei padri se ne oppone un'altra che si ritiene più adatta al nostro tempo: "Dio si è fatto uomo per rendere l'uomo più umano". Certo i termini di deificatio, theosis, theopoiesis, homoiosis theo, ecc., comportano una certa ambiguità. Perciò, occorre spiegare brevemente il significato autentico, cristiano, della "deificazione", mettendone in luce gli aspetti principali.

2. È un fatto che la filosofia e la religione greche hanno riconosciuto una parentela "naturale" tra lo spirito umano e lo spirito divino, mentre la rivelazione biblica tratta chiaramente l'uomo come una creatura che tende verso Dio mediante la contemplazione e l'amore. L'uomo diventa prossimo di Dio, meno per la sua capacità intellettuale che per la conversione del cuore, per un'obbedienza nuova e per l'azione morale, le quali si danno non senza la grazia di Dio. Solo con la grazia l'uomo, oggetto della vocazione divina, può raggiungere ciò che Dio è per natura.

3. A tali prospettive s'aggiungono le considerazioni proprie della predicazione cristiana. Creato a immagine e somiglianza di Dio, l'uomo è invitato alla comunione di vita con Dio, che solo può soddisfare le aspirazioni umane più profonde. L'idea di deificazione raggiunge il vertice della sua realizzazione nell'incarnazione di Gesù Cristo: il Verbo incarnato assume la nostra carne mortale affinché, liberati dal peccato e dalla morte, abbiamo parte alla vita divina. Con Gesù Cristo, nello Spirito santo, siamo figli e quindi coeredi (cf. Rm 8,17), "partecipi della natura divina" (2 Pt 1,4). La deificazione consiste in questa grazia, che ci libera dalla morte del peccato e ci comunica la vita divina: siamo figli e figlie nel Figlio.

4. Il significato veramente cristiano di tale affermazione diviene ancor più profondo alla luce del mistero di Gesù Cristo. Infatti, come l'incarnazione non altera né distrugge la natura divina del Verbo, così la divinità non altera né distrugge la natura umana di Gesù Cristo. La rafforza, invece, e la rende perfetta nella sua condizione originale di creatura. La redenzione non cambia semplicemente la natura umana in qualcosa di divino, ma la eleva secondo la misura di Gesù Cristo. In san Massimo confessore quest'idea è determinata dall'esperienza suprema di Gesù Cristo, cioè dalla sua passione e dall'abbandono che provò da parte di Dio. Quanto più profondamente Gesù Cristo ha voluto rendersi partecipe della povertà umana, tanto più l'uomo s'innalza nella partecipazione alla vita divina. Rettamente intesa in tal senso, la "deificazione" rende l'uomo perfettamente umano: la deificazione è la vera e suprema "umanizzazione" dell'uomo.

5. L'assimilazione che deifica l'uomo non si compie senza la grazia di Gesù Cristo. Essa viene data principalmente mediante i sacramenti nella Chiesa. Questi sacramenti ci uniscono efficacemente alla grazia deiforme del Salvatore, sotto una forma visibile e sotto simboli presi dalla nostra vita terrena (cf. LG 7). Aggiungiamo che la deificazione viene conferita non all'individuo in quanto tale, ma in quanto membro della comunione dei santi; anzi, nello Spirito santo, l'invito della grazia divina s'estende all'intero genere umano. Spetta dunque ai cristiani confermare e sviluppare con la loro vita la santificazione che hanno ricevuta (cf. LG 39-42). La deificazione raggiunge la sua perfezione solo nella visione del Dio trinitario, che porta con sé la beatitudine nella comunione dei santi.

 

II. ALCUNI PUNTI PIU' IMPORTANTI DELLA CRISTOLOGIA ATTUALE

Abbiamo sin qui esposto il fondamento della cristologia nonché le sue dimensioni trinitarie e antropologiche. Rimangono ancora alcuni problemi da trattare in maniera meno generale, ma concreta e precisa. Ne scegliamo due: in primo luogo, la "preesistenza" di Gesù Cristo, questione che si colloca tra la cristologia e la teologia trinitaria; e, in secondo luogo, l'immutabilità di Dio e la sua "sofferenza". Sono problemi posti in primo piano dai dibattiti attuali.

 

A. Il problema della preesistenza di Gesù Cristo

1. Finché la cristologia classica poteva poggiare su una teologia trinitaria, la preesistenza della natura divina di Gesù non presentava grandi problemi. Ma la ricerca recente prende soprattutto quale punto di partenza e come misura la vita terrestre di Gesù e la considera alla luce del metodo critico (cf. Questioni di cristologia I, A e B: EV VII, 635-646). Perciò, si vede spesso in questa preesistenza una concezione estranea alla fede biblica e religiosa, una trasformazione "greca" o una speculazione, cioè un mito, un deprezzamento della natura realmente umana di Gesù. Quindi, non bisogna più oggi - dicono - prendere quest'idea alla lettera, ma intenderla come una semplice rappresentazione simbolica. Vi si scorgerebbero soltanto l'espressione e la "traduzione" del carattere assolutamente unico di Gesù, della sua originalità irriducibile, della sua trascendenza nei confronti del mondo e della storia, poiché Gesù Cristo non ha un'origine intramondana. In queste teorie contemporanee l'idea di preesistenza si trova - sembra - priva di significato, volatilizzata.

2. Sono rimasti vani i tentativi compiuti di spiegare affermazioni bibliche sulla preesistenza di Gesù Cristo partendo dalle fonti mitologiche, ellenistiche e gnostiche. Al contrario, oggi risaltano meglio le analogie offerte dalla letteratura intertestamentaria (cf. Aeth. Hen. 48, 3.6; 4 Esd 13) e soprattutto gli stimoli offerti dalla teologia sapienziale dell'Antico Testamento (cf. Pro 8,22 ss.; Sir 24). Inoltre, si attribuisce grande importanza ai motivi intrinseci che hanno favorito lo sviluppo della cristologia biblica: la relazione unica e specifica del Gesù terrestre con Dio Padre (Abba, come dice Gesù), la missione singolare del Figlio e la sua risurrezione gloriosa. Alla luce dell'esaltazione di Gesù Cristo, la sua origine si comprende chiaramente e in maniera definitiva: sedendo alla destra di Dio, cioè nella condizione di "postesistenza" (=dopo l'esistenza terrena), egli preesiste "sin dall'inizio", presso Dio e prima della sua venuta nel mondo. Si passa dall'evento escatologico di Gesù Cristo al significato protologico, e viceversa. La missione singolare del Figlio (cf. Mc 12,1-12) è inseparabile dalla persona di Gesù Cristo, che ha ricevuto dal Padre non solo un compito profetico temporale e limitato, ma la sua origine coeterna. Il Figlio di Dio ha ricevuto tutto eternamente da Dio Padre. Infine, si deve proporre la prospettiva escatologico-soteriologica: Gesù Cristo non può introdurci nella vita eterna, se non è egli stesso "eterno". L'annuncio escatologico e la dottrina escatologica suppongono la preesistenza di Gesù Cristo e una preesistenza divina.

Che Gesù Cristo abbia la sua origine dal Padre, non è una deduzione derivante dalla riflessione posteriore dei cristiani. Le parole di Gesù, la sua preghiera e il suo atteggiamento mostrano all'evidenza che egli si considera senza esitazione, in tutta la sua esistenza, come inviato dal Padre. Così si manifesta, almeno implicitamente, la coscienza che Gesù Cristo ha della sua esistenza eterna, come Figlio del Padre, che deve riconciliare con Dio il mondo intero (vedi, come primi elementi fondamentali: l'"io" di Gesù Cristo nei vangeli sinottici ("Ma io vi dico"), le parole "io sono" nel quarto vangelo e la "missione" di Gesù in numerosi scritti neotestamentari).

3. La ricerca biblica ha evidenziato come tale dato originale si sia sviluppato progressivamente e già in modi diversi nell'ambito del Nuovo Testamento. Così il significato autentico della preesistenza di Gesù è stato posto in luce mediante le asserzioni seguenti: - l'elezione e la predestinazione eterna di Gesù Cristo (cf. Ef 1,3-7.10s; 1 Pt 1,20); - la missione del Figlio di Dio nel mondo e nella carne (cf. Gal 4,4; Rm 8,3s; 1 Tm 3,16; Gv 3,16 s.);

- la kenosis, l'incarnazione, la morte e l'esaltazione gloriosa di Gesù Cristo, concepite come le tappe della sua discesa dal Padre: tutte asserzioni che mostrano il valore soteriologico e salvifico dell'evento Gesù Cristo (cf. anche Fil 2,6-11);

- Gesù Cristo era già presente e operante, in modo nascosto, nella storia del popolo d'Israele (cf. 1 Cor 10,1-4; Gv 1,30; 8,14.58);

- Gesù Cristo, mediatore della creazione, è anche colui che conserva il mondo nell'esistenza; è parimente il capo del corpo della Chiesa e colui che riconcilia ogni cosa (cf. 1 Cor 8,6; Col 1,15 ss.; Gv 1,1-3; 17; Eb 1,2 s.). Tutti i mediatori che sembravano possedere un significato salvifico o vengono eliminati o sono pensabili solo se subordinati a Cristo: Gesù Cristo possiede la preminenza assoluta su tutte le altre mediazioni e, con la sua opera e con la sua persona, costituisce l'evento escatologico;

- Gesù Cristo esercita il primato sul cosmo e comunica la redenzione a tutti; tale redenzione si concepisce come una nuova creazione (cf. Col 1,15 ss.; 1 Cor 8,6; Eb 1,2 ss.; Gv 1,2);

- con l'esaltazione di Gesù Cristo inizia la sottomissione delle potestà malefiche (cf. Fil 2,10; Col 1,16.20).

4. Il concetto postbiblico di "preesistenza" racchiude dunque molti elementi cristologici. Sebbene, quanto alla realtà, questo concetto si fondi sulla sacra Scrittura, tuttavia la "preesistenza" non vi è evocata isolatamente e non costituisce dunque l'unico scopo degli enunciati del Nuovo Testamento. Si tratta d'un concetto sistematico, che sintetizza vari significati teologici. In molti enunciati esso fornisce piuttosto un "background", un presupposto e la ragione di altri intenti. Perciò, come non ci si può contentare d'un uso puramente formale del termine, così non si deve neppure adoperarlo in modo univoco, bensì analogico, con cautela, secondo il contesto e le diverse ricchezze di contenuto già menzionate. Sebbene sia suscettibile di molteplici accezioni, il concetto di "preesistenza" non significa solo un'"interpretazione" che sarebbe in fin dei conti soggettiva, ma la vera origine ontologica di Gesù Cristo, origine intemporale che si fa egualmente strada nella sua coscienza, come si è già detto prima. Intesa in senso biblico, "preesistenza" non significa solo che Cristo è coeterno a Dio; questo termine connota tutto il movimento e il mistero cristologici, partendo dall'esistenza con il Padre, comprendendo la kenosis e l'incarnazione, la morte infamante della croce e l'esaltazione gloriosa. Esso infine attesta la redenzione di tutti gli uomini, il primato sulla Chiesa, la riconciliazione universale e cosmica. Tutto ciò si presenta nella prospettiva soteriologica e anche staurologica. Quasi tutte le formulazioni della preesistenza di Gesù Cristo si collocano in un contesto innico; per cui assumono lo stile della confessione e della lode, nate dall'esperienza che la Chiesa fa della presenza di Dio. Questo carattere soteriologico e dossologico, che non esclude il vero significato ontologico, impone netti limiti a quelle forme di speculazione sulla preesistenza che non verificano queste proprietà.

5. Il concetto di "preesistenza" di Gesù Cristo ha acquistato una maggior chiarezza con l'evolvere della riflessione cristologica. In certi luoghi il prefisso "pre" (per esempio, "prima di ogni cosa", "prima di Abramo") riveste una connotazione temporale e la conserva, visto il carattere storico della salvezza cristiana, ma in ultima analisi significa il primato assoluto e intemporale su tutta la creazione. Sul piano cristologico, nel simbolo di Nicea (cf. DS 125) tale preesistenza, dopo la crisi ariana, acquista un'evidenza definitiva: il Figlio di Dio, generato dal Padre, non è creato, ma è consustanziale al Padre.

In tal modo, l'idea della "preesistenza" di Gesù Cristo è per eccellenza il punto di congiunzione tra la cristologia e la teologia trinitaria, come s'è detto sopra (I, C e D). La vera cristologia è necessariamente trinitaria; d'altro canto, la teologia trinitaria deve intendersi in connessione con la cristologia. Tra il Figlio nella vita eterna di Dio e il Figlio nella vita terrena di Gesù vi è una corrispondenza stretta, anzi un'identità reale, che si nutre dell'unità e della comunione filiale di Gesù Cristo con Dio Padre. La preesistenza di Gesù Cristo va compresa pure dal punto di vista della storia di Gesù Cristo e soprattutto del suo compimento nell'evento pasquale. Sin dagli inizi della riflessione cristologica, la preesistenza di Gesù Cristo coeterno al Padre - se la si considera secondo un movimento discendente e quasi dall'alto - è stata compresa egualmente in relazione con la comunicazione e con la donazione di Gesù Cristo per la vita del mondo. Tale relazione si radica nella filiazione eterna, mediante la quale Gesù Cristo è generato dal Padre; è costituita mediante il concetto biblico di "missione". Il dono di Gesù Cristo per noi e per tutti gli uomini ha valore di salvezza, solo se nasce in Dio, cioè nel Figlio preesistente del Padre. Ciò dimostra nuovamente il carattere soteriologico della "preesistenza".

 

B. L'aspetto trinitario della croce di Gesù Cristo o il problema della «sofferenza di Dio»

Nella teologia di oggi capita spesso, per motivi d'ordine storico o sistematico, che si pongano in dubbio l'immutabilità e l'impassibilità di Dio, soprattutto nel contesto d'una teologia della croce. Così sono sorte diverse concezioni teologiche della "sofferenza di Dio". Bisogna saper discernere le idee false dagli elementi conformi alla rivelazione biblica. Poiché la discussione su tale problema è ancora in corso, ci limitiamo a un primo cenno, che tuttavia vuole aprire la via alla soluzione della questione.

1. I sostenitori di questa teologia asseriscono che le loro idee si ritrovano nell'antico e nuovo testamento e presso alcuni padri. Ma l'influsso della filosofia moderna ha certo un peso maggiore, almeno nella sistematizzazione di questa teoria.

1.1. Hegel è il primo a postulare che, per ottenere il suo pieno contenuto, l'idea di Dio deve includere la "sofferenza del negativo", cioè la "durezza dell'abbandono" (die Haerte der Gottlosigkeit). In lui sussiste un'ambiguità fondamentale: Dio ha, o no, veramente bisogno del travaglio dell'evoluzione del mondo? Dopo Hegel, i teologi protestanti cosiddetti della kenosis e parecchi anglicani hanno sviluppato sistemi "staurocentrici", secondo cui la passione del Figlio tocca in modo diverso tutta la Trinità, e manifesta soprattutto la sofferenza del Padre che abbandona il Figlio, "poiché non ha risparmiato il suo proprio Figlio, ma lo ha consegnato per noi tutti" (Rm 8,32; cf. Gv 3,16); mostra inoltre la sofferenza dello Spirito santo che nella passione prende su di sé la "distanza" tra il Padre e il Figlio.

1.2. Secondo parecchi nostri contemporanei, questa sofferenza trinitaria ha il suo fondamento nell'essenza divina stessa; secondo altri, si fonda in una certa kenosis di Dio che crea, legandosi in qualche modo alla libertà della creatura o, infine, nel patto che Dio ha stipulato e col quale si obbliga liberamente a consegnare suo Figlio. I sostenitori di tale opinione ritengono che quest'atto di "consegnare il proprio Figlio" causa a Dio Padre una sofferenza più profonda di qualsiasi sofferenza dell'ordine creato. In questi ultimi anni, parecchi autori cattolici hanno fatto proprie simili proposizioni, ritenendo che il compito principale del crocifisso consistesse nel manifestare la passione del Padre.

2. L'Antico Testamento lascia spesso intendere - nonostante la trascendenza divina (cf. Ger 7,16-19) - che Dio è afflitto dai peccati degli uomini. Forse tutte queste espressioni non si possono spiegare come semplici antropomorfismi (cf. per esempio, Gn 6,6: "Il Signore si pentì d'aver fatto l'uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo"; Dt 4,25; Sal 78,41; Is 7,13; 63,10; Ger 12,7; 31,20; Os 4,6; 6,4; 11,8 s.). La teologia rabbinica è più forte ancora su questo argomento e parla, per esempio, di Dio che si abbandona a un lamento a motivo dell'alleanza che ha concluso e che lo vincola, o a causa della distruzione del tempio; e, nello stesso tempo, afferma la debolezza di Dio di fronte alle potenze del male (vedi i testi in P. Kuhn, "Gottes Trauer und Klage in der rabbinischen Uberlieferung", Leiden 1978, 170 ss., 275 ss.). Nel Nuovo Testamento, le lacrime di Gesù Cristo (cf. Lc 19,41), la sua collera (cf. Mc 3,5) e la tristezza che prova (cf. Mt 17,17) sono esse pure manifestazioni d'un certo modo di comportarsi di Dio; altrove si afferma esplicitamente che Dio si adira (cf. Rm 1,18; 3,5; 9,22; Gv 3,36; Ap 15,1).

3. Senza dubbio, i padri sottolineano (contro le mitologie pagane) l'apatheia di Dio, senza negare per questo la sua compassione per la sofferenza del mondo. Per essi il termine apatheia indica il contrario di pathos, parola che designa una passione involontaria, imposta dall'esterno, o anche come conseguenza della natura decaduta. Quando ammettono passioni naturali e innocenti (come la fame o il sogno), le attribuiscono a Gesù Cristo o a Dio in quanto egli sente compassione per le sofferenze umane (cf. Origene, Hom. in Ez. VI, 6; Comm. in Matth. XVII, 20; Sel. in Ez. 16; Comm. in Rom. VII, 9; De princ. IV, 4, 4). Talora si esprimono pure in forma dialettica: Dio in Gesù Cristo ha sofferto in un modo impassibile, perché lo ha fatto in virtù d'una libera scelta (Gregorio Taumaturgo, Ad Theopompum IV-VIII).

Secondo il concilio di Efeso (cf. la Lettera di san Cirillo a Nestorio: COD 42), il Figlio s'appropria i dolori inflitti alla sua natura umana (oikeiosis); e i tentativi di ricondurre questa proposizione (e altre simili che figurano nella tradizione) alla semplice "comunicazione degli idiomi", non ne rendono a sufficienza il senso profondo. Ma la cristologia della Chiesa non consente d'affermare formalmente che Gesù Cristo sia passibile secondo la sua divinità (cf. DS 16, 166, 196 s., 284, 293 s., 300, 318, 358, 504, 635, 801, 852).

4. Nonostante le cose dette or ora, i padri sopraccitati affermano chiaramente l'immutabilità e l'impassibilità di Dio (per esempio, Origene, "Contra Celsum", IV, 14). Così, escludono assolutamente dall'essenza divina la mutabilità e quella passività che permetterebbe un passaggio dalla potenza all'atto (cf. Tommaso d'Aquino, Summa Theol. I, q. 9, a. 1, c). Nella tradizione della fede della Chiesa, infine, per chiarire questo problema, s'è fatto ricorso alle considerazioni seguenti:

4.1. Riguardo all'immutabilità di Dio, occorre dire che la vita divina è inesauribile e senza limiti, cosicché Dio non ha in alcun modo bisogno delle creature (cf. DS 3002). Nessun evento creato potrebbe arrecargli alcunché di nuovo o attuare in lui una potenzialità qualsiasi. Dio non potrebbe dunque subire alcun cambiamento, né per diminuzione né per progresso. "Dunque, poiché Dio non è suscettibile di mutamento in nessuna di queste differenti maniere, è sua proprietà essere assolutamente immutabile" (Tommaso d'Aquino, Summa theol. I, q. 9, a. 2, c.). La stessa affermazione si trova nella sacra Scrittura riguardo a Dio Padre, "nel quale non c'è variazione né ombra di cambiamento" (Gc 1,17). Ma quest'immutabilità del Dio vivente non s'oppone alla sua suprema libertà, come dimostra chiaramente l'evento dell'incarnazione.

4.2. L'affermazione dell'impassibilità di Dio presuppone e implica tale modo di comprendere l'immutabilità, ma essa non va concepita come se Dio rimanesse indifferente agli eventi umani. Dio ci ama d'un amore d'amicizia, vuole essere riamato. Quando il suo amore viene offeso, la sacra Scrittura parla di sofferenza di Dio; parla invece della sua gioia, quando un peccatore si converte (cf. Lc 15,7). "La reazione sana della sofferenza è più vicina all'immortalità del torpore d'un soggetto insensibile" (Agostino, En. in Ps. 55,6). I due aspetti si completano reciprocamente; trascurando l'uno o l'altro, non si rispetta il concetto di Dio quale egli si rivela.

5. La tradizione della teologia medievale e dei tempi moderni ha posto in maggior luce il primo di tali aspetti (cf. sopra 4.1). In realtà, la fede cattolica anche oggi difende così l'essenza e la libertà di Dio (opponendosi a teorie esagerate, cf. sopra B, 1); ma anche l'altro aspetto (cf. sopra 4.2) merita una maggiore attenzione.

5.1. Ai nostri giorni, l'uomo desidera e ricerca una divinità che sia onnipotente, certo, ma che non appaia indifferente; anzi, che sia piena di compassione per le miserie degli uomini e, in questo senso, che "compatisca" con loro. La pietà cristiana ha sempre scartata l'idea d'una divinità indifferente alle vicissitudini della sua creatura; è persino incline ad ammettere che, come la "compassione" è una perfezione tra le più nobili dell'uomo, così si dia pure in Dio, senza alcuna imperfezione e in grado eminente, una compassione simile, cioè "l'inclinazione della commiserazione... non la mancanza della potestà" (Leone I: DS 293), e che tale compassione possa coesistere con la beatitudine eterna stessa. I padri chiamano questa misericordia totale per le pene e le sofferenze umane "passione dell'amore", amore che, nella passione di Gesù Cristo, ha superato le passioni e le ha rese perfette (cf. Gregorio Taumaturgo, Ad Theopompum; Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, 7: EV VII, 898-903).

5.2. V'è indubbiamente qualcosa da ritenere nelle espressioni della sacra Scrittura e dei padri, come pure nei tentativi recenti, sebbene richiedano un chiarimento nel senso sopra esposto. Ciò forse va detto anche per quanto riguarda l'aspetto trinitario della croce di Gesù Cristo. Secondo la sacra Scrittura, il mondo è stato creato liberamente conoscendo nell'eterno presente - in modo non meno attuale della stessa generazione del Figlio - che Gesù Cristo, agnello immacolato, avrebbe versato il suo sangue prezioso (cf. 1 Pt 1,19 s.; Ef 1,7). In questo senso, vi è una stretta corrispondenza tra il dono che il Padre fa al Figlio della divinità e il dono mediante il quale il Padre consegna suo Figlio all'abbandono della croce. Siccome però la risurrezione è essa pure presente nel piano eterno di Dio, la sofferenza della "separazione" (cf. B, 1.1) è sempre superata dalla gioia dell'unione; la compassione del Dio trinitario nella passione del Verbo viene compresa propriamente come l'opera dell'amore più perfetto, che è normalmente fonte di gioia. Il concetto hegeliano di "negatività", va escluso radicalmente dalla nostra idea di Dio. Nel tentativo e nell'esperienza di questa riflessione, la ragione umana e teologica affronta indubbiamente problematiche tra le più ardue (per esempio, quella dell'"antropomorfismo"); ma incontra pure in modo singolare il mistero ineffabile del Dio vivente, e sente i limiti dei propri concetti.

 

CONCLUSIONE

Il quadro delineato dalla nostra ricerca è debitore alla teologia scientifica odierna; non possiamo né vogliamo negarlo. Tuttavia, la realtà studiata, cioè la fede viva di tutta la Chiesa nella persona del Signore Gesù Cristo, tende - al di là delle frontiere delle culture particolari - a realizzare un'universalità sempre maggiore nella conoscenza e nell'amore del mistero di Gesù Cristo. Come l'apostolo Paolo s'è "fatto tutto a tutti" (1 Cor 9,22), a nostra volta dobbiamo immettere più profondamente l'annuncio evangelico di Gesù Cristo in tutte le lingue e in tutte le espressioni culturali dei diversi popoli. Compito tra i più ardui! Lo possiamo realizzare, solo rimanendo in continuo dialogo con la sacra Scrittura, con la fede e con il magistero della Chiesa, ma anche con le ricchezze delle tradizioni di tutte le chiese particolari e delle esperienze umane vissute in ogni cultura, ovunque l'azione e la grazia dello Spirito santo possono essere presenti (cf. Gaudium et spes, 44; Ad gentes, 15,22; Paolo VI, Evangelii nuntiandi, 64 EV V, 1677-1679; Giovanni Paolo II, Familiaris consortio, 10: EV VII, 1553-1556). Ci è di incoraggiamento a tendere verso questa meta il ricordo della parola detta agli apostoli: "Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra" (At 1,8).

   

 
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