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L’ERESIA DELLA VIOLENZA “IN NOME DI DIO”

(Serge-Thomas Bonino, O.P. Segretario generale della CTI)

 

“Chi vuole affogare il proprio cane, l’accusa di avere la rabbia” dice un proverbio francese. Le religioni sono rabbiose? Quanti desiderano escluderle dalla vita pubblica per relegarle nella sfera strettamente privata vorrebbero farlo credere. Così, prendendo a pretesto la dimensione apparentemente religiosa dei conflitti che insanguinano il pianeta, fomentano il pregiudizio secondo il quale le religioni, e specialmente le religioni monoteistiche, sarebbero per natura fattori di divisione tra gli uomini. Per porre fine alle violenze e garantire la pace universale, ci sarebbe una sola soluzione: la secolarizzazione a oltranza.

Questa argomentazione è una delle forme che assume oggi il pensiero antireligioso. L’ateismo dogmatico è diventato marginale, anche se, nella sua forma scientista, impregna la mentalità secolare comune, ma, in una cultura conquistata dal relativismo, passa paradossalmente per una sorta di fanatismo religioso. Dunque non si combatte più tanto Dio quanto l’homo religiosus. Essendosi diffuso il pregiudizio che il relativismo è la sola filosofia in sintonia con le esigenze della democrazia liberale, ogni comportamento che si riferisce a una verità trascendente, universale e assoluta, viene percepito come una minaccia per la pace civile. La fede religiosa è denunciata come una patologia sociale.

Questa strategia di demonizzazione di tutto ciò che è religioso non risale a ieri. Lo Stato moderno, religiosamente neutrale e politicamente onnipotente, non si è forse imposto autoproclamandosi unico rimedio di fronte alle guerre di religione? La denuncia si è poi concentrata sulle religioni monoteistiche perché si pensa che generino una “mentalità” intollerante nei loro credenti in quanto questi  pensano di possedere una verità universale e assoluta. “L'intolleranza è intrinseca soltanto alla natura del monoteismo” riassumeva Schopenhauer. “Un Dio unico, è, per sua natura, un Dio geloso, che non tollera nessun altro dio, accanto a sé. Invece gli dèi politeistici, per loro natura, sono tolleranti. Sono soltanto le religioni monoteistiche a offrirci lo spettacolo delle persecuzioni religiose, nonché dei processi agli eretici e della distruzione delle immagini degli dèi stranieri”. (Parerga et paralipomena. Sulla religione [1851]). Da allora, la critica del monoteismo si è nutrita del primato che la post-modernità attribuisce alla differenza sull’identità, alla pluralità sull’unità, al relativo sull’assoluto.

In questo contesto è un bene che la Commissione teologica internazionale (CTI) si sia occupata del problema. Una sottocommissione, presieduta da Padre Philippe Vallin, ha lavorato per cinque anni sul tema, in uno scambio costante con l’intera CTI. Il frutto di questo lavoro è un bel saggio vigoroso, Dio Trinità, unità degli uomini. Il monoteismo cristiano contro la violenza, approvato dall’intera CTI il 6 dicembre 2013. Il documento non si presenta come un trattato esaustivo di teologia ma come un’“argomentata testimonianza” (Presentazione). 

La sua tesi è inequivocabile: per quanto riguarda la fede cristiana, la violenza “in nome di Dio” è un’eresia pura e semplice. Qui non c’è alcuna concessione allo spirito del tempo, ma una convinzione che nasce dal cuore stesso del Vangelo. Il documento, in effetti, si propone di “neutralizzare la giustificazione religiosa della violenza sulla base della verità cristologica e trinitaria di Dio” (Presentazione). Il rifiuto di qualsiasi violenza religiosa è determinato soprattutto dalla contemplazione di Gesù Cristo nella sua Passione, che “oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a colui che giudica con giustizia” (1Pietro 2, 23). Senza che ciò giustifichi una qualsivoglia divinizzazione morbosa della sofferenza, Cristo prende su di sé come vittima la violenza degli uomini, compresa la violenza religiosa, e la distrugge alla sua radice con la potenza dell’amore. La violenza non si giustifica dunque né per vendicare i diritti di Dio né per salvare gli uomini loro malgrado, poiché “la verità non si impone che per la forza della verità stessa” (Vaticano II, Dichiarazione Dignitatis humanae, n. 1). “Dio non si compiace del sangue. Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio […]. Chi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno di una lingua abile e di un pensiero corretto, non della violenza, né della minaccia e neppure di qualche strumento di offesa o di terrore” (Manuele II Paleologo, Dialoghi con un musulmano, 7ͣ controversia, “Sources chrétiennes 115”, p. 144-145, citato da Benedetto XVI nel suo discorso di Ratisbona il 12 settembre 2006).  È questo il paradosso del cristianesimo: il rispetto scrupoloso della libertà religiosa non è motivato da una forma di relativismo ma deriva da ciò che vi è di più “dogmatico” nell’idea che la fede cristiana offre di Dio.

Pretendere così che il rifiuto di ogni violenza in nome di Dio sia inscritto nel cuore stesso della fede cristiana rende necessaria un’autocritica della prassi storica dei cristiani. In effetti, nel corso del suo pellegrinaggio nella storia, il popolo di Dio non è sempre stato all’altezza di questa convinzione e il Beato Giovanni Paolo II, in occasione del grande giubileo dell’anno 2000, ha chiesto perdono per l’“acquiescenza manifestata” da alcuni figli della Chiesa, “specie in alcuni secoli, a metodi di intolleranza e persino di violenza nel servizio alla verità” (Tertio millennio adveniente, n. 35). Ma oggi - ritiene la CTI -  ci sono le condizioni per “l’irreversibile congedo del cristianesimo dalle ambiguità della violenza religiosa” (n. 64). In questa linea, il documento s’impegna a sciogliere i legami occasionali che si sono potuti tessere nella storia tra cristianesimo e violenza religiosa e a interpretare correttamente le “pagine difficili” della Bibbia che sembrano legittimare la violenza religiosa (n. 24-30).

Nel dibattito su monoteismo e violenza, il documento ha fatto attenzione a evitare due soluzioni facili. La prima sarebbe consistita nel dissociare il cristianesimo dal monoteismo: sì, concediamo che il monoteismo sia fattore di violenza, ma precisiamo subito che il cristianesimo sfugge a questa accusa perché annuncia il mistero di un Dio Trinità, che è, in sé, comunione nella differenza. Al contrario, sottolinea il documento, il mistero trinitario non si afferma assolutamente a detrimento del monoteismo. Certo, la confessione di fede nella Trinità determina nel profondo la comprensione cristiana del monoteismo. Ma il concetto di monoteismo, se non è univoco, non è neppure equivoco. La CTI scarta il “fraintendimento, filosofico e anche religioso, dovuto al sospetto che l’enfasi cristiana sull’incarnazione di Dio, come anche la relazione trinitaria nella vita di Dio, avvengano al prezzo della perdita della purezza, della trascendenza, della perfetta semplicità di Dio” (n. 78). L’affermazione dell’assoluta semplicità di Dio, su cui insiste il documento, garantisce che la confessione della Trinità non sia un triteismo di fatto, compensato dalla conseguente comunione delle persone, ma che sia inseparabile dal riconoscimento dell’unicità della sostanza divina, come già esige la ragione.

Una seconda facile soluzione apologetica sarebbe stata quella di dissociare la fede cristiana dalla religione: sì, concediamo che la religione sia fattore di violenza, ma precisiamo subito che il cristianesimo non deriva dalla religione ma dalla fede. Al contrario, il documento insiste sul valore intrinseco dell’esperienza religiosa in quanto tale. Come la grazia non distrugge la natura ma la guarisce e la porta al suo compimento, così la fede cristiana assume la dimensione religiosa della condizione umana. La purifica riconducendola alla sua essenza autentica, la quale unisce inseparabilmente amore di Dio e amore del prossimo, di modo che ogni violenza in nome di Dio sia “una corruzione dell’esperienza religiosa” (n. 95).

Questo punto è fondamentale per il dialogo interreligioso. I teologi cattolici che hanno redatto questo documento non hanno voluto parlare a nome dei credenti delle altre religioni monoteiste, ma li invitano a intraprendere un analogo percorso di purificazione all’interno delle proprie tradizioni. Nella misura in cui queste sono l’espressione di una religione autentica, non possono che rifiutare la violenza religiosa. Non è significativo che il beato Giovanni Paolo II abbia posto l’incontro interreligioso di Assisi del 1986 sotto il segno della pace? Lungi dall’essere fattori di divisione, le religioni, quando sono fedeli alla loro essenza e senza rinnegare nulla del loro senso dell’assoluto, sono fermenti di pace. Ecco perché sarebbe un suicidio tenerle separate dalla vita sociale e politica.

 

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